Capitolo 20

Quel pomeriggio, Dan chiamò un taxi e si fece portare all’indirizzo del caffè che gli aveva dato Inger. Aveva già ricevuto un paio di messaggi da Patrick e aveva deciso di ripartire il giorno dopo per Parigi, da dove avrebbe preso un treno per Limoges. Il fatto che ora Brabham stesse cercando di far fuori anche Patrick, oltre ai suoi ex agenti, suggeriva che nessuno di loro aveva tempo da perdere.

Il caffè era in una zona della città che non conosceva: chissà se era vicino all’ufficio di Inger o a casa sua. Era già lì quando Dan arrivò, seduta a un tavolino in un angolo. La raggiunse, si scambiarono un bacio formale e lei ordinò un caffè.

Mentre aspettavano che il cameriere tornasse, Inger disse: «Patrick mi ha raccontato di Jack Redford. È incredibile».

«Già» rispose Dan, anche se in realtà non pensava che nelle nuove rivelazioni ci fosse niente di più incredibile di quello che avevano scoperto loro.

«Ho anche qualcosa per te.» Si chinò per tirare fuori una busta dalla sua borsa, e mentre la posava sul tavolo disse: «Questo è l’uomo che hanno mandato da Berlino per dare un’occhiata a casa di Redford».

Dan prese la busta e tirò fuori la fotografia quanto bastava per vederla: si sarebbe detto un fotogramma registrato dalla telecamera di sorveglianza dell’aeroporto. Era un ragazzo sulla trentina, nessuno di sua conoscenza.

«Hai un nome?»

«Alex Robertson.»

«Robertson o Robinson?»

«Scusa, hai ragione, Alex Robinson. Ne hai sentito parlare?»

Dan annuì e osservò la foto più da vicino. Avrebbe voluto scoprire qualcosa di più, ma era solo un tizio qualsiasi con addosso un completo, quasi sospetto per il suo look così curato, tanto che si rischiava di confonderlo con un missionario mormone.

Fece scivolare di nuovo la foto nella busta. «Da quanto ho capito, continuerai a essere coinvolta nel caso in una certa misura.»

«Soprattutto adesso.» Lei si guardò intorno, qualche altro tavolo era occupato, e disse: «Spero che non ti dispiaccia se domani vengo con te. Più che altro come osservatrice, anche se in realtà ci sentiamo coinvolti, soprattutto dopo quello che è successo a Skeppsholmen».

Dan sorrise. Per cui i servizi segreti svedesi consideravano il tentativo da parte di Brabham di far fuori Patrick a Stoccolma una legittimazione del loro coinvolgimento. Non poteva biasimarli, e non aveva molta importanza che all’origine di tutto ci fosse il fatto che Redford aveva piantato una puntina a caso su una carta geografica: se avesse beccato un altro posto sperduto, probabilmente in quel momento Dan avrebbe avuto di fronte l’agente dei servizi segreti di un altro Stato.

«Che cosa ti fa pensare che domani vada da qualche parte?»

«Oggi è troppo tardi e, per quanto la mia città sia bellissima, non credo che tu voglia fermarti ancora. Suppongo Parigi…»

«Volo per Parigi, poi treno per Limoges.»

«Oh.»

Ovviamente aveva capito che per prima cosa intendeva parlare con i genitori di Sabine. Parve quasi pentita, come se pensasse a quanto avrebbe potuto essere penoso quell’incontro.

«Hai cambiato idea?»

«No, ma…» Lei esitò, poi disse: «Immagino che lo definiresti “cominciare dal difficile”».

Lui annuì, e interruppero per un momento la conversazione, perché il caffè era arrivato.

Quando furono di nuovo da soli, Inger riprese: «Mi hanno raccontato tutto quello che è successo stamattina». Fece un mezzo sorriso.

«E allora?»

«Non l’hai ucciso.»

Ora sorrise anche Dan. «Continuo a sorprenderti, vero?» Lei non rispose, però parve ammettere che le cose stavano così. «Non ho avuto tempo di riflettere molto, ma Matty doveva essere parecchio sotto pressione, siamo tutti sotto pressione, ed è questo il motivo per cui ha preso la decisione sbagliata. Suppongo sia la ragione per cui ha esitato prima di premere il grilletto, dandomi un vantaggio. Io e Matty Hellström abbiamo dei trascorsi, ed è un bravo ragazzo. Credo che sia separato, ma ha una moglie e due bambini piccoli. Quello che è successo oggi non basta a farmi decidere di farlo fuori.»

Lei rimase immobile a fissarlo per qualche istante, poi parve scuotersi e allungò la mano per prendere il caffè.

Dopo aver posato nuovamente la tazza, disse: «Be’, penso che tu abbia fatto la cosa giusta, e che sarebbe stato facile per chiunque – anche per qualcuno senza la tua storia – fare… la cosa sbagliata in quella situazione».

La fissò dritto negli occhi, e si rese conto che la cosa le suscitava un certo disagio. «Non sono una cattiva persona.»

«Adesso lo so. E… sì, la cosa mi sorprende, perché… hai fatto delle cose davvero tremende, orribili.»

«Lo so.»

Quando capì che non avrebbe aggiunto nient’altro, gli chiese: «E come ci convivi?».

Lui scosse la testa. «La verità è che mi limito a eseguire. Mi pagano e io faccio il lavoro per cui vengo pagato. Ho ucciso alcune persone, ho consegnato altre persone perché fossero uccise, oppure torturate, o imprigionate, ma nemmeno quelle persone sono mai del tutto innocenti.»

Mentre lo diceva, però, ripensò a Ramon Martinez, strappato alla sua famiglia: era stato pagato bene per rintracciarlo, ma certo non era stato pagato abbastanza da giustificare quella cosa, e non riusciva a smettere di pensare a suo figlio, chiedendosi chi lo avrebbe portato a scuola ogni mattina da quel giorno in poi.

Cambiando argomento all’improvviso, come se gli avesse letto nei pensieri, Inger gli chiese con tono curioso: «Sei mai stato tentato di sistemarti? Di avere figli?».

Lui la guardò. Quella era l’unica questione della sua vita di cui trovava difficilissimo parlare, anche con i suoi amici più cari, eppure per qualche motivo desiderò parlargliene, e parlargliene gli parve la cosa più semplice e più naturale del mondo. Non avrebbe saputo spiegare perché si sentisse così a suo agio con lei, perché con lei riuscisse a condividere pensieri che quasi non osava ammettere a se stesso, ma questo non lo fermò.

Si strinse nelle spalle e disse: «A dire il vero l’ho fatto, più o meno. Nove anni fa ho avuto un figlio». Scorse la meraviglia sul suo volto, e si rese conto che quella cosa non doveva essere emersa dalle ricerche fatte su di lui. «Non eravamo una coppia. In realtà era solo una storiella, una cosa leggera…»

«Perché la cosa non mi sorprende?»

«Non fraintendermi, non era la scopata di una notte o roba del genere. Intendo che sapevamo tutti e due che probabilmente non saremmo rimasti insieme. Non abitavamo neanche insieme. Poi Emilia è rimasta incinta e abbiamo avuto un figlio. Luca.»

Inger parve sbigottita dalla rivelazione. «Non lo vedi più?» chiese.

Dan esitò: avrebbe dovuto spiegarsi meglio prima. Lei si incupì, come se, anche in questo caso, avesse previsto ciò che stava per dire.

«È morto.» Lui fece un cenno del capo, consapevole di non avere quasi mai pronunciato quelle parole, di non averle nemmeno quasi mai dette a se stesso. Suo figlio era morto, e un pezzettino di Dan era morto con lui, lasciandolo per sempre incompleto. «È morto. Io ero via per lavoro, non raggiungibile, per un paio di settimane. E si è preso la meningite.» Lei restò a bocca aperta, sconvolta e dispiaciuta. «Lo ha ucciso nel giro di ventiquattr’ore. Sai, quando sono partito stava benissimo, aveva diciotto mesi, era in salute, forte. Aveva appena cominciato a chiamarmi “papà”, poi sono tornato e lui non c’era più, come se non ci fosse mai stato. Una cosa che dico sempre è che non puoi scomparire nel nulla, ma Luca è scomparso. Svanito, come non fosse mai esistito.»

Lei mise la mano sulla sua e disse: «Dan, mi dispiace, io…».

«Vorresti non avermelo chiesto?»

«No, sono felice di avertelo chiesto, e che tu me l’abbia detto.»

«Per cui non hai cambiato idea sul fatto di venire con me?»

Parve sorpresa. «Nient’affatto. Perché? E in realtà so che può sembrare strano, ma mi fa sperare più che mai che troveremo l’assassino di Sabine Merel, e se riusciremo a consegnarlo alla giustizia tanto meglio.»

Dan annuì: era della stessa idea, anche se non capiva quale collegamento avesse fatto Inger. Forse il punto era che sono così tante le cose brutte della vita fuori controllo, che a maggior ragione è importante far fronte a quelle che possono essere gestite.

Per ogni morte accidentale – quella di Luca, di Redford, degli altri ragazzini sull’autobus – c’erano altre morti che non sarebbero dovute avvenire, che reclamavano giustizia, e l’omicidio di Sabine Merel era tra quelle.