Capitolo 28

Si fece lasciare dal taxi a qualche isolato dal Vergoncey e si avvicinò con un misto di passo disinvolto ed estrema attenzione, cercando di capire cosa fosse successo in sua assenza.

Vide gli stessi due uomini della CIA nell’auto parcheggiata a un centinaio di metri dall’albergo. E notò un terzo individuo con una giacca di pelle che parlava con loro, accovacciato sul marciapiede dal lato del passeggero. Non era della CIA, e se avevano coinvolto dei freelance poteva significare che progettavano di farlo fuori quella notte.

Si girò e andò nell’altra direzione, in modo da entrare in albergo da una stradina laterale, un piccolo ingresso raramente utilizzato che di notte a un certo punto chiudeva. E proprio quando stava per varcare la soglia, notò un tizio in piedi all’angolo opposto del vicolo, lo sguardo rivolto in un’altra direzione. Era vestito in modo normale, eppure in un certo qual modo era fuori posto: fuori posto per quella strada, per il modo in cui stava lì fermo, per tutto il resto.

La sua presenza significava che la situazione andava facendosi più seria: stavano coinvolgendo tutte le risorse disponibili, per cui Dan e Inger dovevano andarsene immediatamente. Con quel pensiero in testa accelerò il passò e girò prima di raggiungere l’atrio principale, pensando fosse meglio fare le scale che aspettare l’ascensore.

Il corridoio al loro piano era vuoto, immerso in un’apparente calma, ma lui si fermò per un momento tra le loro stanze, in ascolto, per cercare di capire di che tipo di quiete si trattasse. Quindi bussò alla porta di Inger. Non udì risposte né movimenti di alcun tipo. Controllò l’orologio e bussò più forte, pensando che potesse dormire o essere in bagno.

Ricontrollò l’orologio, tirò fuori la pistola e inserì il silenziatore, mentre un senso di vuoto andava attanagliandogli lo stomaco.

Era tentato di bussare di nuovo, ma adesso sapeva che non ci sarebbe stata risposta, e non voleva pensare alle possibili ragioni di quel silenzio.

Aprì invece la porta della propria camera, con la pistola già pronta, anche se la stanza sembrava vuota, più vuota di quando l’aveva lasciata. Non aveva trovato il tempo di disfare la valigia e l’aveva semplicemente lasciata vicino all’entrata: adesso però era sparita.

Balzò all’interno, controllando prima gli angoli, poi il bagno e infine l’armadio, e per tutto il tempo cercò di immaginare uno scenario positivo che potesse spiegare la scomparsa di Inger e della valigia.

Solo quando ormai si era convinto che la stanza fosse vuota, notò un foglietto lasciato sulla scrivania. Si avvicinò e lo osservò senza toccarlo: sulla pagina erano state scarabocchiate un paio di righe.

Vattene dall’albergo! Accendi il telefono!

Non era firmato, ma nonostante il tono allarmato del messaggio non poté fare a meno di sorridere, sollevato all’idea che se ne fosse andata di sua iniziativa. Adesso che sapeva che lei era al sicuro poteva anche abbandonarsi al proprio turbamento.

Si diresse verso la finestra e accese il telefono. I due uomini erano scesi dalla macchina e parlavano con un altro paio di tizi. Quello che era accucciato accanto all’auto era sparito, per cui, calcolò Dan, dovevano essere almeno in sei.

Il cellulare gli vibrò in mano e abbassò lo sguardo sullo schermo: tre chiamate perse di Inger. La richiamò, tenendo il telefono accanto all’orecchio.

Lei rispose immediatamente e chiese: «Dove sei?».

Si accorse che gli uomini di sotto accanto all’auto avevano un’aria seria, come se si stessero preparando a qualcosa, non stessero soltanto oziando in attesa di ordini.

«Hai lasciato un biglietto» rispose lui.

«Dan, devi andare via. Ti spiego meglio dopo, ma devi andare via di lì subito.»

Parlava con calma, ma c’era un’urgenza nel suo tono che lo innervosì.

«Okay, ci risentiamo dopo.»

«No, aspetta! Hai una penna?»

«Certo.» Si diresse verso la scrivania, afferrò il bloc-notes e la matita e scarabocchiò il numero che lei dettò. «Grazie. Ti chiamo presto.»

«Dan…» Esitò, forse combattuta tra ciò che voleva dire e il suo bisogno di mantenere una facciata professionale.

«Venti minuti al massimo. Ti richiamo.»

Chiuse la chiamata, spense il telefono e si riavvicinò alla finestra per controllare la strada: il cuore cominciò a battergli all’impazzata quando si accorse che non c’erano più. L’auto era ancora al suo posto, ma gli uomini che erano lì fino a un minuto prima se n’erano andati.

Agì in fretta: scivolò fuori dalla stanza, percorse velocemente il corridoio e cominciò a scendere le scale. Non si era allontanato molto, però, quando sentì qualcuno con accento americano che proveniva dalla direzione opposta alla sua e parlava a bassa voce, ma chiaramente udibile nel silenzio degli ambienti ricoperti di moquette.

«Stiamo salendo al secondo. Resta dove sei…»

Dan tornò sui propri passi, balzando su per gli scalini e lungo il corridoio, quindi varcò la porta che conduceva alle scale di servizio. Si precipitò giù percorrendo le varie rampe due gradini alla volta, e si fermò brevemente solo quando fu arrivato al piano terra, per prendere fiato e ascoltare i rumori circostanti.

Sei, erano almeno sei: alcuni coprivano le uscite, gli altri setacciavano l’albergo. D’altro canto l’edificio era grande, cosa che poteva giocare a loro sfavore, perché al di sopra delle loro possibilità.

Uscì dalla porta e girò nel corridoio che conduceva all’entrata laterale. Ma aveva percorso solo metà della distanza quando notò che ora un’auto era parcheggiata lì davanti, e si stava ancora chiedendo se fossero loro, quando comparve un uomo intento a chiacchierare al telefono, forse la persona che aveva visto ferma all’angolo poco prima.

Girò sui tacchi e tornò indietro: da lì non sarebbe riuscito ad arrivare alla lobby. Sì, era un grande albergo e c’erano molti posti in cui nascondersi, ma lo stavano già bloccando lì dentro: si maledisse per aver sottovalutato la situazione e per aver passato troppo tempo a parlare con Florian e Carter.

Svoltò in un altro corridoio di servizio e seguì l’acciottolio delle stoviglie fino alla cucina. C’erano parecchie persone lì in giro, così tante che dovette schivarne alcune. Un paio di cuochi e altri membri del personale gettarono delle occhiate nella sua direzione, notando la sua presenza, ma evidentemente senza l’intenzione di metterla in discussione.

Spinse le doppie porte e uscì nello stretto vialetto sul retro dell’albergo, lungo il quale erano allineati bidoni con scarti alimentari e scatoloni vuoti. Si girò verso la strada ma notò immediatamente qualcuno di fronte a lui.

Dan lo riconobbe subito: il tizio con la giacca di pelle che aveva visto accovacciato a parlare con gli uomini dell’auto. Si diresse senza indugio verso di lui e quello restò immobile e lo guardò come se aspettasse di vederlo entrare in una zona illuminata, una traccia di ostilità negli occhi.

A quel punto l’uomo parve realizzare chi era, un momento di adrenalina e panico, un affondo verso la pistola. Dan gli sparò in volto e allungò il passo, uscendo in tutta fretta in strada e allontanandosi.

Continuò a camminare per circa duecento metri, poi trovò una cabina telefonica e chiamò il numero che gli aveva dato Inger. Solo quando fu dentro la cabina si rese conto che gli mancava il fiato e il cuore gli galoppava in petto.

Quando lei rispose, disse: «Sono io».

«Sei uscito dall’albergo?»

«Proprio così.»

Gli parve di sentire un vago respiro di sollievo e non poté impedirsi di reagire con un sorriso di gratitudine.

«Vieni all’Hotel Bernet, stanza 422.»

«Okay, ci vediamo presto.» Stava per riappendere quando cominciò a riordinare mentalmente gli eventi appena successi: la valigia mancante, la scomparsa di Inger, il suo avvertimento. «Sei sola?»

«No, sono con un collega.» Fece una pausa e aggiunse: «È a posto. Probabilmente lo dobbiamo a lui se siamo ancora vivi».

Dan riappese e guardò indietro lungo la via, ripensando al modo in cui era uscito dal Vergoncey, chiedendosi quanto vantaggio gli aveva consentito di ottenere il misterioso collega di Inger. Sapeva che non si sarebbero fermati nemmeno adesso, e che il tenore di quella minaccia non sarebbe diminuito. L’unica vera speranza per lui era arrivare a Brabham prima che i suoi uomini finissero il lavoro.