Capitolo sei

Sophie

Nessuna ragazza dovrebbe perdere delle mutande così costose.

Fui quasi colta da una sensazione di tristezza quando le trovai nel divano di Ruger. Ricca seta scura e viola, delicati contorni di pizzo sulla parte superiore. Chiunque fosse, aveva speso troppi soldi a farsi carina per una notte di sesso con quel donnaiolo.

Conoscevo bene il dolore che si provava a perdere le mutande… durante quella tutt’altro-che-spettacolare sera in cui venne concepito Noah, avevo dovuto fare a meno delle mie dopo essere stati cacciati dall’appartamento di Ruger.

Con un sospiro, crollai sul cuscino del divano sotto cui stavo pulendo con l’aspirapolvere. Avevo fatto il mio primo passo in casa di Ruger facendo la pulizia delle superfici. Ora stavo andando in profondità, e significava rovistare tra all’interno dei mobili, tra le altre cose.

Era giovedì pomeriggio e la settimana era trascorsa in serenità. Dopo la mia visita da Kimber, ero entrata in contatto con alcune delle ragazze del club che avevano lasciato il loro numero di telefono. Sarebbero venute a trovarmi venerdì sera per conoscermi e uscire insieme. Sembravano gentili e premurose, proprio come sospettavo, e non vedevo l’ora di associare dei volti ai nomi.

Avevo anche conosciuto la vicina che viveva in fondo alla strada, una donna di quasi quarant’anni di nome Elle. Era rimasta vedova un paio d’anni prima e ora viveva da sola. Ci incontrammo giovedì pomeriggio, quando io e Noah andammo a fare un giro ed esplorammo la sua proprietà.

Io e lei passammo due ore sedute nel giardino di casa sua (possedeva una di quelle vecchie fattorie d’epoca, quindi aveva un cortile da paura completo di altalena e sedia dondolo) a bere tè freddo, e cazzeggiando. Elle fece anche una splendida impressione a Noah, e si era già proposta di fargli da babysitter quando ne avessi avuto bisogno. Mi trasmetteva delle vibrazioni positive, Noah l’adorava, e siamo rimasti estasiati quando ci invitò a cena per mercoledì.

Mercoledì era anche il giorno in cui avrei iniziato a pulire casa di Ruger.

In parte tutto ciò era dovuto alla noia. Mi sentivo anche in colpa, perché Ruger era un uomo single a cui chiaramente piaceva la propria libertà, eppure ci aveva portato lo stesso a casa con lui. Avremmo potuto essere d’intralcio al suo stile di vita. Non che mi piacesse particolarmente l’idea che potesse divertirsi a suo piacimento… sapevo di non poterlo avere per me, ma mi mandava fuori di testa l’idea che stesse con altre donne.

Fu a quel punto che capii di essere davvero incasinata.

Ma non cambiava i sentimenti che provavo per lui.

Comunque sia, decisi che il modo migliore per ripagare Ruger fosse diventare la sua domestica non ufficiale. Non aveva intenzione di farci pagare l’affitto, ma non mi sentivo a mio agio al pensiero di non guadagnarmi vitto e alloggio.

Il che mi portò al paio di mutandine viola dimenticate nel divano.

Con tristezza, non fu l’unico capo di biancheria che trovai nel giro di ventiquattro ore. Non erano neanche tutte della stessa misura – Ruger a quanto pareva amava variare le sue conquiste.

Raccolsi le mutande con un paio di pinze da cucina e le portai nella stanza del bucato. Non sapevo di chi fossero, ma non pensavo di dover gettare qualsiasi cosa trovavo, non importava quanto… usate… fossero. Lasciai cadere le mutande in una delle quattro scatole di plastica che avevo allineato sopra l’asciugatrice.

La prima conteneva dei soldi. Fino ad ora avevo trovato novantadue dollari e ventitré centesimi. La scatola numero due era piena di preservativi. Ne avevo trovati a quintalate in quasi tutte le stanze. Alcuni erano stati messi lì di proposito, così li lasciai dov’erano. Ma ne avevo trovati anche nelle tasche dei pantaloni sparsi in giro, nel cassetto delle posate, sopra alla libreria… ne avevo persino trovati due nel cartone della pizza sul tavolino da caffè. Al sapore di cioccolato. Cominciai a perdermi in una serie di fantasie a tema fattorino della pizza, che mi fecero un po’ eccitare.

E mi rendevano famelica.

Fu allora che decisi di aver bisogno di scatole in cui mettere tutta questa roba, così bastava chiudere il coperchio e fingere che non fosse mai esistita. Finora stava funzionando piuttosto bene. La scatola numero tre conteneva delle mutande da donna, reggiseni, e una calza di seta spaiata. La scatola numero quattro era “altro”: piccoli e strani pezzi di metallo, attrezzi a caso, un coltello da caccia, e due frammenti del biglietto di una partita degli Spokane Indians.

Oltre alle strane ondate di gelosia, volevo che casa di Ruger fosse fresca, pulita e confortevole al suo ritorno. Era il minimo che potessi fare. Pulii ovunque tranne che nella sua camera da letto, nonostante mi fossi comunque avventurata all’interno quanto bastava per prendere la biancheria più sporca.

Quella sera, Noah mi chiese quando sarebbe tornato zio Ruger. Non avevo la più pallida idea di cosa dirgli, e mi chiesi se potessi mai considerare normale vivere in casa sua. Non pagare l’affitto era grandioso, ma forse Kimber aveva ragione. In fin dei conti, avevo bisogno di una casa tutta mia, dove i cuscini del divano non fossero pieni di biancheria strana e che nel cassetto delle posate non ci fossero dei preservativi.

Mi svegliai con il tonfo sordo dei passi al piano di sopra intorno alle tre di mattina di venerdì. Ruger era a casa, notai ancora assonnata, e dal rumore sembrava stesse dando una festa. Per fortuna, io e mio figlio abbiamo il sonno profondo, così mi riaddormentai dopo cinque minuti.

Il giorno dopo, io e Noah facemmo del nostro meglio per non fare rumore mentre ci preparavamo e uscivamo di casa dalla nostra porta. Quando tornai dopo averlo accompagnato a scuola, sbagliai a impostare l’allarme di casa, inserendo il codice per due volte prima di indovinarlo. L’ossessione di Ruger per la sicurezza era maledettamente scomoda a volte…

Mi feci una doccia e rassettai il nostro piccolo appartamento. Erano quasi le dieci e non si sentiva ancora nessun rumore dal piano di sopra. E se fosse stato tutto un sogno? Dio solo sapeva quanto Ruger avesse la brutta abitudine di comparire nei miei sogni.

Salii le scale con passo felpato, non volendo svegliarlo. Arrivai in cima, mi voltai verso la cucina e barcollai, completamente scioccata.

Sembrava che durante la notte si fosse abbattuto un uragano sulla casa.

Bottiglie di birra vuote coprivano ogni superficie a disposizione. I mobili erano stati spostati, con un’estremità dell’amorino sollevata, che giaceva sulla parte posteriore del divano principale. C’erano dei cartoni di pizza semivuoti, della birra rovesciata – e la parte più sgradevole di tutte?

Una bionda completamente nuda se ne stava seduta al banco della colazione, ad accendersi una sigaretta.

Vederla mi colpì duramente: sul serio, non riuscii a respirare per un secondo, e mi sentii frastornata. Sapevo che Ruger andava a letto con chiunque. Ne avevo trovate le prove io stessa, ma in qualche modo questo mi dava il colpo di grazia.

Lei era splendida e disinvolta. Naturalmente, io indossavo una vecchia canottiera e dei pantaloncini corti, avevo i capelli raccolti in maniera disordinata in una coda, ed ero struccata. Volevo ucciderla. Vederla stecchita. Strangolarla sul colpo perché era una maledetta troia ed era più carina di me e si scopava il mio uomo.

Mi diedi uno schiaffo mentale.

Non potevo rivendicare alcun diritto su Ruger. Questa era casa sua e poteva fare ciò che voleva, compreso scoparsi questa puttana.

Non lo desideravo neanche, proprio no.

«Quindi, sei la proprietà di Ruger?», mi chiese, con sguardo ostile, con degli artigli rossi che tamburellavano pigramente sul bancone.

«Ehm, non penso di aver capito la domanda», risposi, indecisa se fissarle quelle graziose tette che sobbalzavano o seguire la scia di fumo che si innalzava dalla sigaretta fino al soffitto. Una volta che la puzza di fumo entra in casa, non se ne va più.

Ecco un altro motivo per odiare quella stronza.

«È un semplice sì o no», disse. «Appartieni a lui? Ti mette la toppa?»

«Non ho idea di cosa dici», risposi, dando un’occhiata in giro per tutto il salotto, sempre più incazzata, nonostante non fossero affari miei. Ci sarebbero volute ore per pulire e di sicuro non sarei stata io a farlo, decisi. Meglio farlo fare a quella troia. O a Ruger – che idea!

«Lo prendo come un no…», disse piano. «Allora perché diavolo sei qui? Ti ha chiamato questa mattina? Sul serio, se voleva una cosa a tre, avrebbe dovuto dirmelo prima. Senza offesa, ma io so fare di meglio».

Mi squadrò dall’alto in basso mentre lo diceva, passando a giudizio ogni centimetro del mio corpo.

«Mi sa che devo tornare di sotto», dissi, controllandomi con attenzione. Mi voltai per andarmene, ma la voce di Ruger mi bloccò.

«Sei ancora qui?», chiamò. La bionda rispose, con una voce dolce come il miele, e gli occhi che brillavano trionfanti e possessivi.

«Certo, tesoro. Hai bisogno di me?».

Ruger scese le scale in salotto, con indosso soltanto un paio di jeans sbottonati. Si vedeva perché pendevano celando ben pochi segreti alla vista. Dannazione.

Sapevo che Ruger era figo, ma sembrava come se me lo dimenticassi ogni volta che non lo vedevo per un po’, perché continuava a farmi lo stesso effetto ogni volta. Potevo metterci un anno a descriverlo, ma non avrei reso giustizia al suo fascino unico finché le mutande non iniziavano a bruciarmi di desiderio quando mi sorrideva per la prima volta.

Oppure, in questo caso, quando camminava per il salotto con addosso solo i jeans sbottonati, e gli occhi ancora immersi nel mondo dei sogni.

Il mio sguardo si posò sul suo petto, scivolando lungo i fasci di muscoli. Oh, povera me… dei pettorali perfetti, addominali e obliqui scolpiti. Scomparivano nel denim, che gli cingeva a malapena i fianchi, pronti a fuoriuscire da un momento all’altro. Volevo leccarlo ovunque.

Subito dopo averlo ucciso per essersi scopato La Troia Bionda.

«’Giorno», disse, guardando prima me e poi La Troia. Alzai la mano e gli feci un cenno di saluto con il dito, chiedendomi se il coltello in lavanderia fosse abbastanza bilanciato per lanciarglielo addosso.

«Bentornato Ruger», dissi, cercando di non sembrare una moglie gelosa, perché sarebbe da folli, giusto? «Fatto buon viaggio? A Noah sei mancato. Stavo giusto per andare di sotto. Buona giornata».

La Troia Bionda fece una smorfia, prendendo il mio tentativo di ritirata come una vittoria per lei. O forse era quello che immaginavo ci fosse dietro alla sua smorfia. Per quanto ne sapevo, poteva trattarsi del suo modo per dire grazie a Dio non devo fare una cosa a tre con questa sfigata.

Qualsiasi cosa fosse, poteva anche ficcarsela su per il culo.

«No», disse Ruger, fissandomi con attenzione. I suoi occhi si spostarono di scatto su di me, e non importava quanto fosse bella la ragazza in cucina, capivo che mi voleva. Aveva uno sguardo cupo e desideroso come lo era stato la notte scorsa. E tutti quegli anni addietro…

No, meglio non avventurarsi fin lì, ricordai mentalmente a me stessa. La situazione era già abbastanza incasinata di per sé.

«Dobbiamo parlare. È importante», mi disse. Poi lanciò un’occhiata alla Troia Bionda. «Basta così, è ora che te ne vai. Non chiamare».

Wow. Che cuore di pietra.

Mi piaceva.

«Davvero preferisci lei a me?», chiese La Troia Bionda, guardandoci entrambi con un’espressione sinceramente confusa.

«Sophie è la madre di mio nipote», disse Ruger, con un tono di voce severo e deciso. «Vale di più una come lei sporca e sudata che dieci di voi nude e in ginocchio, quindi levati dai coglioni».

Oh, aveva davvero un cuore di pietra. Forse non lo odiavo poi così tanto, perché poteva anche essere uno stronzo, ma lo era stato più con lei che con me. Per una volta, ottenni giustizia.

«Sei un po’ una testa di cazzo», disse La Troia Bionda, con un un’espressione imbronciata.

«Tu credi?», chiese lui, passandole accanto per aprire il frigorifero. Ruger tirò fuori un contenitore di succo d’arancia e lo tracannò senza usare il bicchiere. Finì, si pulì la bocca con il dorso della mano, e sbatté il palmo sul bancone. Fece schizzare il succo, ricordandomi del gigantesco casino che aveva appena combinato ovunque.

Un casino che non avrei pulito. Ne avevo abbastanza.

Dovevo ritirarmi di sotto, lontano da questa stronza e da Ruger, il più grande stronzo sulla faccia della terra. Era allo stesso livello dei più grandi porci del creato, considerando quello che aveva combinato in una sola notte insieme ai suoi amici. Mi voltai verso le scale ma mi prese il braccio con una mano, stretto e irremovibile come una manetta. Mi trascinò per tutta la cucina fino al bar, spingendomi per farmi sedere.

«Rimani qui», mi ordinò, con uno sguardo da duro. Poi guardò La Bionda. «Tu, vattene».

Il suo tono di voce non lasciava spazio ad alcuna discussione, e lei sobbalzò, con aria torva. Ruger attraversò rapido il salotto e salì le scale. La Bionda lo seguì, e poi tornò giù di corsa, mentre i suoi vestiti volavano dalla balaustra del primo piano.

Cinque minuti dopo se n’era già andata sbattendo la porta d’ingresso con forza e Ruger tornò in cucina rendendomi nervosissima. Non ero molto sicura di cosa dirgli. Lo odiavo per averla portata a casa. Ero gelosa di lei, perché era bella e l’altra sera aveva sentito il cazzo di Ruger dentro di sé, quando tutto ciò che era entrato dentro di me era stato un vibratore. Diavolo, non funzionava neanche bene – forse era colpa dell’alimentatore. La metà delle volte non si accendeva neanche e non avevo i soldi per comprarne uno nuovo. Quanto era patetico?

Ero troppo al verde per comprare persino un maledetto vibratore.

Forse avrei dovuto piazzarmi davanti al negozio Adam & Eve tenendo un cartello con su scritto Madre single, datemi una mano, e un bicchiere per gli spiccioli.

Ruger mi guardò strizzando gli occhi. Non si era ancora abbottonato i pantaloni. Porca puttana. Speravo davvero di non sbavare.

«Allora, stasera vengono a trovarci le ragazze del club», gli dissi, cercando di trovare un punto sicuro su cui posare lo sguardo. Guizzava dal tatuaggio tribale ai pettorali e si soffermava sull’anello al capezzolo. Arrossii. Di sicuro non . «Mi sembra di capire che stiamo organizzando una sorta di festa per domani all’Armeria del club… Devo proprio sapere perché il tuo club ha un’armeria?»

«È una vera Armeria della Guardia nazionale», disse. «Il club l’ha acquistata quando è stata messa sul mercato, anni fa. C’è tutto: una grande cucina, un bar fino a delle camere al piano di sopra per chi ha bisogno di smaltire la sbornia durante la notte».

Quindi. La sede del club aveva dei letti. Perché la cosa non mi sorprendeva?

Volevo chiedergli perché non si era scopato lì La Troia Bionda invece di portarla a casa da me e Noah, ma non riuscivo a pensare a un metodo meno folle per farlo. Piuttosto, decisi di continuare a parlare del mio programma.

«Mi hanno fatto organizzare un pigiama party per Noah a casa della mia amica Kimber per domani sera», dissi, con lo sguardo che guizzava sul suo volto. Nessun segno che ricordasse il nome della mia amica. Ottimo. «Ad ogni modo, mi hanno invitata e ti avevo promesso che gli avrei dato una possibilità, quindi… ci vediamo alla festa?».

Inclinò la testa e mi studiò, con un’espressione assolutamente impossibile da decifrare. Tra di noi calò il silenzio. Faticai a non blaterare, solo per riempire il vuoto.

«La festa è più grande di quanto pensano», disse alla fine, con un tono di voce basso. Mi ci volle un minuto per ricordare l’argomento di cui stavamo parlando. Ah, già. L’organizzazione della festa. L’Armeria. «Verranno un bel po’ di ragazzi da ogni parte del Paese stasera e domani. Non sono sicuro di volerti lì».

Scosse la testa con lentezza, passandosi la lingua all’angolo del labbro inferiore, afferrandosi l’anello. Volevo ficcarci dentro anche la mia lingua. Poi notai un altro dettaglio… merda. Aveva il piercing sulla lingua. Una pallina dura e rotonda proprio al centro.

Quattro anni fa non c’era. Me lo sarei ricordato.

Che sensazione mi avrebbe dato in bocca… o più in basso? Non avevo mai baciato un ragazzo con il piercing sulla lingua, figuriamoci scoparci. Iniziai ad avvertire un formicolio tra le gambe, e non era affatto ciò di cui avevo bisogno in quel momento. Stronzi del genere non dovrebbero essere così fichi.

Peli sulle orecchie, pensai. Fai finta che abbia dei peli sulle orecchie.

«Sei una persona molto frustrante, Ruger», dissi, indecisa se lamentarmi con lui per essere un tale donnaiolo, o saltare sul bancone, strappargli i pantaloni, e montargli sopra. Non era il modo migliore per gestire la situazione.

Lo sapevo.

Davvero.

«Tu dici che non dovrei giudicare il club», aggiunsi, cercando di concentrarmi. «Dici di voler farmi conoscere tutti, e che la vita di Noah migliorerebbe se avesse il club al suo fianco. Se è tutto vero, perché io non posso andare a una delle loro feste?»

«Perché questa volta ci daremo alla pazza gioia. Non è la festa giusta con cui iniziare», disse, distendendo le braccia per aggrapparsi al bancone. Vidi i suoi bicipiti flettersi sotto il tatuaggio che gli ricopriva tutto il braccio. Aveva altri disegni sulle spalle, delle specie di barre ricurve oltre al motivo sul petto. Un altro tatuaggio gli saliva dal fianco fino allo stomaco. Una pantera che scompariva dentro i suoi pantaloni da un lato.

Che animale fortunato.

Volevo davvero, davvero vedere il resto.

«L’altra sera hai detto che c’è una questione di cui dobbiamo discutere. Ehm, Sophie? La mia faccia è qui, eh», aggiunse, alzai di colpo lo sguardo dalla sua pancia. Mi sentii arrossire e lui rimase in silenzio, guardandomi con gli occhi socchiusi. Alzò una mano e si massaggiò la nuca – era bello osservare i suoi bicipiti e tricipiti flettersi – e si grattò lo stomaco. I muscoli tra le mie gambe ne presero nota e, pulsando, espressero la loro approvazione.

«Di cosa dobbiamo parlare?», chiesi, sentendo le guance che arrossivano di nuovo.

«Niente scopamici per te», mi disse senza traccia di umorismo. «Ti è vietato cazzeggiare, baciare, o anche solo sbattere quelle cazzo di ciglia davanti ai ragazzi del club. È l’unica condizione per andare alla festa. O a qualsiasi evento del club».

Alzai le sopracciglia e scossi la testa. Non importava quanto fosse imbarazzante la conversazione, dovevo stabilire delle condizioni.

«Che cosa stupida. Sono single. Se conosco qualcuno che mi piace, decido io se provarci, baciarlo o qualsiasi altra cosa. E poi parli proprio tu… Hai appena sbattuto fuori di casa una ragazza nuda senza troppi complimenti. Non è da ipocriti?»

«La casa è mia e le regole le stabilisco io», replicò. «Se vai a quella festa, non deve succedere niente. Sarai come la cazzo di Vergine Maria, capito? Altrimenti resti a casa».

Ci pensai, poi mi ripresi, sbattendo la mano sul banco. Fino a quel momento ero stata indecisa se andare o no alla festa. Volevo dare una possibilità al club, ma buttarmi a capofitto mi aveva reso nervosa. E ora? Ora sarei andata a quella maledetta Armeria a tutti i costi. E ci avrei provato con chiunque.

Vaffanculo a lui e alla sua troia.

Lo fulminai con lo sguardo. Lui ricambiò. Nessuno dei due sbatté le palpebre.

C’erano molti aspetti di cui Ruger rifiutava di parlare, e Dio solo sapeva quali altri pensieri mi nascondeva. In quel momento non riuscivo neppure a seguire la sua logica: se aveva già stabilito che tra di noi non sarebbe successo niente, allora perché recitava la parte del fidanzato geloso?

«Perché ti interessa?», chiesi alla fine. «I tuoi amici sono così pericolosi che non sono al sicuro? Perché hai trascorso tanto tempo a rompermi le palle perché pensavo fossero dei pericolosi criminali invece di dar loro una possibilità. Quindi o è per quel motivo o è perché sei geloso. È così? Tu non mi vuoi, ma non vuoi neppure che stia con nessuno? Non sarebbe più facile pisciarmi addosso, così tutti sapranno che ho già un padrone?»

«Sarebbe più facile se chiudessi quella cazzo di bocca», disse, facendosi scuro in volto.

«È questo che vuoi da me? Silenzio?», domandai, facendomi coraggio. «Chiamami stupida, ma sembrava che volessi molto di più l’altra sera. Non puoi tenere il piede in due scarpe, coglione. O c’è qualcosa tra di noi o sono uno spirito libero».

Ruger si allontanò dal bancone, tenendo fisso lo sguardo su di me mentre camminava in modo altero per la cucina.

«Oh, sì che posso tenere il piede in due scarpe», disse. «Non dovresti azzardarti a fare ipotesi su ciò di cui sono capace, Soph. Sarò gentile e ti anticiperò cosa sta succedendo qui. Voglio scoparti».

Fece il giro dell’isola della cucina, aggirandosi come il grosso felino che aveva tatuato sui fianchi. Sembrava che la stanza si stesse restringendo sempre di più. Ero fin troppo concentrata sul suo petto nudo, con l’inchiostro nero che formava delle onde mentre si muoveva, e su come teneva a bada la sua forza. Forse un confronto diretto era stato un errore…

«I tipi come me sono fatti così», continuò, con tono di voce basso e suadente, gli occhi annoiati che fissavano i miei. «Non facciamo ciò che dovremmo fare. Prendiamo ciò che vogliamo. E per quanto mi riguarda, io voglio ogni tipo di cosa. Prima di tutto voglio legarti al letto con la cintura. Poi voglio strapparti i vestiti e scoparti in ogni orifizio. Voglio venirti addosso e strofinartelo sulla pelle e leccarti la fica finché non mi urli di smetterla perché se verrai un’altra volta morirai. Poi voglio farlo di nuovo. Voglio possederti, Sophie».

Si fermò accanto allo sgabello sui cui ero seduta, così vicino che il calore del suo corpo mi avvolse. Non mi voltai nemmeno per guardarlo, spaventata come un coniglio, mentre le sue parole vorticavano nella mia testa. Il suo odore mi circondò. Cercai di respirare mentre si avvicinava sempre di più, aggrappandosi con un braccio al bancone, sussurrandomi all’orecchio.

«Voglio possedere ogni parte del tuo corpo», continuò, il suo respiro caldo mi accarezzava la pelle. «Voglio sbatterti di faccia contro questo bancone, strapparti quei pantaloni, e scoparti di forza e velocemente finché il cazzo non la smette di farmi male e non ho più la sensazione che mi esplodano le palle. Perché è da tantissimo che lo vogliono, Soph, e inizio a pensare che è una sensazione che non se ne andrà via tanto presto, a meno che non faccia qualcosa al riguardo».

Mi ci volle tutta me stessa per non urlare in preda al panico. Ogni parte del mio corpo formicolava e strinsi forte le gambe, facendo pressione sul clitoride con ogni pulsazione di desiderio. Oh, che bella sensazione. Non abbastanza, però, avevo bisogno di qualcosa di più. Sentii le guance arrossire. Considerai l’idea di allungare le braccia e infilarle sotto quei pantaloni mezzi abbottonati. Forse scoprire io stessa se Kimber aveva detto la verità sul cazzo di Ruger…

Ruger non mi aveva nemmeno toccata.

Non mi stava ancora toccando. Trattenni un gemito.

«Ma forse non è una buona idea», aggiunse, il suo tono di voce si calmò mentre si scostava da me. «Lo sappiamo entrambi. Non è quello di cui Noah ha bisogno e sarebbe un bagno di sangue per te e per me. Ma la tua idea di rimorchiare uno dei miei fratelli? Continua a ronzarmi in testa, Soph, e poi inizio a pensare che potrei voler sparare a qualcuno. Non voglio ammazzare nessuno domani, capito? Sarebbe un modo di merda per mettere fine una festa. Per non parlare del presidente, che potrebbe infastidirsi se uno dei fratelli del posto perde le staffe in pubblico con tutto il club radunato».

Porca puttana.

Annuii, sentendo una morsa al petto.

«Quindi, tutto sommato, è meglio che tu faccia esattamente come ti dico io a quella festa del cazzo», disse, e mentre pronunciava quelle parole sembrava darmi un consiglio, ma era un ordine chiaro e preciso. «Capisco che tu non voglia andare a letto con qualcuno come me, e non per una storia seria. Non voglio neppure che la situazione diventi più strana di quanto non lo sia già tra di noi. Ma se hai intenzione di farti un motociclista, io sono l’unico sulla lista, Soph. Non mi farò da parte lasciandoti scopare uno dei miei fratelli».

«Non posso credere che tu abbia detto tutto questo», sussurrai. «È sbagliato sotto moltissimi aspetti. Non so neanche da dove iniziare».

Lui mi considerò, con sguardo severo e tono di voce freddo.

«Non mi importa se è sbagliato», disse. «È così che vanno le cose. Casa mia, il mio mondo, le regole le stabilisco io. Dimmi che capisci e ti lascerò andare alla festa».

«Sono un’adulta», riuscii a dire, nonostante la voce tremante. «Non puoi dirmi cosa fare».

«Eppure lo sto facendo», ribatté, scrollando le spalle come se niente fosse. «Davvero vuoi che non forzi la mano? Perché lo farò, Soph. Non mettermi alla prova».

«Non ho deciso niente sulla festa», sussurrai. «Ma questa conversazione finisce qui. Me ne torno di sotto».

«No che non lo farai», disse, e quella piccola voce dentro la mia testa che urlava di correre finalmente ebbe il sopravvento. Scivolai giù dallo sgabello e mi precipitai in direzione delle scale. Grosso errore, perché Ruger mi bloccò all’altezza della vita e mi sollevò sul bancone della cucina, con uno sguardo infuocato. Due secondi dopo si infilò tra le mie gambe, tirandomi a sé con una mano e strattonandomi i capelli con l’altra, facendomi piegare la testa.

«Lasciami andare», sussurrai. Lui inclinò il capo, come se avesse preso in considerazione l’idea, poi la scosse leggermente.

«Non ci riesco», disse. Poi le sue labbra affondarono sulle mie e nel cervello mi si accese una miccia.