PARAGRAFO 2
Marmarat al-Namat era una città diversa da tutte le altre. Sulle sue mura spesse i soldati aspettavano con l’arco in mano. Davanti alla porta si ergeva un’enorme colonna, sulla quale era scritto un testo in una lingua misteriosa.
“Ma a che cosa serve?!” domandai.
“A scacciare gli scorpioni”, risposero.
Sul terreno attorno erano sparsi centinaia di resti di antiche colonne e nessuno sapeva a cosa servissero e da dove provenissero.
1
Ascoltate, voglio raccontarvi un’altra cosa, disse Davud.
Questa mattina alle dieci è venuta a prendermi una donna bianca per andare insieme all’università. Aveva una quarantina d’anni, parlava afrikaans e indossava un vestito verde. Niente di speciale.
Io dovevo tenere una conferenza in una delle aule dell’università. Il pubblico era composto da cinquanta, sessanta studenti, dai loro professori e da altri collaboratori del dipartimento di afrikaans.
L’afrikaans era sempre più minacciato dall’inglese, mi aveva detto la donna con il vestito verde.
In effetti il nostro viaggio era stato organizzato proprio come un sostegno simbolico alla lingua afrikaans.
In macchina la donna aveva parlato di poesia, ma non avevo capito che fosse una poetessa.
Dopo di me toccava a lei.
Ha letto con grande fascino due poesie in afrikaans, una parlava del mare e l’altra di una barca.
Incredibile, se ascoltavo attentamente capivo.
Si chiamava Sophia. Perché non l’avevo guardata subito bene? Fino a un attimo prima era semplicemente una che era venuta a prendermi. Solo adesso vedevo la sua affabilità e le sue belle braccia nel vestito verde.
È stato attraverso le sue braccia, il suo collo, le sue labbra con il rossetto e il bordo del colletto del suo vestito che ho visto, sentito, letto, fatto conoscenza con l’afrikaans.
Dopo la conferenza è scomparsa.
2
La sera misi una sedia sulla balconata di una sala dove si svolgevano diversi spettacoli teatrali.
Dov’ero io non c’era nessuno, ma sotto era pieno di gente. Era un festival in difesa della musica e del teatro in lingua afrikaans. Diedi una rapida occhiata al pubblico, alla ricerca di Sophia. Ma lei non c’era.
A poco a poco l’afrikaans si fece largo nei miei pensieri. Era la lingua che gli olandesi avevano portato con il colonialismo. La lingua dell’occupante. Con il tempo l’antica lingua olandese aveva accolto il colore e lo spirito dell’Africa. Dopo l’abolizione dell’apartheid l’afrikaans è rinato. All’improvviso sono spuntati dal nulla centinaia di giovani poeti, scrittori, narratori e artisti teatrali. Hanno cominciato a scrivere in afrikaans. Pubblicavano le loro opere in proprio, o in piccole case editrici.
Dal momento che io faccio del mio meglio per scrivere in olandese e vedo questa lingua come una nuova identità, mi sentivo molto simile a quei nuovi scrittori sudafricani.
Entrò una donna. Con i suoi capelli rossi spiccava nettamente in mezzo al pubblico. Si guardò attorno e mi vide sulla balconata. Andò verso un angolo della sala dove c’era una libreria, prese un libro e lo sfogliò. Poi venne verso la scala e salì da me.
Sorrideva, evidentemente sapeva chi ero. Misi in tasca il taccuino su cui stavo scrivendo e mi alzai.
Era olandese, aveva visto la mia foto sul giornale, per questo mi aveva riconosciuto.
Mi diede la mano dicendo: “Mi fa piacere conoscerla.”
Andai a prenderle una sedia.
“Vive qui?”
“Diamoci del tu”, disse lei. “No, non vivo qui, abito a Città del Capo.”
Aveva poco più di quarant’anni e non sembrava felice.
“Vivo in Sudafrica da quattordici anni. Ma l’idea non era certo di restarci così tanto. Ero venuta qui con mio marito per dare un’occhiata, per cambiare un po’ vita, e nel frattempo sono passati quattordici anni.
Non mi sono mai sentita a mio agio qui, mai. È una società che non ti accoglie, che ti mette in un angolo. Non sono mai riuscita a trovare un lavoro fisso, non te lo danno. Questa sera sono entrata qui così, per caso, e ti ho visto quassù. Anzi, che cosa ci fai qui?”
“Guardo, prendo appunti.”
Lei scriveva poesie in afrikaans.
“Sento di non avere il diritto di scrivere in afri-kaans. Quando mi capita di leggere in pubblico una mia poesia, mi guardano tutti storto. È come se rubassi qualcosa. Non mi invitano mai a uno dei loro incontri. Le mie poesie semplicemente non contano. Mi sento così sola in questo paese.”
Andai a prendere due tazze di caffè. Lei mi offrì una sigaretta e mi raccontò che ogni tanto lavorava come segretaria d’azienda. Mi parlò di suo marito, un belga, e del loro matrimonio che si era arenato da anni, e delle donne sudafricane che sono così gelose.
“Appena parlo con un uomo, c’è sempre una donna che si precipita a prenderlo per un braccio e a tirarselo vicino. È incredibile. E gli uomini fanno finta di ascoltare solo le loro mogli, mentre invece le tradiscono tutti. Succede così spesso che potrei indicarti chi lo fa a occhi chiusi.”
“E tu?” le chiesi.
Per un attimo fece finta di non capire. Cambiò discorso e si mise a parlare di letteratura e delle sue poesie.
“Tu cosa fai con quegli uomini?”
Sorrise.
“Cosa devono sentire le mie orecchie! Come osi fare una domanda del genere a una signora per bene?”
“Faccio ritratti, quindi parla pure tranquillamente. Dimmi chi sei e cosa fai.”
“Appena sei da sola in una stanza con un uomo sudafricano e ti slacci il primo bottone della camicetta, lui si apre subito la cerniera dei pantaloni. Quante volte credi che non mi sia successo? Ultimamente sono stata a una conferenza con il direttore della ditta in cui lavoro. Al ritorno ci siamo fermati in una villa, una villetta. Vieni, andiamo a bere qualcosa, mi ha detto. L’ho seguito, era una casa di campagna. Appena siamo entrati si è spogliato, gli sarebbe tanto piaciuto fare una doccia con me.”
“E tu l’hai fatto?”
“Ovviamente no. Non è un bel posto, il Sudafrica. La vita mi ha tagliato fuori, mi ha messo in un angolo. Ogni tanto faccio un tentativo inutile di partecipare anch’io.”
“Come?”
“Innamorandomi. Per la prima volta mi sono inginocchiata davanti alla Madonna. Lei mi ha ascoltato. Una settimana dopo mi sono innamorata. Ma dell’uomo sbagliato. È sposato e ha cinque figli. Mi capita di dover aspettare un mese perché riesca a seminare sua moglie al mercato e a venire da me. Questo è il Sudafrica. L’unica speranza che mi sostiene è una poesia. Qualche mia poesia che verrà pubblicata, e mi salverà.”
La baciai. Se ne andò. Si chiamava Ellen.
3
Rimasi lì ancora un po’, poi infilai in tasca i miei appunti, scesi e uscii dalla sala. Nell’atrio vidi Sophia. Non sapevo cosa fare. Non avevo molto tempo. Forse partivamo da Stellenbosch già il giorno dopo o quello dopo ancora.
“Mi sono piaciute le tue poesie”, le dissi in olandese, senza preamboli.
“Davvero?”
“Davvero. Ne reciteresti un’altra per me?”
“Come?”
“Una tua poesia. Adesso.”
Rise: “Non ci riesco in questa confusione.”
La seguii fuori.
Al buio percorremmo dei vicoli stretti. Arrivammo a un giardino coloniale, con una cancellata classica, oltre la quale c’era un caffè.
“Ha voglia, avresti voglia anche tu di un bicchiere di vino?” mi domandò in afrikaans.
“Sì, lo bevo volentieri un bicchiere di vino con te.”
Cercò un tavolo libero in un angolo tranquillo. Mi sedetti di fronte a lei. La luce di un lampione attraverso la finestra le illuminava il collo, la spalla sinistra e le scendeva giù lungo il braccio.
Arrivò la cameriera, una ragazza.
“Del vino, per favore!”
Sophia prese la borsa, l’appoggiò sulle ginocchia, tirò fuori un piccola antologia di poesie e poi posò di nuovo la borsa sul pavimento.
La cameriera tornò con due bicchieri di vino.
Dopo averlo annusato, Sophia l’assaggiò e disse: “Questo vino è imbevibile!”
Lei e suo marito avevano un grande vigneto. La-sciammo perdere il vino. Sophia aprì l’antologia e lesse una poesia in afrikaans:
ti scrivo
di come si perde il sole alla fine
sulle barche sottili
degli addii
dell’antico ondeggiare
di un fazzoletto bianco
perché tu lo sai
sono cosa che non si scrive (...)
Capivo e non capivo.
Sophia lesse altre tre poesie. Mentre leggeva, la guardavo e l’ascoltavo. Devo stare attento, pensai. Sono un viaggiatore e forse domani non la rivedrò più.
Alla fine della sera dovette tornare a casa, alla sua fattoria, fuori città. I suoi figli l’aspettavano.
“Vorrei restare più a lungo con te”, le dissi.