PARAGRAFO 3
A Tarabolos5 c’erano due grandi cannoni sopra la porta della città. Non avevo mai visto armi da fuoco tanto straordinarie. Tarabolos era circondata su tre lati dal mare. Porto affollato e molti stranieri al bazar. Nei giardini delle case coltivavano il grano. Molta canna da zucchero. Le donne ne estraevano il succo. I bambini correvano per i vicoli del porto succhiando pezzetti di canna. Anch’io ne misi uno in bocca. Squisito lo zucchero di Tarabolos!
1
Con il sapore dello zucchero di Tarabolos in bocca ascoltavo Davud. Quel che diceva suonava nuovo alle nostre orecchie. Una volta non raccontava mai cose del genere. Noi, gli uomini del gruppo, ci sentivamo un po’ a disagio quando parlava dei suoi sentimenti per Sophia in presenza di Soraya e Forugh.
Rumi era sposato da molti anni. Forugh da uno. Malek, Soraya e io non eravamo sposati.
Prima di morire Malek e io non abbiamo mai avuto rapporti intimi con le donne. Non abbiamo conosciuto l’amore. Non abbiamo neanche mai baciato una donna.
Neanche Soraya conosceva l’amore.
Soraya è sepolta nel nostro stesso cimitero. È sepolta tredici tombe più avanti, a destra, sopra di me. Ogni tanto vedo un pezzetto dei suoi piedi. Secondo la tradizione patria, i morti vengono sepolti sul fianco destro, con il viso rivolto alla Mecca.
Quando Davud ha parlato di Ellen, la donna olandese, ho pensato che mi sarebbe piaciuto vederla.
Ma come?
Davud parlava senza difficoltà e a cuore aperto dei suoi sentimenti. Da questo si capiva che era cambiato. Eravamo curiosi di sapere che cos’altro ci avrebbe raccontato.
Che cosa pensassero Soraya e Forugh dei suoi racconti non lo sapevo. Forse avrebbero detto qualcosa dopo. Avevano e hanno, come donne, più limitazioni di noi. Ma immagino che trovassero un po’ strano che Davud parlasse così, senza peli sulla lingua, con Ellen e che parlasse apertamente di Sophia.
In Persia non si comportava così. I persiani parlano in modo vago, velato. La nostra cultura non ci permette di esprimere fino in fondo il nostro pensiero. Davud, invece, diceva quello che voleva. Capivamo che la fuga l’aveva cambiato.
Il giorno dopo, noi, gli uomini, decidemmo di andare in città. Non dissi niente, ma in cuor mio speravo di incontrare Ellen.
Che cosa avessero intenzione di fare Forugh e Soraya durante la nostra assenza, non lo sapevamo. Non dicevano niente. Immaginavamo che fossero curiose di Sophia. Forse volevano sapere che aspetto avesse la donna di cui Davud stava recitando piano una poesia mentre ci lasciava:
ti mando
il colore di una stella
nella quiete del karoo...
2
Era quasi sera. Rumi, Malek e io avevamo girato tutto il pomeriggio per la città. Cercavo invano una donna che spiccasse per i suoi capelli rossi. A un certo punto vedemmo un folto gruppo di persone davanti a un palazzo con un grande portale. Ci avvicinammo e le seguimmo all’interno.
Ci ritrovammo in una sala piena di gente. Quattrocento, cinquecento persone. Volevamo andarcene subito, ma era in corso un incontro interessante: tre esponenti politici neri dell’ANC6 discutevano con due politici bianchi: parlavano in inglese, ma ogni tanto passavano all’afrikaans.
Non c’erano sedie libere, così restammo in piedi davanti alla porta. Il dibattito riguardava “il passato”. Le considerazioni in inglese riuscivamo a se-guirle, ma quando passavano all’afrikaans non capivamo niente.
Ciononostante eravamo molto colpiti. Noi non facevamo che pensare al passato. Soprattutto Malek e io: noi due non avevamo altro che il nostro passato.
Discutevano di quale forma dare alla nuova società e di come andare avanti insieme.
Noi li ascoltavamo attentamente cercando di seguire. Uno dei politici bianchi, che aveva un computer portatile sulle ginocchia da cui tirava fuori le sue argomentazioni, disse agli ex combattenti dell’anc: “Ma cosa state dicendo? I bianchi del Sudafrica sono gli europei più poveri del mondo.”
Scoppiarono tutti a ridere.
Uno dei membri dell’anc ribatté subito: “Visto il computer supermoderno che hai, dovresti anche sapere che solo il due percento della borsa di Johannesburg è in mano ai neri, e il resto, cioè il novantotto per cento, è in mano ai bianchi.”
Non fece in tempo a finire la frase che l’altro politico bianco partì all’attacco: “Devi fartene una ragione, perché altrimenti la borsa di Johannesburg fallisce in un attimo. Chiaro il concetto?”
La sala rise.
Lo trovavamo affascinante. Loro erano noi. Co-me posso dire? Nell’atteggiamento degli ex combattenti dell’anc vedevamo i nostri vecchi compagni di lotta.
Davud conosceva alcuni ex combattenti di un tempo, degli anni in cui faceva parte del movimento di lotta clandestino in patria. Ieri aveva appuntamento con alcuni di loro in un bar. Hanno bevuto insieme del vino. Vino rosso sudafricano. E parlato del passato, dell’epoca dello scià di Persia, della rivoluzione e della nascita del regime degli ayatollah.
Se ne erano andati via tutti, ma noi eravamo ancora lì a guardare gli ex combattenti, soprattutto quello che camminava con il bastone. Quello ero io. Mi riconoscevo nel suo modo di discutere. Anche nel suo aspetto. Se fossi vissuto e diventato un po’ grigio di capelli, gli sarei assomigliato.
Girammo per le strade ormai buie, guardando le case e la gente. Ogni volta che passavamo davanti a un bar, gettavamo un’occhiata all’interno. Rumi e Malek erano stanchi e non avevano più voglia di vedere niente.
Io sì. Cercavo qualcosa di forte che mi legasse di nuovo alla vita. Un appiglio per poter lasciare la mia angusta tomba.
Passando davanti a un bar aprii piano la porta e guardai dentro. Mi investì un delizioso odore di alcol, salame e tabacco. Ah, la vita, pensai subito. Era affollato, tanta gente in piedi che beveva e fumava. Diedi un’altra occhiata e in mezzo al fumo di sigaretta vidi, seduta in fondo, una donna con i capelli rossi.
“Venite, andiamo a bere qualcosa!” dissi.
Rumi non beveva alcolici, Malek e io sì, ma era la prima volta che bevevamo in un bar. Nella nostra città, in patria, non c’erano bar. Da noi la gente preferisce andare in una casa da tè.
Entrammo. Rumi ci seguì un po’ controvoglia. Superammo le persone al banco. La musica era troppo forte. Facendo finta di cercare un posto per sederci, mi diressi verso la donna con i capelli rossi. Al suo tavolo c’erano due sedie libere. Lei sorrise e fece segno che erano libere e che potevamo accomodarci. Cercai una terza sedia. La donna era alle prese con un testo: ogni tanto beveva distrattamente un sorso di vino, scriveva qualcosa, cancellava alcune parole e ne aggiungeva altre. Noi restammo seduti in silenzio.
Rumi non aveva ancora capito, ma Malek mi guar-dò e disse sottovoce: “Guarda, anche lei ha i capelli rossi. Sarà forse la donna che…”
“Forse sì. Forse no. Ma no, credo di no.”
A me non importava se fosse o meno Ellen. Assomigliava alla donna che cercavo. C’erano due libri accanto al suo bicchiere.
Sollevò la testa, ci guardò, sorrise e poi riprese a scrivere. A quanto pareva stava scrivendo una poesia.
Arrivò il cameriere. Che cosa volevamo bere? Bella domanda! Indicai il bicchiere della donna. Vino!
Anche Malek voleva un bicchiere di vino. Rumi prese un succo di mango.
Quando stavamo per bere, la donna alzò leggermente il bicchiere. Noi la imitammo, dicendo: “Nush!”
“Come?” fece lei.
“Nush!” ripetei e le spiegai in inglese che in persiano significa “salute!”
“Allora, nush!” disse sorridendo.
“È una poesia?” le domandai. “Anche noi amiamo la poesia.”
Lei mi guardò con aria interrogativa. Alla luce della lampada vidi i suoi occhi.
“Siete forse ospiti della serata di poesia?” disse. “Poeti o qualcosa di simile?”
“No, non siamo poeti! Siamo ospiti, amanti della poesia!”
“Da dove venite?”
“Dall’altra sponda dell’Oceano Indiano. Dalla Persia.”
“Oh, che cosa curiosa!” esclamò lei ridendo.
Era contenta della nostra attenzione.
“Sta scrivendo una poesia?”
“Diciamo di sì. Può essere angosciante a volte, una poesia.”
“Come sarebbe a dire, angosciante?”
“Non so come spiegarmi. Uno scrive una cosa, a volte ci mette delle settimane e non sa che cos’è, cosa diventerà. A volte va a finire male ed è un doloroso fallimento. Questa poesia, secondo me, è proprio una di quelle rognose. Sono settimane che ci sto sopra, ma non oso ancora farla vedere a nessuno.”
“La legga a noi, se vuole!”
“Leggerla a voi? Dice sul serio?” fece sorpresa. “Capite l’afrikaans?”
“No, questo no, ma non importa. Ascoltiamo i suoni, il ritmo, e poi può tradurla in inglese, se vuole, e spiegarcela.”
“Mi mette in imbarazzo”, disse lei, “o forse invece no. Okay, ve la leggo. Lo faccio perché non vi conosco. Però quel che è giusto è giusto, alla fine dovrete dirmi cosa ne pensate.”
“Lo farò. Lo faremo.”
Accese una sigaretta. Era tanto, tantissimo tempo che non fumavo una sigaretta. Desideravo che mi chiedesse: una sigaretta?
Ma non lo fece.
Bevve un sorso di vino e tenendo la poesia alla luce disse: “Non è ancora finita, ma okay, ve la leggo. È la prima volta che leggo una mia poesia a degli estranei:
Come Inhaca guarda verso la costa, così mi sono voltata
Verso di te, con la mia bocca morbida, con i miei seni.
Quanto tempo ancora prima di ricongiungermi con i tuoi ampi
boschi di anacardi, prima di poter collimare,
il tuo braccio coperto di giunchi attorno a me
il tuo corpo scuro il mio corpo?”
“Bella!” dissi. “Davvero, dico sul serio.”
“Allora capite l’afrikaans?”
“No”, risposi. Ma come potevo spiegarglielo? Per me quel momento, quella sera in cui aveva letto la sua poesia avevano un significato tutto speciale. Non si trattava solo di lei, ma di tutto, di quei suoni africani, del ritmo, della sua voce, della luce della lampada che illuminava il suo viso e la poesia, dell’esitazione nei suoi occhi e di quel bar, degli uomini e delle donne in piedi al banco, del cameriere, della musica, del vino, del bicchiere con il succo di mango e di noi che sedevamo a quel tavolo, e di lei che ci spiegava la sua poesia in inglese: sì, tutte quelle cose insieme erano irrevocabilmente belle.
Quando ce la spiegò, la sua poesia ci parve ancora più bella.
“Che uomini affascinanti siete”, disse.
Parlammo tutta la notte di vino, di poesia e di Sudafrica.
Fumammo insieme cinque sigarette. Le faceva piacere che fumassi con lei.
“Che notte strana”, disse. “All’inizio ero così triste che pensavo che non sarebbe mai passata. Adesso vorrei che non passasse mai.”
Passeggiammo insieme per le strade deserte e l’accompagnammo fino a casa. Ci salutammo alla luce di un lampione.
“Ciao!” disse lei.
“Ciao!” rispondemmo noi.
In futuro, quando sarei stato di nuovo nella mia tomba, avrei pensato a lei. E avrei imparato a memoria l’ultima strofa della sua poesia, che mi aveva trascritto su un foglio:
Quanto tempo ancora prima di ricongiungermi con i tuoi ampi
boschi di anacardi, prima di poter collimare,
il tuo braccio coperto di giunchi attorno a me
il tuo corpo scuro il mio corpo?