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«Padre, ricordi il giovane prete che ha viaggiato con noi?» disse Giuditta mentre la barca virava, abbandonando il Canal Grande.

«Mercurio, sì» rispose Isacco, distratto.

«Mi è appena sembrato di vederlo, sulla riva, che ci faceva dei gesti…» disse Giuditta. «Solo che non era più vestito da prete.»

Isacco si voltò, improvvisamente attento. «Ah…» annuì, mentre prendeva tempo. «Be’… a quella distanza i ragazzi si assomigliano tutti, bambina mia. Però non poteva certo essere lui.»

Giuditta, invece, sapeva che era Mercurio. E lo sapeva perché, appena visto, aveva sentito un’oppressione al petto, come se qualcuno ci pigiasse sopra una mano, e un attimo dopo si era sentita felice. Sapeva che era lui perché da quando si erano presi per mano non aveva mai smesso di averlo nella testa, anche se cercava di allontanare il pensiero. Non replicò al padre. Si limitò a guardare verso il Canal Grande, ormai quasi completamente nascosto da un palazzetto di marmo giallo e verde. E non capì perché non aveva risposto ai suoi gesti. Era quello che avrebbe voluto fare, con tutta se stessa. E invece era rimasta immobile, pietrificata.

Donnola intanto aveva finalmente capito chi era il giovane che lo aveva rincorso e gli venne da ridere pensando che aveva avuto paura di lui. E stava per dirlo ad alta voce, confermando l’ipotesi di Giuditta, quando si sentì strattonare per una manica.

«Evitiamo quel ragazzo» gli sussurrò Isacco all’orecchio. «Porta guai.» Poi si voltò verso la figlia. Giuditta non lo stava guardando. «Quanto manca?» chiese ad alta voce al barcaiolo.

«Ci siamo. A metà del rio de la Madoneta scendete e fate un pezzetto della salizada San Polo. La casa di Anselmo del Banco è la più grande e la più ricca.» Quindi l’uomo scosse il capo e borbottò a mezza bocca: «Anselmo è una sanguisuga».

«Così sai chi chiamare se ti serve un salasso» disse Donnola. «E ora rema e sta’ zitto. Il dottore non ti paga per sentirti insultare i suoi amici, minchione.»

La barca accostò alle fondamenta, in prossimità di un attracco, e i passeggeri scesero. Fecero pochi passi e si ritrovarono in campo San Polo, che era lastricato e al centro aveva un bel pozzo coperto. Alcuni spazzini si davano da fare per raccogliere l’immondizia con i loro scopettoni e delle grosse pale di legno.

«Il mercoledì è giorno di mercato» spiegò Donnola. Poi puntò il dito verso un bel palazzetto a tre piani, quasi di fronte alla chiesa. «Ecco, Anselmo del Banco abita lì. È molto potente, oltre che ricco» disse con aria da cospiratore. «Cinque anni fa, in questo campo, frate Ruffin fece una predica contro gli Israeliti davanti a duemila persone e si racconta che il vostro caro banchiere andò al Consiglio dei Dieci a protestare e quelli… allontanarono il frate da Venezia. Chiedeteglielo.»

Arrivati al portone, Isacco guardò imbarazzato Donnola. «Mi spiace ma…» cominciò a dire.

Donnola rise. «Lo so che sono un goi e non posso entrare in casa del banchiere.» Rise di nuovo. «Non vi preoccupate, dottore. E che sarà mai se per una volta è un cristiano e non un giudio a non poter andare da qualche parte, vi pare?»

Isacco sorrise, divertito. Donnola gli piaceva.

Bussò. Un servo in livrea aprì.

«Sono Isacco da Negroponte e questa è mia figlia Giuditta. Asher Meshullam ci aspetta.»

Il servo si inchinò, si fece da parte, li lasciò entrare e, senza degnare di uno sguardo Donnola, richiuse il portone. Poi, sempre in silenzio, si avviò verso un cortile interno, nel quale crescevano alberi di cedro e di arancio. In mezzo al cortile, sotto una tenda di seta, gialla e rossa, era seduto un uomo magro e piccolo. Teneva le mani a palmi aperti sul tavolo di fronte a sé, al centro del quale era appoggiato un braciere da cui si sprigionava un piacevole tepore.

«Siediti» disse l’uomo a Isacco. Aveva una voce sottile, quasi da donna. Ma comunicava una grande forza.

«Asher Meshullam, è un onore essere ricevuto in casa vostra» disse Isacco.

«Siediti» ripeté il banchiere, e batté la mano su una poltrona damascata che gli stava a lato. Poi si rivolse a Giuditta. «Forse tu vuoi vedere da vicino quelle piante esotiche. Le più alte sono di citrus medica. Le altre sono aranci dolci. Il clima di Venezia non è il più adatto a queste piante perché amano il sole. E perciò le vedi stente. Ma come noi ebrei sono forti e capaci di adattarsi.»

Isacco fece segno a Giuditta di andare e poi si sedette.

Giuditta sorrise distante. Non le interessavano le piante di Asher Meshullam. Però era felice di potersene stare per conto suo, in compagnia dei suoi pensieri. “Ti troverò” le aveva detto Mercurio. E quel giorno l’aveva trovata, aveva urlato il suo nome. Perché allora lei non aveva risposto? Perché non aveva urlato il nome di Mercurio? Perché non aveva detto al padre di accostare la barca? Giuditta non sapeva rispondere a nessuna di quelle domande. «Perché ho paura» bisbigliò accarezzando la foglia liscia di un arancio. E poi, con rabbia, la strappò. «Perché sono una ragazzina» disse. Si voltò verso il padre e Asher Meshullam. Non l’avevano vista. Lasciò cadere a terra la foglia. «Perché sono una ragazzina» ripeté, senza rabbia. E poi pensò che a Venezia sarebbe diventata donna.

Appena solo con Isacco, il banchiere aveva ripreso a parlare. «Sai come vengono chiamate le arance? Portogalli. Ci sono alcuni illustri medici, tuoi colleghi, che sostengono che mangiare portogalli, in navigazione, può aiutare i marinai a tenersi lontani dallo scorbuto. Tu che ne pensi?»

Isacco sapeva che nessuna domanda del capo indiscusso della comunità israelitica veneziana, nonché il più importante banchiere dei territori della Serenissima, lagunari e di terraferma, era fatta senza una ragione. «Se illustri scienziati sostengono questa teoria, come potrebbe un semplice medico come me confutarla?»

Il banchiere lo guardò intensamente, senza sorridere e senza per questo essere serio. «C’è molta superstizione per i mari, più che scienza. Ho sentito parlare di amuleti prodigiosi…» E di nuovo fissò Isacco con i suoi occhi piccoli e acuti, neri come la pece.

Isacco si strinse nelle spalle, come a dire che non ne sapeva nulla. Ma l’allusione al Qalonimus non poteva essere casuale. Il banchiere intendeva mandargli un messaggio.

Asher Meshullam fece un cenno al servo, che prese una brocca d’argento sbalzato, con il manico d’osso, e riempì di vino due bicchieri di finissimo vetro soffiato, con il bordo d’oro zecchino. Il banchiere sollevò il proprio bicchiere. «È casher» disse. «Tu segui la Legge, vero?»

Anche quella domanda era una prova, pensò Isacco, e si disse che se Asher Meshullam governava il suo popolo e trattava con i potenti di Venezia quasi da pari a pari, sapeva vedere ben oltre il proprio naso. Perciò non era il caso di mentire spudoratamente. «Asher» disse con modestia e orgoglio insieme, perché aveva imparato che era la miscela ideale per simulare la sincerità, «se io dovessi seguire alla lettera tutte le seicentotredici mitzvot e metterle in atto ogni giorno, non avrei tempo né per lavorare né per respirare, forse. El-Shaddai, l’Onnipotente, è misericordioso con il suo servo. Sa che il mio cuore è puro… per quel che può esserlo. E se a volte mi capita di avere nel mio calice del vino non casher, vi devo confessare che lo bevo ugualmente. Ma certo non mangio né il porco né la carne impura.»

Il banchiere sorrise compiaciuto. Intinse appena le labbra nel bicchiere e lo poggiò sul tavolo. «Qualche giorno fa al porto c’era un equipaggio macedone» riprese a dire, con quel suo modo quasi casuale di affrontare gli argomenti, come se non stesse parlando di nulla. «Raccontavano di un imbroglione ebreo che aveva una figlia dell’età della tua.»

«Ah sì?»

«Dicevano che non aveva pagato il viaggio e li aveva truffati.»

«Ah, aspettate…» fece Isacco, toccandosi la fronte con un dito e agitandolo poi nell’aria, come se avesse ricordato solo allora. «Sì, che coincidenza, ne ho sentito parlare anch’io, appena arrivato. Ma a me l’hanno raccontata diversamente. Mi hanno detto che l’ebreo ha pagato con tre bei bauli pieni di sassi.»

Asher Meshullam rise piano, compiaciuto. Cominciava a capire chi aveva davanti. «Strana gente questi macedoni» disse. «Che se ne faranno mai di così tanti sassi?»

«E chi può saperlo?» fece Isacco, scuotendo la testa. «Paese che vai, usanza che trovi.»

Asher Meshullam rise divertito, ma subito dopo divenne serio. «La mia unica preoccupazione è che questo ebreo sia davvero un imbroglione. Vedi, l’equilibrio con i veneziani è assai instabile, in modo particolare di questi tempi. Non abbiamo bisogno di attriti.»

«Capisco. Ma io ho avuto l’impressione che questo ebreo, in realtà, non esista e sia solo frutto della fantasia di certi ubriaconi macedoni. Credo che non se ne sentirà più parlare, una volta partita la galea.»

«Tu come sei arrivato qui?»

«Scortato dalla benedizione di Ha-Shem, sempre sia lodato, e consumando un buon paio di scarpe, per via di terra, sapendo che a noi non è consentito approdare in laguna.»

«Per via di terra, dunque?»

«Per via di terra» ripeté Isacco, senza abbassare lo sguardo e reggendo l’indagine dei piccoli occhi di Asher Meshullam.

Ci fu un lungo silenzio. Poi il banchiere parlò: «Ed è questo che dirò di te alla comunità e ai Cattaveri».

«Lo direte perché è così.»

«Lo dirò, Isacco» fece Asher Meshullam stringendogli la mano sul braccio, «perché è così che deve essere.»

Isacco annuì. Il messaggio era chiaro. Asher Meshullam non aveva creduto a una sola parola di quello che gli aveva detto. «E così sia, allora. Amèn.»

«Amèn Selah» rispose il banchiere, levò la mano dal braccio di Isacco e gli sorrise. «Sei il figlio del medico del bailo dell’isola di Negroponte. Questa è la tua garanzia qui.»

Isacco chinò il capo, in segno di rispetto e umiltà. «Che il Santo vi benedica, Asher Meshullam.»

«Impara a chiamarmi Anselmo del Banco, come tutti in città. Anche tu non ti chiami Isacco da Negroponte. Ma ai veneziani piacciono le mascherate, ricordatelo.»

«Non lo scorderò.»

«Prendi casa tra la tua gente» continuò il banchiere. «Oggi la maggior parte di noi vive nelle contrade di Sant’Agostin, di Santa Maria Mater Domini o qui in San Polo. Dai retta a me, prendi casa tra la tua gente e, siccome sei un medico, prendila grande. Così sarai un grande medico. Anche a noi piacciono le mascherate.»

«Grazie… Anselmo.»

«E ora mostrami le pietre di cui mi parlavi nel tuo messaggio e vedrò quanto posso darti» fece Anselmo del Banco e socchiuse gli occhi, sospirando, come afflitto da una pena. «Ma purtroppo devo dirti che sono tempi duri…»

Isacco pensò che c’era un prezzo da pagare se si facevano affari con un banchiere. Depositò sul tavolo i due smeraldi, i due rubini e il diamante. «A vederle così magari non sembrerebbe, ma è stato un gran peso portare fin qui queste pietre, credetemi.»

 

«E io ti credo, Isacco da Negroponte.» Anselmo del Banco lo guardò con un sorriso aperto, quasi da ragazzino. «Perché pensi che si dica che noi ebrei ce la prendiamo sempre in culo?» E scoppiò a ridere.