108

Nell’incubo che seguì diverse ore dopo, una figura sfocata che sapevo essere Mulch fuggiva dal ritrovo dei tossici dopo avermi spaccato la testa e rubato tutti i soldi. Come un eroe dei fumetti, io mi rialzavo e lo rincorrevo, solo che a quel punto non eravamo più a Washington, ma nel casolare abbandonato in cui Carney teneva prigionieri Cam Nguyen e i due bambini rapiti.

Mulch entrava nel casolare, lasciandomi intravedere un ciuffo di capelli rosso fuoco, e io lo inseguivo fin giù nella cantina attraverso il passaggio segreto. Quando uscivo dal tunnel ed entravo nella cantina, però, Mulch non c’era più.

La stanza ricavata da Carney nel sotterraneo era illuminata e io vi sbirciavo dentro. I miei cari erano lì, distesi vicino alla vasca da bagno, tutti nella stessa posizione delle foto, sul fianco, faccia rivolta verso sinistra, morti, insanguinati, feriti.

Avevano gli occhi aperti, lattei, e nei loro sguardi vacui leggevo l’accusa più pesante di tutte: non ero stato in grado di proteggerli, avevo permesso che gli succedesse l’impensabile. Quella con l’espressione più severa era Nana: sembrava quasi che si vergognasse di me, come se non le avessi portato alcuna gratitudine per avermi cresciuto e l’avessi abbandonata nel momento del bisogno.

Ero annichilito. Cadevo in ginocchio, allargavo le braccia, piangevo e imploravo perdono, chiedevo scusa a lei, Bree, Damon, Jannie e Ali. Loro però continuavano a fissarmi con occhi lattei ed espressione immutabile. Allora io mi disperavo, singhiozzavo e mi rendevo conto che quel dolore inenarrabile non si sarebbe mai placato.

Poi sentivo rumore d’acqua e fra le lacrime vedevo che la vasca era colma. Dall’acqua spuntava improvvisamente Mulch con una carabina da caccia. La sua faccia era una maschera di luce delimitata dal papillon a pois e la zazzera rossa e la sua voce sembrava quella di una radio a onde corte.

«Ho dovuto sparargli in testa, sai?» diceva. «Così non diventano zombie.»

Io non rispondevo e mi limitavo a fissare quel volto di luce accecante.

Dopo un po’, Mulch diceva: «Pensavo che mi avresti detto grazie, Cross».

«Perché?»

«Per aver risparmiato loro il tormento dei morti viventi.»

«No, voglio sapere perché mi stai facendo questo, Mulch.»

Lui scoppiava in una risata e rispondeva: «Per lo stesso motivo per cui si fa qualsiasi cosa: perché lo posso fare». Rideva caustico.

«Chi sei?» gli domandavo.

Mulch ci pensava su, prima di rispondere. «Sono chi tu vuoi che io sia.»

«Perché non mi uccidi?»

«Perché il gatto gioca con il topo?» ribatteva Mulch.

«Dunque mi ucciderai?»

«Certo.»

«Quando?»

«È giunto il momento, credo» rispondeva Mulch sbrigativo. «Sdraiati lì, fra tua moglie e tua nonna, sul fianco destro, posa la guancia in quel lago di sangue perfetto e guarda nel vuoto.»

Mi sistemavo senza esitazione, lanciando un’ultima occhiata struggente ai miei cari. Poi voltavo la testa e spalancavo gli occhi in attesa del colpo mortale.

«Prendi bene la mira» gli raccomandavo con un filo di voce.

«Tranquillo: io non sbaglio mai» rispondeva Mulch, e premeva il grilletto.

Punto debole
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