POSTFAZIONE

Un viaggio che conduce oltre i confini del quotidiano, nella condizione inedita e spiazzante dell’altrove. Una “luce strana, come se provenisse da un sole diverso”, che rivela alcune insospettate crepe nell’esistenza e impone al giornalista Davud, esule persiano in Olanda, di fare i conti con uno sradicamento e un’estraneità irriducibili. Al tempo stesso, nonostante l’inguaribile malinconia che si fa leit-motiv di questo romanzo – e d’altra parte colora tutti gli scritti dell’autore – la prospettiva “altra” in cui il destino lo ha costretto, permette al protagonista di osservare ciò che avviene attorno a sé con quello sguardo nudo, con quella vista sgranata, che lo rendono attento partecipe della realtà e, soprattutto, di quegli aspetti “minori” che ne rivelano l’essenza. O forse sarebbe più giusto dire che Davud – come prima di lui Bolfazl nel Viaggio delle bottiglie vuote (Iperborea, 2001), e Ismail in Scrittura cuneiforme (Iperborea, 2005) – si fa interprete di quest’ottica accettando di percorrere le strade che un fato imperscrutabile ha tracciato per lui, dopo averlo obbligato a lasciare la Persia; una fuga, quella dal paese natale, vissuta come un tradimento e pagata al prezzo di un senso di colpa che non lascia tregua.

Come gli affezionati lettori di Abdolah sanno, numerosi sono i punti di contatto tra la sua vicenda biografica e quelle dei protagonisti dei suoi romanzi, ma sarebbe riduttivo identificare nell’io-narrante di Ritratti e un vecchio sogno solo il rifugiato politico Kader Abdolah. Perché Abdolah nasce come narratore già quando, da attivista del movimento di ispirazione castrista in lotta contro il regime dello scià, e in seguito contro quello degli ayatollah, comprende che la sua vera vocazione è un’altra, e cioè quella di ricalcare le orme del suo bisnonno poeta e scrittore. E infatti il suo primo libro, Che cosa vogliono dire i curdi?, esce clandestinamente a Teheran nel 1980. Si tratta di un’opera frutto del viaggio politico-esistenziale che l’autore aveva intrapreso nel 1979 nel Kurdistan iracheno: “Ritenevo mio dovere far sentire la voce dei curdi... Ma volevo anche ritrovare me stesso”, dichiara in un’intervista. Poco dopo il suo arrivo nella regione, con pochi soldi in tasca e senza bagagli, era salito in montagna e aveva vissuto per un anno in mezzo al popolo. Se in Che cosa vogliono dire i curdi? è condensato il resoconto di quel lungo viaggio “tra le montagne più meravigliose, tra i campi [dove] vedevo i contadini lavorare con il fucile in spalla, [dove] cantavo canzoni di vittoria con i combattenti, dormivo in tende... e avevo nostalgia della donna che amavo”, in quello stesso libro ritroviamo anche l’Abdolah abituato da anni a tenere un diario e a riempire di appunti il taccuino che portava con sé nei viaggi estivi, dai quali tornava “sempre con una storia da raccontare.” Un Abdolah, quindi, dotato di una spiccata sensibilità di osservatore, che, unita a un gusto tutto persiano per l’arte del narrare, in Ritratti e un vecchio sogno lo porta a scrivere una cronaca intensa – quando non drammatica – e delicata, sospesa tra la dimensione lieve e veritiera del sogno e quella della dura realtà del vissuto personale e della storia; tra un privato dolente e un pubblico in cui, come un filo rosso che percorre tutta la sua opera, è forte il dovere della testimonianza; tra il piano del romanzo, reso in una prosa a un tempo semplice e ricercata, impreziosita com’è di rimandi poetici, e quello della narrazione di viaggio, trasfigurata da una visione della realtà essenziale, ultima. Ed è così che, pure con quel voyeurismo non di rado vampiresco, e tuttavia rispettoso, che conosciamo dalle pagine del Viaggio delle bottiglie vuote, lo sguardo di Davud e del suo alter ego Attar, si fa ascolto, di sé e del mondo. È uno sguardo acuito dalla sofferenza e dalla solitudine – condizione ineludibile dello scrittore, come ricordava Nooteboom in una recente prolusione – e perciò anche colmo di pietas, capace di cogliere l’umano, di vedere ciò che gli altri non vedono più.

È, come già nel Viaggio delle bottiglie vuote, lo sguardo del testimone, nelle due accezioni in cui, mi sembra, questo ruolo viene assunto dagli esuli persiani protagonisti degli scritti di Abdolah: quello di indagatore meticoloso del mondo che li circonda e quello di cantore della storia patria.

Non è un caso se nel riflettere su Ritratti e un vecchio sogno, che pare configurarsi come un’opera di passaggio, vi si colgono tanti echi del primo romanzo dell’autore: laddove in Scrittura cuneiforme la frattura provocata dall’esilio e dalla perdita degli affetti sembrava essersi ricomposta nel tessuto narrativo che legava passato e presente, Persia e Olanda, qui, come nel Viaggio delle bottiglie vuote, prevale il tema della cesura e del dissidio. Davud è annichilito, come lo è Bolfazl, ma come lui accetta di seguire il nuovo corso imboccato dal fiume della sua esistenza e, in questa accettazione, trova la fiera e vitale libertà del mettersi in viaggio.

Mentre quello intrapreso da Bolfazl era un viaggio all’interno della società olandese e della propria condizione di esule, il percorso seguito da Davud è, sul piano principale della narrazione, quello scandito dagli incontri pubblici a cui, insieme alle due potesse olandesi, partecipa in Sudafrica; ma è subito evidente che, oltre a profilarsi come un excursus nella realtà geografica, storica e sociale dell’ex Paese dell’apartheid, quella di Davud è un’autentica anabasi, un viaggio nel proprio passato e nella propria coscienza, nel rimpianto e nella speranza, nella nostalgia e nel desiderio. È un viaggio che conosce la libertà della sfida e della dimensione randagia del vagabondare, e poco importa se le montagne da scalare –o in cui errare, o cercare rifugio, amore o se stessi – siano quelle persiane di Ismail, e di suo padre Aga Akbar, o quelle scure e aride del Sudafrica che attirano Davud e i suoi amici.

È un viaggio che conosce il turbamento dell’amore fatale, la scabrosità dell’esposizione erotica, lo smarrimento della paura, la curiosità per il diverso e il rispecchiamento nel simile a sé, incarnato dalle figure, marginali o emarginate, dei neri, del profugo ugandese, della poetessa Ellen.

È un viaggio in cui, grazie al potere salvifico di una fantasia che si conferma rigogliosa – perché “è nella finzione che si realizzano i sogni” – il dolore, coniugandosi con la potenza creativa della parola, si apre alla speranza di un futuro riconciliato.

Ancora – e non poteva essere altrimenti – Ritratti e un vecchio sogno è un viaggio alla ricerca di una risposta al mistero della vita e del destino – “Ma tu, tu che cosa pensi? C’è qualcosa aldilà del tempio di questo universo?” – e, come nelle precedenti opere di Abdolah, anche un viaggio nella letteratura a cavallo tra Oriente e Occidente. Quest’ultimo aspetto, senz’altro uno dei più raffinati di questo testo, merita due brevi considerazioni.

Da sempre cifra di questo autore, capace di evocative invenzioni linguistiche, nonostante la fatica di far proprio un idioma non suo, la poesia afferma nelle pagine di questo romanzo – forse il più dolorosamente autobiografico e al tempo stesso il più letterario di Abdolah – il suo primato, facendosi trait-d’union tra moderno Occidente e classicità persiana, celebrata nelle rielaborazioni degli antichi racconti di viaggio riportati all’inizio di ciascun capitolo. E quanto essa sia centrale nella poetica dell’autore ce lo dicono, oltre alla sua scrittura, non solo le numerose citazioni di versi, a cominciare da quelli che danno origine al titolo, ma anche i nomi di poeti persiani scelti per i personaggi di Attar, Forugh e Rumi.

Infine, confermando la sua fiducia nel valore universale e nella profonda libertà della letteratura, Abdolah ci conduce ora attraverso la vitale realtà della cultura in lingua afrikaans, germogliata dalla mala pianta del colonialismo, ora, sulle orme di Sa’di, Naser-e Khosrow, Hafez e Khayyam, nel magico regno di un mondo esotico. Così facendo, come in un gioco di specchi, ci sfida a un affascinante confronto con il diverso da noi e, a un tempo, ci porta – vero viaggio nel viaggio – non solo in luoghi misteriosi e lontani come Bisotun, Hejaz e Karbala, ma anche entro le mura di città a noi ben più famigliari, come Halab, o Aleppo, Alqods, o Gerusalemme, Tarabalos o Tripoli, da secoli non solo teatro di scontri, ma anche fertili luoghi di incontro tra popoli e culture.

Elisabetta Svaluto Moreolo