Capitolo uno
Sette anni dopo.
Seattle, Washington.
Sophie.
La nostra ultima sera a Seattle non fu delle migliori.
La mia babysitter, la babysitter di emergenza, e la seconda babysitter di emergenza avevano tutte la febbre. Sarei rimasta fregata se una delle mie nuove vicine non si fosse offerta di tenere d’occhio Noah. Non la conoscevo molto, ma vivevamo l’una accanto all’altra ormai da un mese e non c’era stata alcuna avvisaglia di pericolo. Non era proprio il massimo, lo so.
Fai quello che devi quando sei una madre single.
Poi Dick incominciò a urlarmi contro per essermi presentata tardi al lavoro.
Non gli ho detto che avevo rischiato di non presentarmi affatto per colpa di Noah. E no, non lo sto chiamando Dick perché è un nome da stronzo (sebbene lo sia davvero). Ma purtroppo è il suo vero nome.
Quella notte ho capito perché era così di cattivo umore, perché delle sei ragazze che dovevano lavorare se ne erano presentate solo due. Due avevano la febbre (ed era vero, dal momento che ce l’aveva mezza città) e due avevano degli appuntamenti galanti. O forse è solo una mia ipotesi. Secondo le versioni ufficiali a una era morta la nonna (per la quinta volta) e all’altra si era infettato un tatuaggio.
A quanto pareva, nessuna farmacia nel vicinato aveva degli antibiotici.
Ad ogni modo, le cose sono andate in vacca in fretta. Avevamo ingaggiato una band, che metteva di buon umore i clienti, ma la musica dal vivo e la gente che ballava ubriaca mi rendeva complicato gestire i tavoli. Ed eravamo persino più pieni del solito. Non ce l’avremmo fatta neanche con il personale al completo. E, ciliegina sulla torta, ospitavamo una band del posto la cui maggior parte dei fan erano studenti universitari, e voleva dire una sola cosa: pessime mance.
Alle undici ero già stanca e me la stavo facendo sotto, quindi sgattaiolai in bagno. La carta igienica era finita (ovviamente), e sapevo fin troppo bene che nessuno aveva tempo di ricaricarla. Tirai fuori il cellulare per controllare che fosse tutto a posto, e mi stupii quando vidi che erano arrivati due messaggi. Uno da Miranda, la mia babysitter, e il secondo da Ruger, il quasi-cognato più spaventoso al mondo.
Merda.
Prima Miranda. Premetti il telefono contro l’orecchio per ascoltare le sue parole, pregando il cielo che fosse tutto a posto. Dick non mi avrebbe lasciato andare a casa prima per nulla al mondo, neanche per un’emergenza. Ruger poteva aspettare.
«Mamma, ho paura», diceva Noah.
Rimasi di sasso.
«Ho preso il telefono di Miranda e mi sto nascondendo nell’armadio», continuò. «C’è un uomo cattivo qui e sta fumando dentro casa e voleva che fumassi anche io, e hanno continuato a ridermi in faccia. Ha provato a farmi il solletico e mi ha fatto sedere sulle sue ginocchia. Ora stanno guardando un film con delle persone nude e non mi piace. Non voglio stare qui e voglio andare a casa. Voglio che vieni a casa. Ho davvero bisogno di te, mamma. Ora».
Riuscivo a sentire il suo respiro spezzato, come se stesse piangendo ma non voleva farmelo sapere, e poi aveva attaccato.
Feci un paio di respiri profondi, cercando di controllare l’ondata di adrenalina, poi guardai l’orario di invio del messaggio. Quasi quarantacinque minuti prima. Avevo lo stomaco sottosopra e per qualche secondo pensai che mi sarebbe venuto da vomitare, ma alla fine riuscii a riprendermi e mettere piede fuori dal bagno. Di ritorno al bar, feci aprire a Brett, il bartender, il cassetto dove chiudevamo a chiave le borse.
«Devo andare a casa, mio figlio è nei guai. Dillo a Dick».
Mi diressi subito verso la porta, facendomi strada tra ragazzi delle confraternite ubriachi, ed ero già praticamente fuori quando percepii qualcuno afferrarmi il braccio per spingermi a voltarmi. Il mio capo era lì, con lo sguardo furioso.
«Dove pensi di andare, Williams?»
«È un’emergenza», gli dissi. «Devo andare a casa».
«Se mi molli con una ressa del genere ti conviene non tornare», ringhiò Dick. Avvicinandomi, lo guardai dall’alto in basso, e mi veniva piuttosto facile considerando che non arrivava nemmeno al metro e settanta. A volte pensavo a lui come a un hobbit.
Ma questa sera era solo un troll.
«Devo occuparmi di mio figlio», risposi con freddezza, usando la mia voce letale ammazza-troll. «Lasciami andare il braccio. Ora. Me ne sto andando».
Il viaggio in macchina durò almeno un anno.
Continuai a chiamare Miranda, ma non rispondeva nessuno. Raggiunto il vecchio condominio, salii di corsa le scale di legno fino all’ultimo piano, tremante, provando uno strano miscuglio di rabbia e paura. Casa di Miranda era dal lato opposto del corridoio rispetto al mio piccolo monolocale, e mentre le cosce e i polpacci bruciavano per la salita, mi resi conto di quanto mi piacesse che fossimo gli unici residenti. Fino ad ora.
Questa sera il palazzo aveva un’aria lugubre e spaventosa.
Nell’appartamento sentivo grugniti e musica a palla mentre bussavo alla porta. Nessuna risposta. Bussai più forte, chiedendomi se fosse il caso di fare irruzione. Poi la porta si spalancò. Un tizio alto con i pantaloni sbottonati e a petto nudo bloccava l’entrata. Sembrava stesse sul punto di esplodere dalla rabbia, e aveva gli occhi iniettati di sangue. Puzzava di erba e di alcol.
«Sì?», ha chiesto, barcollando. Ho cercato di guardare oltre la sua figura imponente, ma me lo impediva.
«Mio figlio Noah è qui da voi», dissi, cercando a fatica di mantenere la calma e di concentrarmi su ciò che contava veramente. Potevo uccidere questo coglione più tardi. «Sono venuta a prenderlo».
«Oh, già. Mi ero dimenticato di lui. Vieni, entra».
Si fece da parte, lasciandomi entrare. Casa di Miranda era un monolocale come il nostro, quindi avrei dovuto trovare Noah a prima vista, eppure di lui non c’era traccia. Invece scorsi la mia inutile vicina sul divano, collassata sulla schiena con gli occhi annebbiati e un sorriso sornione stampato in faccia. Aveva i vestiti sgualciti, con una lunga gonna da hippie che scopriva le ginocchia divaricate. Il telefono era appoggiato sul tavolino da caffè davanti a lei, accanto a un bong costruito con penne di plastica, carta stagnola, e una bottiglia di Mountain Dew, e circondato da bottiglie vuote perché a quanto pareva non le bastava l’erba per divertirsi mentre falliva nel tentativo di fare da babysitter a mio figlio di sette anni.
«Miranda, dov’è Noah?», chiesi. Lei mi guardò assente.
«E io come faccio a saperlo?», sbottò.
«Forse è uscito», borbottò il tizio, dandomi le spalle mentre si dirigeva verso il frigorifero per prendere un’altra birra.
Mi mancò il fiato.
Su tutta la schiena aveva un enorme tatuaggio che assomigliava a quello di Ruger, solo che c’era scritto Devil’s Jacks invece di Reapers. Un club per motociclisti. Pessime notizie. Era sempre sinonimo di pessime notizie, nonostante quello che continuava a ripetere Ruger.
Ci avrei pensato in un secondo momento. Ora concentrati. Devi trovare Noah.
«Mamma?».
Aveva la voce bassa e tremolante. Mi guardai intorno frenetica, poi lo vidi arrampicarsi dalla finestra aperta che dava sulla strada. Oh, mio Dio. Mi precipitai verso di lui, sforzandomi di avvicinarmi il più delicatamente possibile. Eravamo al quarto piano e mio figlio si stava appendendo a un davanzale. Se non fossi stata super attenta, lo avrei scaraventato dal cornicione.
Allungai le braccia e lo sollevai per gli avambracci, riportandolo dentro e stringendolo forte al petto. Mi si strinse addosso come una scimmietta. Gli accarezzai la schiena con le mani, sussurrandogli quanto lo amavo e promettendogli di non lasciarlo mai più da solo.
«Non capisco perché sei così arrabbiata», borbottò Miranda, alzandosi per far posto a quel coglione del suo ragazzo. «C’è una scala antincendio lì fuori e non fa mica freddo. È agosto. Il bambino sta bene».
Feci un respiro profondo, poi chiusi gli occhi e mi sforzai di mantenere la calma. Poi li riaprii e gettai uno sguardo alla tv di fronte a lei.
Fui in quel momento che notai il film porno.
Distolsi subito lo sguardo dalla donna di silicone che si faceva scopare da quattro uomini insieme, sentendo il fuoco divamparmi in mezzo al petto.
Stupida stronza. Miranda me l’avrebbe pagata.
«Qual è il problema, scusa?», farfugliò.
Non mi degnai nemmeno di risponderle. Dovevo soltanto tirare fuori mio figlio da quel posto e portarlo a casa sano e salvo. Avrei affrontato i miei vicini l’indomani.
Forse allora sarei stata abbastanza calma da non mettere fine alla loro inutile vita.
Continuando a tenere Noah in braccio, uscii dall’appartamento e percorsi il corridoio fino alla nostra porta. In qualche modo la aprii senza doverlo appoggiare a terra, con le dita che tremavano di rabbia repressa e da una sana dose di senso di colpa.
Lo avevo deluso.
Mio figlio aveva bisogno di me, e invece di proteggerlo, lo avevo abbandonato con una tossica che avrebbe potuto farlo ammazzare. Essere una madre single faceva davvero schifo.
Ci vollero un bagno, un’ora di coccole e quattro fiabe per far addormentare Noah.
Io? Non ero sicura che sarei mai più riuscita a dormire.
Il caldo estivo non era di sicuro d’aiuto – giuro, in quel posto non tirava nemmeno un filo d’aria – e dopo un’ora passata a sudare al buio, e a guardare il suo piccolo petto che si alzava e si abbassava, ci rinunciai. Stappai una birra e mi sedetti sul divano, con un migliaio di piani che mi ronzavano in mente. Primo, avrei ucciso Miranda. Poi avrei avuto bisogno di trovare un nuovo posto in cui vivere, o lo avrebbe fatto lei. Forse era il caso di avvertire la polizia?
L’idea di gettare lei e quel fattone del suo ragazzo in pasto ai lupi era allettante. Gli serviva proprio una bella visita dai nostri amici vestiti di blu.
Ma visto che il suo uomo faceva parte di un club per motociclisti, chiamare la polizia non era di sicuro un’idea saggia. I membri degli MC di solito non erano i fan numero uno della polizia, e lui e i suoi confratelli me l’avrebbero fatto notare una volta usciti su cauzione. Per non parlare del coinvolgimento dei servizi sociali, che non avrebbero certo migliorato la situazione.
Amavo Noah e avrei fatto qualsiasi cosa per lui. Ero una madre dannatamente brava. Quando le ragazze della mia età andavano fuori a fare festa e a divertirsi, io lo portavo al parco e gli leggevo le storie. Avevo passato il mio ventunesimo compleanno a tenerlo in braccio mentre vomitava per l’influenza, invece di andare per locali. Non importava quanto le cose si mettessero male, io trascorrevo del tempo con Noah ogni giorno per assicurarmi che si sentisse sempre amato.
Ma sulla carta non sembravo così brava.
Madre single. Del padre nessuna traccia. Nessuna famiglia nei paraggi, e vivevamo in un merdoso monolocale. Probabilmente da stasera ero perfino senza un lavoro… come avrebbero reagito i servizi sociali? Avrebbero dato la colpa a me per averlo lasciato con Miranda?
Non avevo idea di cosa fare. Bevvi un lungo sorso di birra e accesi il telefono, guardando il messaggio di Ruger che lampeggiava in tono accusatorio sullo schermo. Merda. Odiavo l’idea di chiamarlo. Non importava quanto tempo trascorresse con noi (e insisteva per vedere Noah regolarmente), è solo che non riuscivo mai a rilassarmi in sua presenza. A Ruger non andavo a genio e ne ero consapevole. Ero certa mi incolpasse per aver distrutto il suo rapporto con Zach. E solo Dio sa quanto ne ero colpevole. Ma scacciai in fretta il ricordo.
Scacciavo sempre i ricordi.
Se solo si fosse dimostrato innervosito dalla mia presenza, ma a quanto pareva stavo chiedendo troppo. Preferiva ignorarmi e basta, non prendendosi neanche la briga di accorgersi della mia esistenza.
E qual era la cosa più frustrante di tutte? Ruger era il ragazzo più bello che avessi mai conosciuto. Era tutto pericolo e muscoli, con i suoi tatuaggi e i piercing e quella maledetta Harley nera. Quando entrava in una stanza la faceva da padrone, perché bastava una semplice occhiata per capire che era un duro, il tipo che ottiene ciò che vuole senza dover chiedere mai.
Covavo in segreto una cotta spaventosa per lui, da molto più tempo di quanto volessi ammettere, dettaglio che lui sembrava non notare nonostante la sua evidente passione per ogni donna con meno di quarant’anni nel raggio di mille chilometri. Be’, era riuscito a notarlo solo una volta, e non era finita nel migliore dei modi.
Almeno quando ci veniva a trovare non portava mai con sé nessuna delle puttane del club (cosa che apprezzavo enormemente), ma non cambiava il fatto che era uno dei più grandi puttanieri dell’Idaho settentrionale.
Ecco a che punto eravamo.
Presentandomi con il mio fascino poco minaccioso, il donnaiolo più sexy e prolifico di quella striscia di terra dell’Idaho del mondo di terra preferiva uscire con mio figlio di sette anni durante le sue visite.
Schiacciai play con un sospiro.
«Sophie, rispondi a quel cazzo di telefono», diceva, con un tono di voce freddo e imperterrito, come al solito. «Ho appena ricevuto una chiamata da Noah. Ci ho parlato per un po’ e ho provato a tenerlo calmo, ma poi una stronza ha iniziato a urlare e gli ha portato via il telefono. Non ha risposto nessuno quando ho richiamato. Non so cosa cazzo ti passa per la testa, ma tuo figlio ha bisogno di te. Alza il culo e vai a prenderlo. Ora. Ti giuro che se gli succede qualcosa… non voglio nemmeno parlarne, Sophie. Chiamami, cazzo, chiamami appena lo trovi. Non voglio scuse».
Posai il telefono e tirai su le ginocchia al petto, massaggiandomi le tempie con la punta delle dita.
La situazione era già abbastanza drammatica di per sé, e ora dovevo pure sorbirmi la sfuriata del signor essere un motociclista non è un crimine. E me l’avrebbe fatta alla grande, non ne avevo dubbi. Ruger era abbastanza spaventoso anche di buon umore. L’unica volta che lo avevo visto davvero perdere le staffe mi aveva fatto venire gli incubi, e non in senso figurato. Sfortunatamente, aveva ragione. Quando mio figlio aveva avuto bisogno di me, io non avevo risposto al telefono. Grazie a Dio Ruger c’era sempre per Noah. Ma allo stesso tempo… non avevo la benché minima voglia di avere a che fare con lui in quel momento.
Avrei potuto lasciarlo sulle spine, a preoccuparsi per Noah tutta la notte. Mi avrebbe dato della stronza non appena ci saremmo visti, e forse non avrebbe avuto nemmeno tutti i torti, ma non ero abbastanza stronza da torturarlo in quel modo. Schiaccai il tasto di richiamata.
«Sta bene?», chiese Ruger, senza neanche preoccuparsi di salutare.
«L’ho trovato e ora sta bene», risposi. «Non riuscivo a sentire il telefono che squillava al lavoro, ma ho trovato il messaggio e sono uscita tre quarti d’ora dopo. Sta bene. Siamo stati fortunati che non gli sia successo niente, non che io sappia, almeno».
«Sei certa che quel coglione non l’abbia toccato?», domandò Ruger.
«Noah ha detto che he cercato di fargli il solletico e gli ha chiesto di sedersi sulle sue ginocchia, ma lui è scappato via. Erano completamente strafatti. Non penso si siano nemmeno accorti quando è scappato. Si stava nascondendo sulle scale antincendio».
«Cazzo…», commentò Ruger. Non sembrava contento. «Quanto era in alto?»
«Quattro piani», risposi, chiudendo gli occhi per la vergogna. «È un miracolo che non sia caduto».
«Okay, sto guidando. Ci sentiamo dopo. Non lasciarlo più da solo, cazzo, o ne risponderai a me. Hai capito?»
«Sì», risposi con un sussurro, poi riattaccai, appoggiando il telefono sul tavolo. La stanza si era fatta asfissiante e non riuscivo a prendere aria, così mi trascinai lenta in direzione della finestra. Sollevata l’intelaiatura a ghigliottina, mi sporsi, guardando la strada e prendendo una boccata d’aria fresca. I bar si erano appena svuotati e le persone ridevano sui marciapiedi, camminando come se tutto intorno a loro fosse bello e grandioso.
Cosa sarebbe successo se non avessi controllato il cellulare? Qualcuno di questi baldi ubriaconi avrebbe alzato lo sguardo vedendo un ragazzino appeso alla rampa antincendio? E se si fosse addormentato lassù?
Noah a quest’ora poteva essere morto sul marciapiede.
Finita la birra ne presi un’altra, mi sedetti sul divano logoro e crollai. L’ultima volta che diedi uno sguardo all’orologio segnava le tre di mattina.
Poco prima dell’alba venni svegliata da un rumore.
Noah?
Una mano mi tappò la bocca mentre un’enorme figura si avventava sopra di me, inchiodandomi al divano. Venni percorsa troppo tardi da un’ondata di adrenalina – non importava quanto mi sforzassi di lottare, con quanta forza mi avventassi con il corpo contro il suo, il mio aggressore mi teneva in trappola. Riuscivo a pensare solo a Noah, che dormiva dall’altro lato del monolocale. Dovevo lottare e sopravvivere per mio figlio, ma non riuscivo a muovermi e non vedevo un accidente al buio.
«Hai paura?», mi sussurrò all’orecchio una voce rauca e oscura. «Ti stai chiedendo se sopravvivrai a questa notte? E tuo figlio? Potrei stuprarti e ucciderti e venderlo a qualche pedofilo pervertito. E tu non potresti fare niente per impedirmelo, non è vero? Come puoi proteggerlo vivendo in un posto del genere, Sophie?».
Cazzo. Conoscevo quella voce.
Ruger.
Non mi avrebbe fatto del male. Coglione.
«Cazzo, non ho neanche avuto bisogno di scassinarla quella serratura di merda che hai messo in questa topaia», ha continuato, spostando i fianchi sui miei, sottolineando quanto fossi totalmente in balia della situazione. «Hai la finestra aperta e lo stesso vale per quella sul pianerottolo. Mi è bastato uscire sulla rampa antincendio per entrare, e se ci riesco io significa che può riuscirci chiunque. Compreso quello stronzo di un pervertito che prima ci ha provato con il ragazzino. Portami da lui, Sophie. Fai sì con la testa se hai intenzione di fare la brava e ti lascio parlare. Non voglio spaventare Noah».
Annuii per quanto mi era possibile, cercando di rallentare il battito cardiaco, combattuta tra gli strascichi della paura e l’impeto della rabbia che mi assaliva.
Come si permetteva di giudicarmi?
«Se provi a urlare, te la faccio pagare».
Scossi la testa. Lui ritrasse la mano e mi sforzai di fare dei respiri profondi, sbattendo gli occhi rapidamente, mentre cercavo di valutare se scagliarmi addosso a lui e morderlo fosse o meno una buona idea. Probabilmente non lo era… Ruger era pesante e mi stava addosso, bloccandomi le gambe con le sue, e intrappolandomi le braccia in mezzo al divano. Non ricordavo mi avesse mai toccato di sua spontanea iniziativa – non negli ultimi quattro anni, almeno. Ed era una cosa positiva, perché c’era qualcosa in lui che mi faceva perdere il controllo, mi faceva spegnere il cervello lasciando che il corpo prendesse il sopravvento.
E l’ultima volta che avevo lasciato che il corpo prendesse il sopravvento mi ero ritrovata incinta.
Non mi ero mai pentita di aver avuto Noah, ma non significava certo che avrei permesso alla mia libido di prendere il controllo su di me. Dopo essermi finalmente liberata di Zach, ero uscita soltanto con degli uomini molto rassicuranti, e anche molto noiosi. In totale avevo avuto solo tre fidanzati in vita mia, e due su tre si erano rivelati molto carini e mansueti. Non avevo bisogno che lo zio motociclista di mio figlio arrivasse a complicare le cose… ma ora avvertivo quel suo profumo familiare – deodorante da uomo con una leggera nota di sudore – che mi provocava una reazione fastidiosamente prevedibile alle parti basse.
Anche in preda alla rabbia, desideravo Ruger.
A dire la verità, lo desideravo ancora di più quando era arrabbiato. Ed era una vera sfortuna, perché aveva un talento naturale quando si trattava di farmi incazzare. La mia vita sarebbe stata molto più semplice se solo fossi riuscita a odiarlo. Quell’uomo era un vero coglione.
Ma si dà il caso che fosse un coglione che amava mio figlio alla follia.
E così mentre stava sdraiato su di me e volevo prenderlo a testate o roba del genere, sentivo allo stesso tempo anche un’imbarazzante ondata di calore diffondersi tra le gambe. Era grosso e duro, proprio lì, e io non sapevo come fare. Ruger mi teneva sempre a distanza. Mi aspettavo che ora che aveva fatto valere le sue ragioni nel modo meno costruttivo possibile mi facesse alzare, ma mi sbagliavo. Si spostò di nuovo, appoggiando il peso sui gomiti, continuando a tenermi bloccata.
Mosse le gambe, mettendone una in mezzo alle mie. Decisamente troppo intimo. Cercai di chiudere le ginocchia, ma lui socchiuse gli occhi e fece scivolare i fianchi sul mio inguine.
Che errore. Un grosso errore… e anche ingiusto, perché stringerlo tra le mie gambe non serviva certo a farmi funzionare meglio il cervello. Mi dimenai, sentendo l’urgenza di allontanarlo da me. Immediatamente. Eppure non potevo fare a meno di domandarmi se non fosse il caso di allungare le mani e aprirgli la patta dei pantaloni.
Quell’uomo era come l’eroina: seducente, generava dipendenza, e un ottimo modo per svegliarsi morti.
«Stai ferma», mi sussurrò a fatica. «Il fatto che il mio cazzo abbia trovato il suo angolo di pace è forse l’unico motivo per cui sei ancora viva. Fidati, sto seriamente prendendo in considerazione di strangolarti, Sophie. L’idea di scoparti mi aiuta a equilibrare i pensieri omicidi».
Mi raggelai.
Non riuscivo a credere che l’avesse detto. Avevamo un accordo. Non lo avevamo mai discusso ma lo seguivamo entrambi alla lettera. Come previsto, però, schiacciò i fianchi contro i miei per farmelo sentire, lungo e in tutta la sua durezza, mentre diventava sempre più grosso contro il mio stomaco. I miei muscoli interni si contrassero, inondandomi di piacere in tutto il corpo. Non era giusto. L’infatuazione era a senso unico: io gli sbavavo dietro, lui mi ignorava, e fingevamo che tra noi non fosse mai successo niente.
Mi leccai le labbra e i suoi occhi seguirono quel movimento impercettibile, imperscrutabile, nella tenue luce che filtrava dalla finestra.
«Non farai mica sul serio», sussurrai. Lui strizzò gli occhi, studiandomi come fa un leone quando scova la gazzella più lenta. Un attimo, i leoni non le mangiano le gazzelle? Stava succedendo davvero?
Pensa.
«Non sei in te, Ruger», gli risposi. «Pensa a quello che hai appena detto. Fammi alzare e ne parliamo».
«Ero serissimo, cazzo», replicò, in modo duro e rabbioso. «Vengo a sapere che il mio bambino è in pericolo e che sua madre è sparita chissà dove. Ho passato ore a guidare per tutto lo stato, con la paura fottuta che qualcuno potesse molestare o uccidere il nostro ragazzo, e quando finalmente arrivo qui scopro che vivi in una topaia schifosa con la serratura del portone rotta e che mi bastano due secondi per entrare nel tuo appartamento dalla finestra. Mi intrufolo e ti trovo svenuta sul divano mezza nuda e che puzzi di birra».
Piegò la testa, annusandomi e puntando i fianchi contro i miei. Merda, che bella sensazione. Mi faceva veramente male in mezzo alle gambe, ma era una bella sensazione.
«Avrei potuto portartelo via, non ci sarebbe voluto un cazzo», continuò, alzando la testa e incenerendomi con lo sguardo. «E se ci sono riuscito io, potrebbe farlo chiunque, e non va per niente bene, cazzo. Quindi è meglio che ti metti seduta buona e aspetti che mi calmo un po’, perché adesso non mi sento una persona particolarmente ragionevole. Fino ad allora, ti consiglio di non dirmi quello che devo fare, hai capito?».
Feci un cenno con la testa, con gli occhi sgranati. Credevo a qualsiasi parola dicesse. Lo sguardo di Ruger era incollato al mio mentre spostava di nuovo le gambe, posizionandole entrambe in mezzo alle mie. Sentivo ogni centimetro del suo cazzo sopra al mio inguine. Mi avvolgeva completamente con il corpo, sovrastandomi con la sua forza, e all’improvviso ripensai alla notte in cui avevo perso la verginità con Zach nell’appartamento del fratello.
Io stravaccata su un divano, con le gambe aperte, mentre guardavo la mia vita andare in malora.
Del tutto.
Avevo ancora l’adrenalina in circolo, e non era Ruger l’unico a doversi dare una calmata. Lui mi spaventava, dannazione, e ora il bastardo mi faceva pure eccitare, una sensazione che si amalgamava fin troppo bene con la rabbia e la paura che avevano preso il sopravvento sul sistema nervoso. Non potevo neanche muovermi. Poi Ruger appoggiò la testa accanto alla mia e cominciò a gemere, sfregando i fianchi contro i miei. Un vortice di desiderio pungente, severo, e traditore si attorcigliava intorno alla mia spina dorsale diffondendosi dall’inguine. Quando premette con forza sul mio clitoride mi lasciai sfuggire un sospiro. Che bella sensazione. Troppo bella.
La troia dentro di me suggeriva un modo efficace per spegnere il fuoco di quella tensione…
Come se riuscisse a leggermi nel pensiero, Ruger riprese fiato. Poi me lo spinse addosso con ancora più forza, strofinandolo avanti e indietro in tutta la sua lunghezza contro lo strato sottile di cotone delle mie mutandine. Nessuno dei due disse niente ma inclinai i fianchi per sentirlo meglio, e lo sentì diventare ancora più duro.
È una pessima idea, pensai, inarcandomi dietro di lui e chiudendo gli occhi. Erano anni che lo desideravo. Ogni volta che lo vedevo, mi chiedevo segretamente come sarebbe stato sentirlo dentro di me.
Ovviamente, se lo avessimo fatto, sarei stata costretta a sopportare la vista della sua faccia spocchiosa contratta in un sorriso compiaciuto. Non si sarebbe sentito nemmeno in imbarazzo, quello stupido idiota. Dovevamo darci immediatamente un taglio. Ma lui mi faceva un effetto incredibile. Ero avvolta dal suo profumo, e dalla forza bruta del suo corpo che mi bloccava e mi apriva in due come una farfalla appena catturata, pronta per essere appesa al muro. Mi accarezzò la curva dell’orecchio con la punta del naso e, continuando a scendere, indugiò sul collo dove mi stampò un lungo e lento bacio, per poi continuare a esplorare la mia pelle con le labbra finché non dovetti mordermi la bocca per impedirmi di urlare. Mi contorsi sotto di lui, consapevole della verità. Lo volevo tutto dentro di me. Ora.
Non mi interessava se le farfalle morivano quando venivano attaccate al muro.
«Mamma?».
Merda.
Provai a parlare ma non mi uscì alcun suono. Mi schiarii la gola e provai di nuovo, il calore del respiro di Ruger giocava con mio il collo, accarezzandolo. Sentii tutto il corpo fremere, e lui si mosse, trascinando con lentezza, e ancora una volta, i suoi fianchi contro i miei, provocandomi sfacciatamente.
Bastardo.
«Ehi, piccolo», chiamai Noah, con un tono di voce instabile. «Ehm, dammi un secondo, ok? Abbiamo compagnia».
«È zio Ruger?».
Ruger spinse su di me un’ultima volta prima di alzarsi in piedi come un coltello a serramanico. Con fare malfermo mi sedetti dritta con la schiena, strofinandomi le braccia con le mani, su e giù. La voce di Noah avrebbe dovuto essere la doccia fredda che calma i bollenti spiriti, ma non ebbi così tanta fortuna. Sentivo ancora la deliziosa lunghezza di Ruger tra le gambe.
«Sono qui, ometto», disse Ruger, in piedi, passandosi una mano tra i capelli. Lo scrutai nella fioca luce del mattino, desiderando con tutto il cuore che assomigliasse di più a Dick, il mio ex-capo. Non ebbi fortuna nemmeno stavolta. Ruger era alto più di un metro e novanta, con i muscoli scolpiti e fastidiosamente bello con la sua aria alla probabilmente sono un assassino ma ho le fossette e il culetto stretto quindi sbavami addosso. Delle volte si faceva il moicano, ma negli ultimi mesi aveva iniziato a portare lo stesso taglio sfumato che aveva la prima volta che ci eravamo incontrati, con i capelli leggermente più lunghi sul davanti, scuri e spessi.
E con quella stazza, i piercing, il gilet in pelle nera del club e i tatuaggi su entrambe le braccia sembrava appena uscito da un manifesto con su scritto “Ricercato”. Noah avrebbe dovuto essere terrorizzato da lui. Ma non sembrava accorgersi di quanto fosse spaventoso suo zio. Non ci aveva mai fatto caso.
«Ti avevo promesso che sarei venuto a prenderti, non è così?», disse Ruger con dolcezza. Noah sgattaiolò fuori dal letto e carambolò addosso a Ruger, alzando le mani per ricever un abbraccio. Ruger prese il mio bambino e lo fece dondolare in alto, con lo sguardo fisso su di lui, da uomo a uomo. Ruger lo faceva sempre: prendeva sul serio Noah.
«Stai bene, amico mio?».
Noah annuì, avvolgendo il collo dello zio in un abbraccio e stringendolo forte. Venerava Ruger, e il sentimento era reciproco. Era una vista che spezzava il cuore.
Avevo sempre pensato che sarebbe stato Zach l’eroe di Noah. Ovviamente, avevo un istinto di merda.
«Sono orgoglioso di te, ometto», gli disse Ruger. Io rimasi immobile, intenzionata a unirmi a loro, ma Ruger si allontanò. E così voleva un po’ di privacy. Se faceva sentire Noah al sicuro, non avrei fatto storie, ma mentre riportava a letto il mio bambino origliai stralci della loro conversazione.
«Hai fatto bene a chiedere aiuto», lo sentii dire con voce delicata. «Se dovessi ritrovarti in una situazione del genere, chiamami. Chiama tua mamma. Puoi anche chiamare la polizia. Ti ricordi come si fa?»
«Nove uno uno», borbottò Noah, con un tono di voce deciso e assonnato. Uno sbadiglio gigante lo colse di sorpresa e si accasciò sulla spalla di Ruger. «Ma mi dite sempre di farlo solo se è un’emergenza e non ero sicuro di essere in pericolo».
«Se un uomo cattivo ti tocca, è un’emergenza», mormorò Ruger. «Ma sei stato bravissimo, hai fatto quello che ti ho insegnato. Ti sei nascosto e hai fatto la cosa giusta, ometto. Ora voglio che ti sdrai e torni a dormire, ok? Domani mattina ti porto a casa con me, così non sarai mai più costretto a vedere di nuovo queste persone o questo posto. Ma non puoi venire a casa mia se sei troppo stanco».
Mi mancò il fiato. Che diavolo stava succedendo?
Lo guardai rimboccare le coperte a Noah, tutt’altro che tranquilla. Qualche secondo dopo mio figlio si era già addormentato, chiaramente ancora esausto. Mi misi una vestaglia e aspettai che Ruger tornasse, incrociando le braccia e preparandomi alla battaglia.
Aggrottò un sopracciglio, con la chiara intenzione di studiare la mia reazione. Stava usando il sesso come arma per ricattarmi? Questo spiegava quel giochetto di seduzione sul divano…
«Quale parte di “non farmi incazzare” non hai capito?»
«Perché diavolo hai detto a Noah che verrà a casa con te? Non puoi fare promesse del genere».
«Ho intenzione di portarlo a Coeur d’Alene», replicò Ruger, con un tono di voce che non ammetteva discussioni. Inclinò la testa da un lato, aspettando la battaglia che prima o poi sapeva sarebbe scoppiata. Aveva il collo largo e muscoloso e i bicipiti si flettevano mentre incrociava le braccia, mettendosi nella mia stessa posizione. Non era davvero giusto. Un uomo così irritante dovrebbe essere basso e ciccione, con le orecchie pelose o qualche altra schifezza del genere. Ma questa volta non importava quanto fosse sexy, non mi sarei piegata: non era il padre di Noah e poteva anche togliersi dalle palle. «Scommetto che vuoi venire con noi, e sarebbe grandioso. Ma lui non resterà un’altra notte in questa topaia».
Scossi la testa piano, sicura di quel che volevo dire. La pensavo allo stesso modo sull’appartamento – non mi sentivo più al sicuro – ma non avrei lasciato che piombasse all’improvviso assumendo il comando. Avrei trovato un’altra casa. Non ero sicura di come ci sarei riuscita, ma ce l’avrei fatta.
Avevo trascorso gli ultimi sette anni ad affinare le mie abilità da sopravvissuta.
«Non spetta a te prendere questa decisione. Non è tuo figlio, Ruger».
«La decisione è già stata presa», rispose lui. «Può anche non essere mio figlio, ma è senza dubbio il mio bambino. L’ho considerato mio dal momento in cui è nato e, maledizione, lo sai che ho ragione. Non mi è piaciuto il modo in cui l’hai portato lontano da me, ma rispetto il motivo per cui l’hai fatto. Ora le cose sono cambiate. Mamma è morta, Zach se n’è andato, e questo», fece un gesto indicando il piccolo e logoro monolocale, «non va bene per lui. Cosa cazzo c’è nella tua vita di più importante che dare a Noah un posto sicuro in cui vivere?».
Gli lanciai un’occhiata di fuoco.
«E questo cosa dovrebbe significare?».
«Stai calma», mi disse, facendo un passo avanti verso di me, costringendomi a indietreggiare. Era un gioco di potere, pura intimidazione fisica. E scommetto che di solito andava a buon fine, perché quando si faceva sotto in quel modo, ogni mio istinto di sopravvivenza mi diceva di arrendermi e seguire i suoi ordini. Qualcosa fremeva nelle parti basse… stupido corpo.
«Significa quello che ho detto», continuò. «Come cazzo li spendi i soldi dell’assegno di mantenimento? Perché sicuro come la morte non li investi in questo buco infernale. E perché cazzo te ne sei andata dall’altra casa? Non era il massimo, ma andava bene, e aveva quel giardinetto con i giochi. Quando mi hai detto che ti stavi trasferendo, pensavo che avessi trovato qualcosa di più carino».
«Sono qui perché mi hanno sfrattata per non aver pagato l’affitto».
La sua mascella si contrasse convulsivamente. Assunse un’espressione cupa, un’emozione impossibile da interpretare gli riempiva lo sguardo.
«Vuoi dirmi – con esattezza – perché vengo a sapere di questa situazione solo ora?»
«No», risposi schietta. «Non voglio dirti niente. Non sono affari tuoi».
Rimase immobile, facendo una serie di respiri profondi. Passarono dei lunghi secondi, e mi resi conto che stava cercando a fatica di calmarsi. Pensavo che prima fosse arrabbiato, ma quella furia gelida che emanava in quel momento era di un altro livello… rabbrividii. Questo era uno dei tanti problemi di Ruger. A volte mi spaventava. E i ragazzi del suo club?
Persino peggio.
Ruger era veleno per una donna nella mia situazione, non importava quanto fosse dolce con Noah o quanto desiderassi il suo tocco con tutta me stessa.
«Noah, sono affari miei», disse alla fine, ogni parola era scandita lentamente e con fermezza. «Ogni cosa che lo tocca sono affari miei. Se non lo capisci è un problema tuo, ma stanotte la storia finisce qua. Lo porto a casa con me dove sarà al sicuro, così da non ricevere mai più un’altra telefonata come quella di ieri. Cristo, non hai preso nemmeno le precauzioni più basilari per rendere sicuro questo posto. Ma non mi ascolti mai? Ti avevo detto di prendere quei piccoli allarmi per le finestre finché non fossi venuto qui a installare i cavi come si deve».
Raddrizzai la schiena e tenni duro.
«Primo, tu non lo porti da nessuna parte», dissi, cercando con tutte le forze di non cedere io, o la mia voce. Non potevo permettermi di mostrarmi debole, nonostante fossi pericolosamente a un passo dal farmela sotto. «E secondo, è da quasi un anno che quel coglione di tuo fratello non paga il mantenimento. Neanche al Dipartimento della Salute e a quello delle Politiche sociali hanno più notizie di lui. Ho fatto del mio meglio, ma non sono riuscita a pagare l’affitto dell’altra casa. Questo invece me lo posso permettere, così ci siamo trasferiti. Non hai nessun diritto di giudicarmi… Vorrei vedere te a crescere un figlio con quello che guadagno. Non li regalano mica quegli allarmi, Ruger».
Contrasse la mascella.
«Zach sta lavorando nei pozzi petroliferi in North Dakota», disse con calma. «Sta facendo una barca di soldi. Gli ho parlato due mesi fa, della casa di mamma. Ha detto che fra voi due andava tutto bene».
«Ha mentito», dissi forzatamente. «Come fa sempre, Ruger. Non è una novità. Davvero sei sorpreso?».
All’improvviso mi sentii stanca – pensare a Zach mi stancava sempre, ma dormire non era la risposta. Quell’uomo mi aspettava addirittura nei sogni. Mi alzavo sempre urlando.
Ruger si voltò e si diresse verso la finestra, appoggiandosi al davanzale e guardando fuori con aria pensierosa. Grazie a Dio, sembrava si stesse calmando. Se non avesse avuto un profilo così attraente riflesso nella mia finestra, il mio mondo avrebbe avuto di nuovo un senso.
«Immagino non dovrei esserlo», disse dopo una lunga pausa. «Sappiamo entrambi che è un fallito del cazzo. Ma tu avresti dovuto dirmelo. Non avrei permesso che accadesse».
«Non era un tuo problema», replicai a bassa voce. «Stavamo andando alla grande, almeno fino a stanotte. Le babysitter che vengono di solito hanno tutte l’influenza. Ho commesso un errore. Non lo farò mai più».
«No che non lo farai», aggiunse Ruger, voltandosi per guardarmi in faccia. Inclinò la testa da un lato, con gli occhi che mi penetravano. Mi resi conto che il suo aspetto era leggermente diverso. Si era tolto alcuni piercing, ma ciò non fu comunque sufficiente a intenerirlo, perché aveva un’espressione d’acciaio. «Non te lo permetto. È ora che ammetti che non puoi gestire tutto da sola. Il club è pieno di donne che adorano i bambini. Ti daranno una mano. Siamo una famiglia, e in famiglia ci si aiuta proprio nei momenti di difficoltà».
Aprii la bocca per controbattere quando sentii bussare leggermente alla porta. Ruger si precipitò alla finestra e si affrettò ad aprirla.
Un uomo gigante, persino più alto di Ruger, entrò in casa, mormorando. Indossava dei jeans sbiaditi, una maglietta scura, e un gilet di pelle nera ricoperto di toppe, proprio come quello di Ruger, fra cui una con su scritto il suo nome e un piccolo diamante rosso con il simbolo 1%. Tutti i Reapers ce l’avevano, e la mia vecchia amica Kimber mi aveva detto che significava che erano dei fuorilegge – e su quello non avevo dubbi.
Questo sconosciuto aveva i capelli scuri lunghi fino alle spalle e un viso così bello e perfetto che avrebbe potuto essere la star di un film. Sotto un braccio teneva una pila di scatole di cartone, legate insieme con quello che sembrava del fildiferro.
Nell’altra mano aveva una mazza da baseball di alluminio e un rotolo di nastro isolante.
Deglutii e fui sul punto di svenire. Le mani cominciarono a sudarmi senza controllo, perché sono veramente prevedibile. La mia nemesi non era solo venuta a salvarci, aveva portato con sé uno dei suoi complici. Era quello il problema più grande di Ruger: compravi tutto il pacchetto. Se prendevi un Reaper, dovevi prenderli tutti.
Be’, tutti quelli che non erano al fresco, almeno.
«Lui è Horse, uno dei miei fratelli», disse Ruger, chiudendosi la porta alle spalle. «Ci aiuterà a caricare la tua roba. Fai con calma, ma inizia a mettere in valigia tutto quello che vuoi portare. Starai nel seminterrato di casa mia. Non penso tu abbia ancora visto la mia nuova casa», aggiunse meticolosamente, e io ero consapevole si trattasse di una frecciatina perché, all’inizio dell’estate, quando visitammo Coeur d’Alene, avevo rifiutato di fermarmi da lui. «Ma ha un seminterrato luminoso con cucina e tutto il necessario, e tu avrai il tuo piccolo giardinetto. C’è anche una marea di spazio per far correre Noah. È ammobiliato, quindi porta solo quello a cui tieni davvero. Il resto di questa merda può rimanere».
Diede un’occhiata alla stanza, giudicando i miei mobili. Capii ciò che voleva dire. Gran parte di quell’arredamento era stato sgraffignato alla discarica. I pezzi più di classe venivano dai negozi di cianfrusaglie.
«Come sta il bambino?», chiese a bassa voce Horse, mettendo giù gli scatoloni e appoggiandoli al muro. Poi sollevò la mazza, lasciandola per riprenderla con l’altra mano. Non potei fare a meno di notare quanto fossero grosse le sue braccia. A quanto pareva la vita al club non era tutta alcol e puttane, perché era ovvio che Ruger e il suo amico sollevassero pesi sul serio. «Quel bastardo l’ha toccato? Che tipo è?»
«Noah sta bene», dissi subito. Vidi il nastro, che Horse aveva dimenticato di mettere accanto agli scatoloni piegati. «Ha avuto paura, ma adesso è tutto finito. E poi non abbiamo bisogno del tuo aiuto, perché non torniamo a Coeur d’Alene».
Horse mi ignorò, lanciando un’occhiata a Ruger.
«Quel tizio è ancora lì?»
«Non lo so», rispose Ruger. Mi guardò. «Sophie, facci vedere in quale appartamento sono».
«Cosa avete intenzione di fare?», chiesi, guardandoli entrambi. Avevano il volto completamente inespressivo. «Non potete ucciderlo davvero. Lo sapete, no?»
«Non uccidiamo la gente», disse Ruger, con un tono di voce calmo e quasi rassicurante. «Ma a volte gli stronzi come quello hanno degli incidenti quando non fanno attenzione. Non puoi farci niente: è così che va la vita. Facci vedere dov’è».
Guardai le grandi mani forti di Horse che tenevano la mazza da baseball e il rotolo di nastro isolante, accarezzandone con un pollice la superficie argentata.
Poi pensai a Noah che si aggrappava alla rampa antincendio, a quattro piani di altezza, nascondendosi da un “uomo cattivo” che voleva farlo sedere sulle ginocchia per fargli il solletico.
Pensai all’alcol e all’erba e al porno.
Poi mi incamminai verso la porta, l’aprii, e indicai dal lato opposto del corridoio verso il monolocale di Miranda.
«Sono lì».