Capitolo 44
Dan si aspettava di trovare anche Ginevra innevata, ma nonostante fosse freddo, le strade erano asciutte e il cielo era terso e blu. Chiamò subito Tom Crossley e parlò con una donna che gli disse che lo stava aspettando, quindi si diresse da loro.
Vivevano in un condominio moderno in centro. La stessa donna che gli aveva risposto al telefono aprì la porta: doveva essere originaria del Sudest asiatico, benché non fosse in grado di capire di quale paese. Sorrise e lo accompagnò in un salotto dove Crossley era seduto sul pavimento, intento a giocare con un trenino di legno insieme a un bambino piccolo.
Dan si sentì invadere da un’ondata di tristezza, ma cercò di metterla da parte e guardò fuori dalle finestre: nonostante l’edificio sorgesse al centro di una zona con molti palazzi, aveva una splendida vista sul lago e sulle montagne alle sue spalle. Anche l’interno era bello: ampio, ordinato, minimale.
Crossley sollevò lo sguardo: era un cinquantenne che dimostrava la propria età, con il volto segnato, ma comunque davvero in forma, i muscoli delle braccia e del petto ancora nettamente definiti sotto la T-shirt e la testa rasata che non lasciava capire se fosse brizzolato o calvo. Sorrise e chiese: «Dan Hendricks?».
«Sono io, grazie per avere accettato di vedermi, signor Crossley.»
«Chiamami Tom, sono felice che tu sia venuto.» Balzò in piedi con un movimento agile. «Hai già incontrato Patty.» Quindi la guardò e le disse: «Noi andiamo nello studio».
«Qualcosa da bere?»
Guardò Dan con aria interrogativa e lui rispose: «Sono a posto, grazie».
«Allora niente. Grazie, Patty.»
Patty annuì e prese il posto di Tom accanto al bambino, cui disse qualcosa nella sua lingua: a sentirla parlare sembrava vietnamita.
Mentre si dirigevano verso lo studio, uno spazio più ingombro, pieno di ricordi di viaggio e cimeli militari, libri e giornali, ritagli di quotidiani, Tom chiese: «Per cui hai visto Eliot Carter: chi ti ha messo in contatto con lui?».
«Georges Florian, della DGSE.»
Tom indicò una poltrona, ma si fermò quando stava per sedersi. «Georges Florian? Era nella Legione straniera anni fa?»
«Proprio lui.»
«Cavoli. Pensavo fosse morto.» Si sedette. «E quella vecchia checca di Carter come sta? Vive ancora con il suo fidanzato arabo?»
«Sì, il suo appartamento è una specie di Marocco in miniatura.»
Tom rise. «Che Dio lo benedica. E lascia che ti dica una cosa: nel nostro lavoro quell’uomo vale tanto oro quanto pesa.»
Dan si chiese cosa sapesse Tom di lui e della sua vita lavorativa, o se avesse soltanto dedotto che fossero nello stesso settore.
«Lavori ancora, Tom?»
«In realtà no. Ma tu sai come vanno queste cose.» Infilò una mano in un cassetto e vi frugò per qualche secondo prima di tirare fuori una busta dall’aria vissuta. Poi la sollevò e aggiunse: «È buffo, la stavo guardando proprio il giorno prima che Eliot mi chiamasse per avvertirmi che saresti venuto. Quando me l’ha detto, mi sono sentito sollevato. Sai, prima di scomparire, Jack mi ha mandato questa chiave per una cassetta di sicurezza di Parigi, con tutte le informazioni necessarie dentro la busta. Aveva detto che un giorno sarebbe tornato a prenderla o che sarebbe passato qualcuno. Be’, suppongo che tu sia quel qualcuno».
Si sporse in avanti e posò la busta sulla scrivania accanto a Dan.
Dan stava per replicare, per protestare che non aveva alcun titolo per agire come rappresentante di Redford, ma non lo fece. Dapprima si disse che a Patrick sarebbe probabilmente servito il contenuto della cassetta di sicurezza, di qualunque cosa si trattasse, ma poi capì che la semplice verità era che desiderava avere tutte le informazioni che fosse riuscito a trovare su Jack Redford e sul perché era fuggito.
«Grazie, la rivuoi indietro?» Tom si strinse nelle spalle scuotendo il capo, come a chiedere perché avrebbe dovuto rivolerla indietro quando era appena riuscito, dopo tanto tempo, a passarla a qualcuno. «A proposito di lettere, Eliot mi ha detto che, poco prima di scomparire, Jack aveva ricevuto una lettera che lo aveva sconvolto da qualcuno di Beirut.»
Tom assunse un’espressione dubbiosa e disse: «Non una lettera, per quanto ne so. Io gli mandai un’email e so che l’avevo sconvolto. Un nostro amico, uno che era stato a Beirut con noi, era stato investito da un’auto che non si era fermata».
Dan pensò subito a Mike Naismith a Baltimora, e chiese: «Una morte sospetta?».
«Chi lo sa. Jack pensò che lo fosse. So solo che era sconvolto. Per cui è probabile che Eliot si riferisse a quello quando ha parlato di una lettera.»
Dan si sentì un po’ deluso e, a parte la chiave della cassetta di sicurezza, ebbe come l’impressione di aver fatto perdere tempo a Tom Crossley andando lì.
Quasi per compensare la cosa e dare un po’ di sostanza a quel breve incontro, chiese: «Che cosa ci facevate a Beirut?».
L’altro fece un bel sorriso e rispose: «Per farla corta, è capitato che in quel periodo fossimo tutti e due liberi. Io avevo degli amici che stavano laggiù e ho proposto a Jack di venire con me per un po’. Poi lo sono venuti a sapere un altro paio di amici e ci hanno raggiunto anche loro. Direi che ci siamo rimasti per circa sei mesi». Si alzò in piedi e attraversò la stanza diretto verso una cassettiera di stile orientale, frugò un po’ all’interno prima di trovare una grossa busta marrone. «Era un buon periodo per stare a Beirut…»
«Per cui è stato dopo la crisi degli ostaggi e tutto il resto?»
«Molto dopo, anni dopo. Già, le cose in quel periodo stavano andando meglio per Beirut, sembrava che dovesse tornare com’era prima della guerra. Adesso non sembra possibile, ma era un buon periodo.»
Tirò fuori dalla busta un plico di fotografie e cominciò a sfogliarle. Ne estrasse una e la passò a Dan: vi si vedevano tre ragazzi in piedi, ciascuno con le braccia sulle spalle degli altri. Uno era Tom, aveva i capelli corti ma non rasati come in quel momento, e per il resto non sembrava molto diverso. Quello al centro era alto e biondo, con lineamenti squadrati.
Il terzo ragazzo sembrava più basso, anche se Dan poteva supporre che fosse di altezza media e non apparisse alto solo per via delle dimensioni di chi aveva di fianco. Aveva un’aria rilassata, i capelli spettinati, la maglietta infilata nei pantaloni da un lato e fuori dall’altro, il tipo di viaggiatore di bell’aspetto che compariva in posti come quello con una chitarra.
Mentre Dan osservava la foto, Tom disse: «Quello al centro è Jonny, il tizio che è stato investito».
«Jonny? Sembra tedesco o…»
Tom rise. «Tutti hanno sempre pensato che fosse tedesco. Era di San Diego, un vero surfer: un po’ matto, ma una persona piacevole con cui viaggiare.»
Dan annuì e chiese: «E quello a destra?».
Tom rispose, come se fosse ovvio: «È Jack».
«Davvero?» Dan lo guardò di nuovo. «Non è come nelle foto che ho visto. Era così?»
Tom si allungò e riprese la foto, sorridendo mentre la guardava. «Già, questo è proprio lui. Era affascinante, sarebbe stato capace di far spogliare anche un albero. Era una persona molto modesta ma, non so perché, aveva quel fascino naturale. E ti dico una cosa: quelli sono stati dei gran giorni.» Continuò a sfogliare le foto e ne allungò un’altra a Dan. «Questa è più o meno una tipica serata laggiù, una tipica cena.»
Dan osservò l’immagine, in cui si vedevano sei o sette persone sedute a un tavolo di un ristorante apparecchiato con piatti e bottiglie di vino.
«Tu non ci sei.»
«Probabilmente stavo scattando la foto.»
C’era Jonny, il ragazzo biondo, il volto leggermente arrossato per il caldo e forse per il vino.
E c’era anche Jack Redford, e a Dan quella nuova immagine di lui cominciava a consolidarsi in testa: ecco com’era. Poi notò la donna seduta accanto a lui, e provò una sensazione strana, come se fosse stato catapultato in un altro spazio e un altro tempo.
Avvicinò la foto per osservare meglio i suoi lineamenti e chiese: «Chi è la donna con Jack? Sempre che sia con Jack…».
«Sì, sì, stava con Jack, è esatto. Maria. Bella, eh?» Dan annuì senza parlare. «Erano inseparabili. Si conobbero quando eravamo lì da un mese e si misero insieme. Penso che lui stesse seriamente pensando di sistemarsi con lei.»
Dan non era ancora riuscito a staccare gli occhi dalla donna, l’aveva riconosciuta, e la sua voce suonò distante anche a lui stesso quando chiese: «E perché non si è sistemato con lei?».
«Sai come vanno le cose nel nostro lavoro. Sistemarsi non è affatto facile.»
Dan alzò lo sguardo e disse: «Sembra che tu te la cavi bene».
Tom sogghignò. «Già, per la mia età. Non avrei mai pensato che sarebbe successo ma, accidenti, sono fortunato.»
«Posso prendere questa foto?»
«Certo. Ne ho un sacco e non le guardo quasi mai. Non mi sono rimasti molti amici con cui sedermi a ricordare i bei tempi andati.»
Dan annuì comprensivo, ma non riusciva a impedirsi di pensare ad altro. Nelle settimane precedenti aveva trascorso molto tempo a pensare a Jack Redford, eppure la sua figura continuava in qualche modo a sfuggirgli, proprio come era sfuggita a tutti gli altri, fino all’incidente dell’autobus, fino a quel momento.
Quando era arrivato per la prima volta in quella che era stata la casa di Jacques Fillon, Dan aveva creduto che la vita di quell’uomo fosse limitatissima, passata ad armeggiare con una moto e a prendere l’autobus ogni giorno, e lo aveva quasi disprezzato per quell’inerzia. Allora non aveva colto in quel rifugio nascosto il desiderio di far fuori Brabham, di ottenere giustizia per una ragazza che non aveva mai conosciuto e con cui non aveva alcun rapporto, Sabine Merel.
Ma anche quando aveva scoperto quelle cose, continuava ad aver capito solo la metà di quell’uomo. Jack Redford. Si era comportato in modo eroico il giorno in cui era morto, ma in verità i suoi ultimi dodici anni erano stati tutti un atto di eroismo, un piccolo gesto ogni giorno fino al momento in cui era salito su quell’autobus. Ecco cosa Dan capiva soltanto in quel momento, mentre osservava quella foto: anche mentre era nascosto, Jack Redford non aveva mai smesso di essere un eroe.