Capitolo 41
Seguirono altri due spari in rapida successione. Era un fucile di precisione e i colpi venivano dall’alto, da un punto con una buona visuale su quel lato del giardino. Dan si gettò in un vicino intrico di arbusti e alberi, pur consapevole, anche mentre si affannava per infilarsi dietro un tronco, che i cespugli non avrebbero offerto una vera protezione.
Fu solo in quel momento che ebbe l’assoluta certezza di non essere stato colpito. Ma per raggiungere la protezione della casa avrebbe dovuto coprire una certa distanza sul prato a grande velocità. Lanciò un’occhiata al manto di neve di un bianco quasi accecante su cui continuavano a scendere fiocchi freschi, che giocavano con la luce e cominciavano già a ricoprire il corpo di Teddy.
Dan scivolò a terra sulla pancia, poi strisciò lungo il lato nascosto del boschetto di cespugli. Non era visibile, ne era sicuro, ma udì comunque partire un colpo e si sentì come strattonare alla schiena, prima di percepire un rumore sordo nella neve alle sue spalle. Strisciò più in fretta, fino a raggiungere il riparo di un albero più grosso, e si sedette.
Non gli sembrava di essere ferito, ma si passò cautamente una mano lungo la schiena e tastò il giubbotto. Il proiettile aveva squarciato il tessuto, però non gli aveva sfiorato la pelle. Era strano, ma la cosa lo fece sentire in grave difficoltà, come se si stesse affidando alla buona sorte.
Ne dedusse anche che stessero usando delle termocamere, visto che sapevano esattamente dove sparare. E ciò significava che sapevano anche dov’era in quel momento, e con ogni probabilità immaginavano quale sarebbe stata la sua mossa successiva. D’altronde non poteva fare altro, non aveva scelta: la sua unica possibilità era fare in fretta.
Si alzò in piedi, sbirciò fuori da un lato dell’albero, e prima ancora di aver udito il colpo che seguì, si sporse dall’altro lato, sparò un colpo alle finestre del piano di sopra, poi corse, sfrecciando lungo il prato illuminato, senza stare a preoccuparsi di rimanere coperto, ma solo di stringere l’angolo e arrivare alla casa.
Uno, due, tre colpi, tutti alle sue spalle. Continuò a correre, trovò una porta laterale – chiusa – le diede un calcio e balzò all’interno. Era una specie di ripostiglio o di dispensa, immerso nell’oscurità, che forse conduceva a quella cucina che, stando a quanto aveva detto Josh, era il loro luogo di ritrovo.
Avanzò, trovò una rientranza e, senza nemmeno sapere cosa fosse, si infilò nell’ombra e attese. Sentiva dei passi affrettati al piano di sopra, e poi una voce, anche se non riuscì a distinguere le parole.
Poi udì la stessa voce che esclamava, questa volta più forte: «Bill! È in casa!».
Dan non sentì la risposta di Bill, però udì una porta sbattere da qualche parte e dei passi affrettarsi. Si fermarono di nuovo, poi però percepì un debole scricchiolio per le scale. Dopo pochi istanti si accorse che c’era una persona lungo il corridoio non lontano da lui.
L’uomo aveva probabilmente visto la porta forzata, ma era troppo furbo per indagare. Dan udì i suoni smorzati di qualcuno che si riallontanava, seguiti da un minaccioso silenzio assoluto, e a quel punto la rientranza in cui si trovava si illuminò. Doveva esserci un interruttore generale delle luci e l’uomo le aveva accese.
Aspettò che i suoi occhi si abituassero, poi si girò e vide una piccola porta di legno alle sue spalle, su un gradino. Se non si sbagliava, oltre quella soglia doveva esserci una rampa di scale, in passato usata dalla servitù di casa. C’era un catenaccio di metallo, Dan lo estrasse prudentemente e aprì con cautela.
Udì un breve scricchiolio acuto, per cui si fermò, ma riuscì a vedere che effettivamente c’erano le scale. Doveva solo sperare che in cima ci fosse ancora un’apertura e che la planimetria della casa non fosse stata rivista, perché non appena avesse spalancato quella porta avrebbe rivelato la sua posizione.
La aprì rapidamente, dai cardini si levò un cigolio da film dell’orrore, e scattò su per le scale. Su entrambi i lati dei gradini erano accumulati prodotti e accessori per le pulizie e poteva scorgere un’altra porta in alto, ma ormai sapevano dov’era. Balzò verso l’alto tra flaconi, lattine e spazzoloni, raggiunse l’ultimo gradino e fece scattare il chiavistello. Niente.
Sentì l’uomo correre lungo il corridoio e su per le scale principali. Dan era in svantaggio perché non conosceva la pianta del piano superiore, non poteva sapere dov’era arrivato, né se fosse riuscito ad aprire.
Si appoggiò con tutto il peso contro la porta, che cedette, prima opponendo una certa resistenza, poi allentandosi quando dall’altra parte qualcosa cadde a terra. Vide una lampada sul pavimento di fronte a lui, e ne dedusse che dovevano averci piazzato davanti un tavolino.
Poi sentì l’uomo che raggiungeva la cima delle scale di fronte a lui lungo il corridoio. Dan strisciò sulla pancia, arretrando di qualche gradino sulla rampa che aveva appena salito, e quando l’uomo comparve nel corridoio sparò un paio di volte, colpendolo a una gamba.
Anche l’uomo riuscì a sparare, forse contemporaneamente a lui, ma colpì la porta molto più in alto del punto in cui era steso Dan. Quindi barcollò e cadde all’indietro sulla soglia di una delle stanze. Dan lo udì abbassare la maniglia e borbottare qualcosa: era chiusa a chiave.
Per un po’ tutto fu silenzioso. Dan tese l’orecchio cercando di cogliere segni di Brabham e dell’altro uomo. Da ciò che aveva sentito aveva immaginato che si trovassero in una stanza alle sue spalle, ma guardando di fronte a sé ebbe il sospetto che le scale fossero poste al centro dell’edificio e partissero da un atrio che faceva da corte interna, con il pianerottolo a formare un ballatoio quadrato lungo i cui lati si aprivano le stanze.
La conversazione che aveva sentito proveniva sicuramente da quel lato della casa, per cui se Brabham non era alle sue spalle, la stanza in cui si trovava doveva essere di fronte a lui sulla destra. C’era solo un problema: l’uomo che era sulla soglia, sanguinante ma non per questo meno letale.
Dan si rialzò in piedi, salì gli ultimi gradini delle scale e si appostò dietro la porta. Aspettò ancora.
Poi l’uomo cominciò a parlare. «Hendricks, il gioco è finito, abbiamo chiamato dei rin…»
Dan uscì dall’ombra, camminò dritto nella sua direzione e gli sparò due volte al petto. L’uomo lasciò andare la pistola e si abbandonò contro la porta con sguardo meravigliato. Quindi scivolò verso il basso, le gambe che cedevano sotto il suo peso. Dalla ferita alla coscia aveva perso molto sangue, si era quindi probabilmente indebolito e la sua reazione era stata piuttosto lenta.
Dan aspettò un istante, udì il solito gracchiare, simile al suono di un insetto, che proveniva dall’auricolare dell’uomo. Lo scavalcò e si mosse lungo il perimetro del grande ballatoio quadrato che si affacciava sull’atrio.
Non gli restavano molti margini di errore, perché se si sbagliava e loro non si trovavano nell’ala alla sua destra, lo avrebbero colto in uno spazio aperto, un bersaglio facile per chi fosse stato al riparo di una qualsiasi delle porte che davano sulle scale.
Strisciò indietro, sottrasse la pistola al morto, poi ritornò nell’angolo del pianerottolo e la lanciò giù per le scale. Sbatacchiò su sei o sette gradini prima di fermarsi.
Nel silenzio che seguì udì un sussurro e nient’altro, a supporto del suo sospetto. Si mosse cautamente fino alla prima porta, si spostò di lato prima di girare la maniglia e la aprì.
Non ci fu risposta. Procedette lungo il pianerottolo e ripeté quella mossa, quindi fece lo stesso con la terza porta. Nell’istante stesso in cui la aprì, partì un colpo, sparato con tanta impazienza che attraversò la porta quando si stava ancora aprendo e rimbalzò nella cornice. Seguì immediatamente un secondo colpo, che sibilò fuori e colpì la parete dall’altro lato.
Dan sorrise e chiese: «Com’è che vuoi giocare questa partita, Bill?».
«Sta a te decidere, Dan.»
L’uomo che era con lui lo contraddisse: «No, con tutto il rispetto signore, non è così».
Quello scambio permise a Dan di collocarli entrambi in una specie di mappa mentale della stanza, ma poi risuonò di nuovo la voce di Brabham, paterna e rivolta più a lui che all’uomo che aveva accanto: «Rilassati, Jim, sono sicuro che Dan non voglia uccidere nessun altro per stasera».
Anche in questo caso Dan trasse vantaggio dall’istante di allentamento della concentrazione, e si mosse quando Brabham stava ancora parlando, balzando nella stanza e sparando non appena ebbe soltanto un flash della situazione. Colpì l’uomo alla testa. Anche Jim riuscì a sparare di nuovo, colpendo il pavimento a un metro di distanza da lui.
Solo in quel momento, solo quando si girò e puntò la pistola su Brabham, capì com’era fatto l’ambiente in cui si trovava. Era uno studio, le pareti rivestite da librerie, una scrivania sul lato opposto con vista dalla finestra, che affacciava probabilmente sul lago.
Dall’altra parte della stanza c’era un divano Chesterfield lungo il muro di fronte a Dan, e poi un paio di poltroncine di pelle con lo schienale alto. Brabham era seduto in una delle due, ma era girato verso la porta, non verso il divano, come se per tutto il tempo non avesse fatto altro che preparare le coreografia di quell’incontro.
Guardò il tizio morto sul pavimento accanto al divano e disse con tono perplesso: «Be’, direi che mi sono sbagliato, vero?».