Prologo
Siri era tutta in nero. Vide il proprio riflesso nel finestrino dell’auto del signor Olofsson quando vi passò accanto e l’insieme le piacque: giacca di pelle nera, gonna stretta, leggings a motivi neri, calzettoni neri al ginocchio, anfibi. Un look che la faceva sembrare ancora più pallida di quanto non fosse già, mentre i capelli, con ciuffi che andavano in tutte le direzioni, si sarebbero quasi detti semitrasparenti.
Aveva anche pensato di tingerseli di nero, perché il biondo era troppo comune nel Nord della Svezia, ma tenerli così le ricordava in un qualche modo che non sarebbe vissuta lì per sempre. Sarebbe fuggita prima per andare all’università, poi in giro per il mondo: Londra, Parigi, New York, e chissà dove altro ancora.
Pia era già alla fermata dell’autobus e c’era anche il signore che saliva sempre insieme a loro. Quando fu lì, Siri rivolse a Pia un cenno del capo e un mezzo sorriso, però non si dissero niente. A volte chiacchieravano, ma quel giorno no. E non perché fossero di cattivo umore: era solo il pacifico accordo di non doversi parlare per forza.
Arrivò l’autobus: l’autista non era il solito, ma i passeggeri sì. C’erano le due donne di mezza età sedute davanti che non smettevano un istante di parlare e scendevano alla fermata successiva. E c’erano i due ragazzi della sua scuola, che in genere si limitavano a farle un cenno del capo, senza mai rivolgerle la parola. Pia li conosceva e si sedeva tutti i giorni con loro, e a volte ridevano e scherzavano. E questo era tutto, almeno per qualche fermata.
Siri percorse due terzi dell’autobus prima di prendere posto. Non arrivò fino in fondo perché nell’ultima fila si sedeva sempre l’uomo che saliva insieme a loro, e che rimaneva a bordo quando loro scendevano alla fermata della scuola. Era solo una di quelle buffe regole non scritte: tutti si sedevano sempre agli stessi posti, ogni mattina, senza alcuna variazione, mai.
Siri si infilò gli auricolari e accese la musica, poi chiuse gli occhi per schermarsi dalla brillante luce di settembre e si rilassò al movimento fluido dell’autobus che partiva e scivolava lungo la strada, verso una nuova giornata.
Qualche minuto più tardi lo sentì rallentare, poi fermarsi. Sapeva che le due donne sarebbero scese: di solito prima avrebbero scambiato qualche parola con l’autista, ma forse non quel giorno, visto che non lo conoscevano. Le due se ne andarono mentre gli occhi di Siri restavano chiusi, pur lasciando trasparire una luce arancione, e la musica la avvolgeva.
Sentì l’autobus frenare un paio di volte in più di quanto accadeva di solito: l’autista di quel giorno rallentava nei pressi delle fermate che l’altro avrebbe superato a velocità normale, poiché sapeva che nessuno saliva mai lì. Però non si fermarono, e l’autobus prese un po’ di velocità sulla strada libera.
Si perse in se stessa e nella musica, i pensieri si dileguarono. Aprì gli occhi una volta, per un istante, e vide Pia chiacchierare entusiasta con i due ragazzi, e il caleidoscopio di luci e ombre che guizzavano lungo il margine della strada e tra gli alberi. Riabbassò le palpebre isolandosi da quelle immagini, e fu quasi sul punto di addormentarsi.
Poi aprì gli occhi una seconda volta, perché ebbe la strana impressione che qualcosa non andasse: era come se si stessero muovendo di lato anziché in avanti. L’autobus stava frenando, ma c’era qualcosa di insolito in quel movimento. L’uomo che saliva alla loro fermata comparve al suo fianco, quasi all’improvviso, facendola trasalire. Pensò che stesse andando verso l’autista.
Cercò di guardare più avanti, per vedere cosa stesse succedendo, ma l’uomo si fermò e si girò di scatto, e Siri si rese conto che si muoveva in modo frenetico e che si stava rivolgendo a lei. Non ebbe il tempo di reagire: la afferrò, trascinandola via dal suo posto con una facilità spaventosa. Lei gridò, ma la voce fu soffocata dalla musica nelle cuffie, e rimase all’interno della sua testa.
Colse una fugace immagine di Pia e dei due ragazzi. Si accorse che avevano smesso di parlare, ma nessuno si girò per vedere perché stesse gridando. Il volto di uno di loro era schiacciato contro il finestrino. Siri non ebbe il tempo di cercare di darsi una spiegazione, perché l’uomo la stava spingendo più avanti lungo il corridoio, con una forza impressionante.
Cadde all’indietro, rovinando sul pavimento dell’autobus al rallentatore e senza avvertire alcun impatto, come se a contrastare la sua caduta ci fosse una forza contraria, come se fosse in corso una breve sospensione della gravità. Poi l’uomo le crollò addosso, e lei vide che le stava parlando, con un’espressione insieme disperata e spaventosa, ma non riuscì a sentire cosa diceva, sentiva solo la musica.
Sentì uno scossone e all’improvviso lui le si strinse contro con tutto il corpo, vide che cercava di aggrapparsi con le mani sotto il sedile, e si stringeva ancora più forte contro di lei, e con il suo peso la schiacciava, la soffocava. Gridò di nuovo, gli rivolse uno sguardo implorante, ma gli occhi dell’uomo erano rivolti altrove, persi nell’enorme sforzo di tenerla giù.
Un altro scossone, che la percorse come un brivido, ed ecco che l’uomo era scomparso, il suo peso si era sollevato in maniera tanto brusca che per un istante anche lei ebbe l’impressione di volare, benché in realtà fosse ancora nella posizione in cui lui l’aveva gettata. Sentì dell’aria fredda, e voltandosi vide che la porta di emergenza sul retro si era aperta, e senza pensarci scattò su, prima sulle ginocchia, poi in piedi, e balzò fuori in strada: aveva già corso forse per una decina di passi, quando si rese conto di essere riuscita a uscire dall’autobus e rovinò a terra.
Uno degli auricolari le scivolò dall’orecchio, e udendo il mondo – il disperato stridio dei freni di un veicolo lungo la strada, il lamento lacerante di un clacson – si sfilò anche l’altro e si girò a guardare alle sue spalle. Solo in quel momento capì cos’era appena successo, ma le parve quasi impossibile credere che potesse essere accaduto davvero.
Era seduta in mezzo alla strada, di fronte a ciò che restava dell’autobus su cui viaggiava e del tir di legname con cui si era scontrato. C’erano tronchi sparsi in mezzo all’asfalto, e i due mezzi erano talmente devastati che era difficile capire dove cominciava l’uno e finiva l’altro.
Udì qualcuno correre nella sua direzione, l’autista del veicolo che aveva sentito inchiodare. Si fermò, si inginocchiò e le mise una mano sulla spalla. Lei non si girò a guardarlo, ma con la coda dell’occhio vide che portava una camicia a scacchi e abiti da lavoro.
«Santo cielo! Stai bene?»
La sua voce era piena di incredulità e terrore. Siri annuì.
«Ci sono altre persone.»
Lui aveva tirato fuori il cellulare e lo teneva all’orecchio, ma le disse: «Non credo. Resta qui».
Si alzò in piedi e si avvicinò al groviglio di rottami con aria titubante, parlando al telefono: Siri non riusciva a sentire cosa diceva, ma probabilmente stava parlando con la polizia. E non fu la vista delle lamiere straziate e contorte a convincerla che l’uomo aveva ragione, ma la terribile calma assoluta della scena. Nessun altro poteva essere sopravvissuto a quell’incidente.
Nemmeno lei sarebbe dovuta sopravvivere, e si sentì stranamente stordita quando si rese conto di essere incolume, di essere seduta in mezzo alla strada, viva, e che un uomo che aveva visto tutti i giorni, ma con cui non aveva mai scambiato una sola parola, le aveva senza dubbio salvato la vita.