Capitolo 36
Il primo ad arrivare fu lì poco prima delle otto. Il cielo si stava schiarendo, ma per strada regnava ancora un fioco pallore, come se per quel giorno non si dovesse dare per scontata l’alba. Era un ragazzo di poco meno di trent’anni, in completo e soprabito, che aveva con sé un caffè e qualcosa da mangiare per colazione in un sacchetto. Passò la busta nella stessa mano del caffè e premette con noncuranza una serie di numeri sulla tastiera.
Mentre entrava, Dan, che lo stava osservando con il binocolo, trascrisse i numeri. Quindi aspettò qualche minuto e vide le luci accendersi tremolanti dietro le finestre dell’ultimo piano, anche se le tende gli impedirono di capire cosa succedeva all’interno.
Una ventina di minuti dopo, ne arrivarono altri due, uno in abiti da ufficio, l’altro vestito come chi lavora in una start up tecnologica di Seattle. Quando quello più elegante digitò il codice, non riuscì a distinguere chiaramente la tastiera, ma la posizione dei tasti premuti sembrava la stessa del numero precedente.
Dopo qualche minuto arrivarono un uomo e una donna, entrambi in abiti da ufficio, e in quel momento si rese conto che gli impiegati erano tutti giovani, più o meno tra i venti e i trent’anni. L’ultimo ad arrivare fu un altro ragazzo che portava un maglione pesante e un giubbotto imbottito, una sciarpa avvolta intorno al collo, un laccetto che gli pendeva fuori dalla giacca: era quindi probabile che dovessero passare un badge per attraversare la porta interna.
Anche da quella posizione, Dan riusciva a vedere che il tizio si era preso un brutto raffreddore: starnutì due o tre volte in rapida successione, prima di riuscire finalmente a digitare il codice. Premette adagio i pulsanti, Dan riuscì a vederlo piuttosto bene, ed ebbe la conferma di avere scritto il numero giusto. Prima delle nove non arrivò nessun altro e Dan si rilassò un po’: dubitava che ci fosse molto da vedere nelle ore successive. Sapeva inoltre che quello non era lo staff al completo, ma si trattava soltanto degli impiegati, anche se non avrebbe avuto maggiore pietà di loro per quel motivo.
All’ora di pranzo vi fu qualche movimento. L’uomo e la donna che erano arrivati insieme uscirono a piedi e tornarono indietro mezz’ora dopo con quello che sembrava proprio un pranzo da asporto.
Lui era di altezza e corporatura media, con l’aspetto tipico del belloccio della porta accanto ormai un po’ stagionato: la sua pelle cominciava a sembrare un po’ molle, l’attaccatura dei capelli era molto alta. Lei era attraente, forse ispanica, aveva i capelli neri tirati indietro, ed era indubbiamente la più prudente dei due: si guardava intorno, e osservò l’edificio in cui era nascosto Dan, anche se non sollevò mai lo sguardo fino al suo piano.
Non molto tempo dopo pranzo, vide una BMW nera entrare lentamente nella via. Si fermò fuori dall’edificio, come se chi guidava stesse cercando un posto per parcheggiare, poi, in retro, girò in uno stretto vicolo che conduceva dietro gli edifici su quel lato della strada.
Non doveva esserci un ingresso posteriore, perché pochi minuti dopo i due uomini uscirono a piedi dal vialetto e arrivarono di fronte all’edificio. Dan li riconobbe subito: erano i due dell’auto parcheggiata di fronte al Vergoncey.
Uno era biondo, e anche lui non doveva superare i trent’anni. L’altro era di aspetto più mediterraneo e aveva più o meno l’età di Dan, comunque non lo conosceva. Tutti e due ostentavano un’aria abbastanza spavalda, una malriposta sicurezza di sé che li distingueva da tutte le altre persone entrate in ufficio.
Dan rimase un po’ a guardare, ma dopo un’ora dedusse che non sarebbero usciti di nuovo. Chissà se quello era il loro posto di lavoro usuale oppure erano stati mandati lì per fornire una maggiore protezione… A quel punto Brabham doveva essere stato informato che aveva subìto una perdita al Vergoncey e che c’era stato un bagno di sangue nella campagna nei dintorni di Auxerre, e probabilmente aveva saputo anche che Dan non era più a Parigi, per cui forse era solo una precauzione, benché abbastanza blanda.
Dan continuò la sua sorveglianza nel corso del pomeriggio, e poi, quando la strada era già ripiombata nell’oscurità, li vide andarsene a uno a uno. Uscirono quasi tutti nello stesso ordine in cui erano entrati, tranne i due uomini arrivati in auto, che accompagnarono fuori la donna, facendo del loro meglio per far colpo su di lei nel breve tratto di strada che percorsero insieme.
All’interno ne restava solo uno. Appena vide le luci spegnersi, Dan scese per le scale. Quando uscì dall’edificio, il ragazzo stava starnutendo e, se possibile, sembrava peggiorato rispetto a quella mattina. Lanciò una rapida occhiata alla vetrina illuminata di una farmacia, ma diede un’occhiata all’orologio e cambiò idea, riprendendo a camminare lungo la strada.
Dan lo seguì, e si fermò solo quando si accorse che l’altro stava per saltare su un tram. Allora salì a bordo da un’altra porta, comprò un biglietto alla macchinetta e cercò di assumere un’aria disinvolta. Ma comunque il ragazzo era così intontito dal raffreddore che probabilmente Dan avrebbe potuto sedersi di fianco a lui e non ci avrebbe fatto caso.
Non rimasero sul tram a lungo e, una volta scesi, il tizio fece un paio di deviazioni in tranquille vie di edifici residenziali. Non c’era praticamente nessuno in giro. Dan controllò l’ora: erano passate da poco le sei, però il freddo si stava facendo intenso. Seguì il suo bersaglio fino a una palazzina, non vecchia ma dall’aria un po’ datata.
Il ragazzo guardò le scale, e in un giorno migliore sarebbe probabilmente salito a piedi, ma si diresse con aria rassegnata verso l’ascensore e premette il pulsante. Solo quando entrò dentro si rese conto che c’era qualcuno alle sue spalle.
Sobbalzò, ma non sospettò niente e fece un cenno del capo come fosse sul punto di chiedergli a che piano andava. Gli ci volle qualche secondo per rendersi conto che Dan non era un vicino di casa, e che quel volto gli era familiare per motivi di lavoro, ma a quel punto lui gli teneva già una pistola puntata addosso.
Nessuno dei due disse nulla. L’ascensore si fermò e le porte si aprirono con un sussulto.
«Sono solo un informatico.»
Dan accennò un gesto con la pistola. Il ragazzo uscì e percorse il breve corridoio fino a una porta dall’aspetto anonimo. Infilò una mano in tasca per prendere una chiave e stava tremando visibilmente quando aprì.
Dan lo seguì dappresso e si richiuse l’uscio alle spalle.
Attraversarono un piccolo soggiorno le cui condizioni facevano pensare che in quell’appartamento vivesse un gruppetto di studenti: cartoni vuoti dappertutto, una console per videogiochi, CD e riviste su ogni superficie.
«Togliti il badge dal collo e appoggialo qui sopra.» Lui fece quello che gli era stato ordinato. «Vivi qui da solo?»
Il ragazzo annuì vigorosamente e disse: «Davvero, sono solo un tecnico, faccio solo quello, cioè… ti dico qualunque cosa, tutto quello che vuoi sapere».
Dan non aveva dubbi che stesse dicendo la verità, era troppo scosso.
«Tutto quel che mi serve da te sono ventiquattr’ore di silenzio.»
Gli sparò al petto e il ragazzo riuscì a emettere un poco convinto «no, per favore», prima di sentire le gambe che gli cedevano, e infine cadere all’indietro su una sedia. Si mosse convulsamente per qualche secondo e poi a poco a poco si immobilizzò, gli occhi fissi sul televisore come se fosse stato colto nell’atto di vedere qualcosa di sconcertante.
Dan prese il badge e lo osservò. Era privo di scritte, c’era solo la banda magnetica: impossibile risalire alla CIA. Controllò il giubbotto del ragazzo, poi le tasche dei suoi jeans, dove trovò il telefono e il portafoglio. Si chiamava Adam e aveva ventisette anni. Ne dimostrava più di trenta, ma magari era solo colpa del raffreddore.
Dan scorse i messaggi ricevuti, poi quelli inviati, e ne trovò uno a un tizio di nome Josh che diceva: “Mi sento malissimo, non so se trovo le forze per venire al lavoro”.
L’aveva mandato quella mattina. Ed era un vero peccato, pensò Dan, perché aver trovato le forze gli era costato la vita.