Capitolo 17

Sabine Merel studiava arte a Parigi, seguiva i corsi di scultura e divideva un piccolo appartamento con un paio di ragazze. Una sera di maggio era rimasta a lavorare fino a tardi nell’atelier dell’università, ed era d’accordo con i suoi amici che si sarebbero incontrati in serata a una festa. Alla fine, però, non l’avevano vista, ma nessuno si era preoccupato.

Il mattino dopo, il suo corpo era stato ritrovato nel vicolo sul retro di un ristorante. L’avevano colpita con forza sul volto, e poi strangolata con la sua stessa sciarpa. Era stata derubata e i suoi vestiti, abiti comodi che usava per scolpire, erano tutti in disordine: maglietta sollevata, jeans e biancheria intima abbassati, ma non vi erano altre prove di violenza carnale.

Di conseguenza la polizia aveva ipotizzato che il furto e l’abbigliamento in disordine potessero rappresentare tentativi post mortem di suggerire un falso movente, e avevano sostenuto che con tutta probabilità Sabine fosse stata uccisa da qualcuno che la conosceva.

La polizia aveva interrogato un altro studente che quella sera era rimasto a lavorare nell’atelier fino a tardi, ma poi era stato rilasciato senza alcuna accusa. Ne era seguita una breve bufera perché era di origini algerine, e dato che aveva un alibi di ferro molti avevano sostenuto che la polizia avesse avuto un atteggiamento razzista.

Non c’erano state altre persone sospettate dell’omicidio di Sabine Merel e nessuno era stato accusato del crimine. A quanto pareva, nei quattordici anni trascorsi da allora non si erano trovate altre piste e la morte della giovane studentessa d’arte era scivolata nell’oblio, probabilmente per tutti tranne che per la sua famiglia, i suoi amici e, naturalmente, Jack Redford.

Dan impiegò un’intera ora di quel pomeriggio a mettere insieme tutto questo, cercando di capire il senso degli articoli francesi che Redford aveva salvato. Da un certo punto di vista, per lui non c’era niente di nuovo o sorprendente in quella storia: aveva conosciuto, visto e a volte anche causato troppe morti ingiustificate per esserne davvero turbato.

Eppure in un certo senso si sentiva toccato, il suo umore era andato affossandosi man mano che i minuti passavano, forse a causa del lento stillicidio di informazioni che avevano riportato in vita la ragazza: si trattava di un’illusione, ne era consapevole, nulla poteva disfare ciò che le era stato fatto tanti anni prima. Dubitava che qualcosa potesse suscitare in lui l’indignazione evidentemente provata da Redford, ma si sentiva comunque abbattuto e insieme disorientato dalla sua tristezza per quella donna sconosciuta e morta da tempo.

Mentre tornavano verso la baita nel crepuscolo – un’oscurità che pareva salire dal terreno del bosco e non scendere dall’alto – Dan riassumeva a Inger quello che aveva letto. Lei camminava davanti a lui in assoluto silenzio, anche se si capiva che stava ascoltando con attenzione.

Era una storia semplice e allo stesso tempo straziante, e gli bastò raccontarla per sentire le sue energie venir meno: era la storia, vista e rivista, di una ragazza con un futuro promettente uccisa senza motivo.

Terminò proprio quando arrivarono alla baita. Sulla soglia, Inger si voltò scuotendo il capo, e Dan notò che sul suo viso si era liberata una lacrima che le brillava su una guancia. In un certo senso, era allo stesso tempo contento e dispiaciuto di averla sconvolta.

Senza pensarci, si avvicinò e le asciugò la guancia, ma fece subito un passo indietro. «Scusa, io…»

Lei disse soltanto: «Avrebbe avuto un anno più di me, ma non so perché mi mette così tanta tristezza. Forse il semplice pensiero che fosse in quell’atelier. Sai, che fosse intenta a creare qualcosa, e poi… È una cosa davvero crudele, straziante».

Dan non sapeva cosa rispondere, ma non dovette aggiungere niente perché entrambi si girarono nell’udire un rumore strano, e videro il signor Eklund lungo il sentiero, che si dirigeva verso di loro portando il vassoio della cena con passo agile e disinvolto.

Inger disse alcune parole in svedese, sottovoce, qualcosa di affettuoso suscitato dalla vista del vecchio. E Dan ne colse il senso generale anche se non capì, e non le sentì neanche bene: era rassicurante, dopo una giornata come quella appena trascorsa, che qualcuno ricordasse loro che nel mondo c’erano cose buone, e persone gentili, e cibo semplice cucinato con cura, ed estranei che si dimostravano gentili con gli altri, con chiunque altro. Dan era stato al di fuori di quel circolo virtuoso per la maggior parte della sua vita, ma adesso era grato di farne parte.

Solo quando furono seduti a tavola, Inger tornò sulla storia di Sabine Merel, ma accantonò la violenza di quella morte per tornare a essere pratica, a concentrarsi sul caso. «Hai per caso letto qualcosa che potesse far pensare a un collegamento con Brabham?»

«Niente. Lei era di…» Si sforzò di richiamare alla mente il nome della città in cui era nata. «Limoges, credo. Non so cosa facevano i suoi genitori, ma non sono riuscito a trovare alcun indizio su un’eventuale frequentazione di certi ambienti in cui potessero incontrare il capo della sede di Parigi della CIA

«Quindi cosa farai?»

«Deve esserci un legame. Vedrò se Patrick mi può dire qualcosa su Redford, e se l’omicidio di Sabine Merel gli ricorda niente. Quindi suppongo di dover fare ciò in cui hanno fallito sia la polizia di Parigi sia Jack Redford: scoprire chi l’ha uccisa e perché.»

Rise per l’enormità della sua missione, per il suo proposito di trovare in un paio di settimane verità che erano sfuggite persino a Jack Redford in tutti quegli anni di ricerche.

Anche Inger rise, poi chiese: «Quanto tempo hai detto che hai?».

Lui annuì, accettando l’ironia della domanda, ma rispose: «Guarda, per prima cosa, Redford sapeva indubbiamente di più di quanto sia su quelle bacheche: sapeva che c’era un collegamento e stava cercando un modo per dimostrarlo. In secondo luogo, lui viveva nascosto, e la cosa limitava i suoi movimenti».

«Però anche tu devi nasconderti.»

«È vero, ma non sono ancora diventato Jacques Fillon. Per cui farò visita ai suoi genitori, agli amici con cui viveva, all’algerino, a chiunque altro riesca a trovare. Ricorda, non devo dimostrare niente, non devo fare in modo che regga in tribunale, ho solo bisogno di trovare la pista che porta a Brabham, e nel frattempo devo restare in movimento.»

«E se non ci riesci? Deve esserci un altro modo per sfuggire a… a tutti questi omicidi.»

Tutti questi omicidi. Proprio come per l’assassinio di Sabine Merel, il semplice nominare gli omicidi non sfiorava nemmeno quello che realmente era successo a quelle persone. Ma a differenza di Sabine, Dan e i suoi colleghi avevano almeno vissuto in quel mondo ed erano stati a loro volta autori di una buona dose di omicidi. Loro avevano avuto una possibilità di scelta, per quanto limitata.

«Ci sono sempre altre opzioni, ma nessuna è altrettanto buona, e non comportano neanche meno difficoltà.» Lei ci rifletté su un istante, sorseggiò la sua birra, poi Dan le chiese: «E tu? Suppongo che in sostanza questo caso sia chiuso per te… Hai scoperto che ne è stato di Habibi e chi era Jacques Fillon».

«Habibi non era importante, volevamo solo sapere cosa gli era successo.»

«E il resto?»

«Non so. Il nostro interesse non era limitato all’identità di Jacques Fillon, e visto quel che abbiamo trovato… Non so. Devo parlarne con il mio superiore. Magari domani chiudo tutto.»

Dan annuì e disse: «Be’, è stato solo per un paio di giorni, ma ho lavorato bene con te».

«Anch’io. Non eri poi…» Si fermò. Assunse un’espressione di scherzosa curiosità e riprese a parlare: «Come sai, ho letto un po’ di cose su di te prima di venire qui, ed è vero, sono stati solo due giorni, ma non sei come pensavo».

Lui chiese con tono scherzoso: «In senso positivo?».

Inger sorrise e rispose: «In senso positivo».

Non ebbe bisogno di aggiungere altro. Dan sapeva cosa si poteva leggere di lui nei documenti ufficiali, e probabilmente riportavano la metà delle sue malefatte. Aveva trascorso anni a fare lavori sporchi, senza regole di ingaggio, spietatamente concentrato soltanto sull’esecuzione di ciò che gli era stato commissionato, a qualunque costo. L’unica differenza tra lui e i mostri che catturava era che lui era pagato dal vincitore.

O almeno, all’epoca era stato dalla parte del vincitore, ma non sapeva da quale parte stava adesso. E non sarebbe riuscito a trovare la risposta a quella domanda finché non fosse tornato fuori nel mondo a capire quanto lo avrebbe portato lontano Jack Redford, e che tipo di assicurazione potesse garantirgli il suo segreto.