11

 

Roma

Shimon Baruch aprì gli occhi.

Si sentì perso. Non sapeva dove si trovava.

Poi ricordò.

Ogni giorno gli succedeva la stessa cosa. Ogni mattina. Da una settimana. Da quando si era svegliato. Da quando, come dicevano i medici e la moglie, Ha-Shem, l’Onnipotente, il Santo Benedetto, aveva deciso di salvarlo. Si svegliava e non sapeva dove si trovava né chi era. Lui che aveva sempre saputo tutto, fin nei minimi dettagli. Lui che aveva vissuto una vita minima, attento a non farsi notare, a non avere problemi. Lui, ora, da una settimana, si svegliava e non si riconosceva. Perché qualcosa di radicale era avvenuto dentro di lui. Qualcosa che Shimon Baruch non era in grado di governare. E appena ricordava chi era e dove si trovava, immediatamente gli si formava nella mente l’immagine di quel ragazzo che lo aveva imbrogliato e derubato. La sua faccia magra, i suoi capelli scuri e gli occhi neri, quel sorriso spavaldo. E poi Shimon vedeva baluginare la lama dello spadino, e una sensazione cupa, pesante come una cappa, lo avvolgeva, forzando ancora quella trasformazione che stava avvenendo in lui da una settimana.

Si mosse piano nel letto. Accanto a lui sentiva il respiro leggero della moglie. In quegli ultimi giorni, come la donna si accorgeva che era sveglio, scattava in piedi, gli preparava la colazione, lo riempiva di attenzioni, lo lavava, lo rasava. E non smetteva un attimo di parlare e piangere.

Ma lui aveva voglia di stare da solo.

Soprattutto quella mattina. Perché forse sarebbe stata la sua ultima mattina da uomo libero. Per l’indomani era fissata la prima udienza del processo che lo riguardava. Appena era stato considerato in via di guarigione, la scure della giustizia si era abbattuta su di lui. Se non si trovava già recluso nel carcere di Curia Savella era solo perché l’avvocato che aveva preso in carico la difesa aveva conoscenze altolocate. E per questi privilegi si faceva pagare lautamente.

Ma tutte le conoscenze del mondo non avrebbero potuto salvarlo dalla condanna. E lo sapeva. Era un ebreo, armato, accusato di omicidio. Poco importava che fosse stato derubato. Un cristiano, nelle sue stesse condizioni, avrebbe potuto fare una strage e avrebbe avuto tutte le attenuanti, perché avrebbe ucciso un delinquente. Lui, invece, aveva ucciso una pecorella del gregge e il Sommo Pastore gliel’avrebbe fatta pagare cara. L’avvocato diceva che con quattro o cinque anni di prigione e una salatissima sanzione pecuniaria se la sarebbe cavata. Cavata, aveva detto proprio così.

«Marito mio, ti sei svegliato da tanto?» fece la moglie, accorgendosi che lui aveva gli occhi aperti.

Shimon non la guardò. Trattenne un moto di fastidio.

«Cosa vorresti mangiare per rimetterti in forze, oggi?» continuò lei, alzandosi dal letto e orinando nel pitale.

Shimon non mosse un muscolo.

«Aringa e pane azzimo? O preferisci qualcos’altro?» La moglie del mercante si tirò giù la camicia da notte e buttò il contenuto del pitale fuori dalla finestra. Fece il giro del letto e si mise di fronte al marito. «Allora? Dimmi tu.»

Shimon spostò gli occhi su di lei. Avrebbe voluto dirle di andare al diavolo. Avrebbe voluto dirle di strozzarsi con l’aringa e il pane azzimo. Avrebbe desiderato dirle che non voleva finire in prigione, che non sapeva come pagare l’avvocato né la sanzione che lo aspettava. Avrebbe voluto dirle un fiume di parole.

Ma non poteva.

Perché Shimon Baruch era diventato muto dopo che la lama dello spadino gli si era conficcata in gola.

Si alzò dal letto e andò al tavolo, dove la moglie aveva attrezzato uno scrittoio, come in ogni stanza della casa, con della pergamena, una penna d’oca e un calamaio sempre pieno. Perché a Shimon Baruch non restava altro modo di comunicare.

“Brodo” scrisse.

La moglie si affrettò in cucina, starnazzando ordini all’indirizzo della serva.

Shimon si toccò la gola. La benda era ancora umida di sangue. Andò davanti a uno specchio di argento vivo. Si guardò.

La moglie rientrò in camera. «Adesso ti aiuto a vestirti, marito mio. Ma prima ti aiuto a lavarti. E se vuoi ti aiuto a pregare.» Gli andò alle spalle e cominciò a piangere. «Che faremo, marito mio? Che dramma. Perché doveva capitarci questo? Che male abbiamo fatto? Perché Ha-Shem ha deciso di metterci alla prova?»

Lo abbracciò.

Shimon la spintonò via, con rabbia. E poi aprì la bocca. Per urlare. Con tutto il fiato che aveva in gola. Ma uscì solo un sibilo. Terribile. Più pauroso di qualsiasi urlo. Il sangue sulla benda schiumò. Shimon la strappò via, urlando di nuovo, fino a gonfiare le vene del collo. La ferita spruzzò sangue sullo specchio.

«No, marito mio…» piagnucolò la moglie.

Shimon si voltò. Aveva disprezzo negli occhi. E odio. Andò allo scrittoio.

“Tu non sai cosa ho dentro” scrisse. “Io non sono più io.”

La moglie singhiozzò.

“Vattene” scrisse Shimon.

La donna, quasi trascinandosi, uscì dalla stanza.

Rimasto solo, Shimon sentì che l’odio e la rabbia che provava lo rendevano più forte. Più vivo. “Non ho altro” pensò. Mentre si avvolgeva una nuova benda pulita intorno al collo tornò davanti allo specchio. “Odio e rabbia” si ripeté. Si guardò negli occhi. E allora vide altro. “Paura.” Cercò di distogliere lo sguardo. Ma era come paralizzato. E più si guardava, più sentiva crescere la paura. Presto sarebbe rimasta solo quella, se non si fosse staccato dallo specchio. Ma non riusciva a muovere i piedi e le gambe. E allora, un attimo prima che la paura cancellasse definitivamente l’odio e la rabbia, fece l’unico movimento che era in grado di compiere. Si piegò in avanti, di scatto, con tutta la sua forza, e colpì lo specchio con la fronte. Sentì l’impatto, il rumore, le schegge che gli tagliavano la pelle, il sangue caldo che gli colava sugli occhi e faceva diventare tutto rosso.

La porta della stanza si aprì. La moglie, sull’uscio, gridò, si portò le mani alla bocca e fece per andare incontro al marito.

Shimon la fissò. E si mise a ridere. Poi la spinse fuori e chiuse la porta, sbattendola con violenza.

“Non ti guarderai mai più in uno specchio” si disse.

Prese un lembo del lenzuolo nel quale aveva dormito e si tamponò la ferita alla fronte. Dopo poco il sangue smise di scorrere. La ferita non doveva essere profonda, non molto più di un graffio. Nulla capace d’impressionare un uomo che poteva infilarsi il dito indice in gola e sentire l’aria entrare e uscire.

“Non ascolterai mai più la paura.”

Si vestì e poi aprì la porta. Fece segno alla moglie di portargli il brodo caldo e di tacere. E assaporò il brodo e il silenzio.

“Di’ alle guardie che sono andato a uccidermi al fiume” scrisse.

«No! Marito mio, no!» scoppiò a piangere la moglie.

Shimon alzò una mano, come per darle uno schiaffo. La moglie indietreggiò. Non l’aveva mai picchiata prima di allora, eppure pensò che non avrebbe provato dispiacere nel farlo. E nemmeno piacere. Abbassò la mano senza colpirla e intinse di nuovo la penna d’oca nel calamaio, ma si rese conto che non aveva altro da dirle. Non più. Buttò la penna sul tavolo e si avviò verso l’uscita, senza prendere la berretta gialla. Però prese tutti i soldi.

Camminò fino alla chiesa di San Serapione Anacoreta. Era una chiesetta di periferia, frequentata da povera gente che metteva al mondo figli con l’abbondanza dei conigli.

Shimon aveva calcolato che a quell’ora sarebbe stata deserta. Entrò nella sagrestia. Era fredda nonostante il piccolo camino acceso. Il parroco, un vecchio prete grassoccio, con le unghie nere come pece, stava bevendo del vino, con i gomiti appoggiati al piano tarlato di un tavolo. La perpetua gli stava accanto e beveva con lui. Il religioso sembrò infastidito di ricevere visite, ma quando Shimon gli mostrò un pezzo d’argento si alzò subito in piedi e cominciò a scodinzolargli intorno ossequiosamente.

Shimon scrisse al parroco che era diventato muto in seguito a un incidente che gli aveva anche levato la memoria. Ma sapeva di essere stato battezzato in quella parrocchia, continuò, e perciò doveva essere rimasta traccia della sua identità.

«Ricordi in che anno, figliolo?» chiese il parroco.

“1474” scrisse Shimon.

«Dunque hai quarantun anni» fece il religioso guardandolo.

«Se li porta male» disse la perpetua.

«Taci, sciagurata» la rimproverò il parroco.

«Lo pensate anche voi.»

«Scusala, non regge il vino» disse e andò in una stanza attigua. Tirò giù un librone impolverato da uno scaffale arcuato dal peso dei documenti che reggeva. Sulla copertina rigida del volume c’era scritto “1470-1475”. Lo appoggiò sul tavolo. E poi si grattò la testa. «Ma come ti troviamo se non ricordi come ti chiami?»

Shimon si batté il petto, come a dire che ci avrebbe pensato lui. Aprì il librone e cominciò a scorrere le decine e decine di nomi. Ogni tanto trovava un foglio non rilegato e ingiallito dal tempo, infilato tra le pagine. A gesti chiese cosa fossero.

«Certificazioni di battesimo che non sono state ritirate» sospirò il parroco. «La gente del popolo è ignorante, sai com’è. Non capisce che il certificato di battesimo vale più di qualsiasi altro documento.»

Shimon annuì. Lui invece lo sapeva. Continuò a sfogliare il librone. E a un certo punto trovò ciò che faceva al caso suo. Prese un certificato e si indicò. E poi indicò di nuovo il certificato.

«Sei tu questo, figliolo?» Il parroco lesse il certificato. «Sei Alessandro Rubirosa? Ma qui dice che è nato nel 1471, non nel 1474.»

Shimon alzò le spalle. Tornò a indicare il certificato e poi si batté ancora il petto.

«A me pare strano, figliolo» borbottò il religioso. «E poi perché non hai mai ritirato il certif…»

«Alessandro Rubirosa?» intervenne la perpetua. «Impossibile! Io so chi è questo tizio.»

Shimon si irrigidì.

«Me lo ricordo perché è morto da… Che sarà? Non più di un paio di mesi» continuò la donna e poi diede una manata sulla spalla al parroco. «Avanti, dovete ricordarlo pure voi. È quello che è morto ammazzato nella rissa all’osteria dell’Ippocampo.»

«Quello?» fece il parroco, strizzando gli occhi nello sforzo di ricordare. «Sei sicura che si chiamasse così?»

«Come sono sicura che il mio culo è tormentato dalle emorroidi» disse la perpetua incrociando le braccia in petto.

Il parroco scosse la testa, per nulla scandalizzato da quel modo di parlare. Si voltò verso Shimon, sventolando in aria il pezzo di carta. «Non è così che ti chiami, figliolo. Vedi? Questo povero disgraziato è morto.» Si avviò verso il camino. «E non verrà certo a reclamare il suo certificato. Be’, una scartoffia in meno» e fece per gettare il foglio nel camino.

Shimon scattò e glielo strappò di mano.

«Non sei tu, figliolo caro» insisté il parroco. «Mi dispiace…»

Shimon piegò il certificato e se lo mise in tasca.

«Ma cosa fai? Rassegnati, non sei tu.»

Shimon prese la penna e scrisse su una pagina del librone: “È vero. Non sono io”.

«Ma allora…?» Il parroco aveva un’espressione perplessa.

Shimon strappò la pagina sulla quale aveva scritto e la buttò nel camino. Poi afferrò saldamente l’attizzatoio, si voltò e colpì il parroco alla fronte. Il sacerdote gemette e si accasciò in terra. La perpetua rimase pietrificata mentre Shimon finiva il parroco. E solo quando venne il suo turno di essere massacrata provò a scappare. Il primo colpo la raggiunse alla nuca. Il secondo le fracassò il cranio.

Poi Shimon Baruch rimise a posto il librone, svuotò la cassetta delle elemosine e indossò la tonaca del parroco. Per qualche giorno sarebbe stato un religioso. Avrebbe dato meno nell’occhio in una città come Roma. Vestito così non lo avrebbe riconosciuto nemmeno sua moglie. Sorrise. Lesse un’ultima volta il certificato di battesimo di Alessandro Rubirosa che gli consegnava una nuova vita.

“Non sarai mai più un ebreo” si disse, uscendo da San Serapione Anacoreta. Lasciò che l’odio e la rabbia gli crescessero dentro. “E non avrai pace finché non avrai trovato quel maledetto ragazzo e lo avrai fatto soffrire.”