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Feci cenno a Cruz di coprire la porta e a Justine le finestre della stanza. Dopodiché Córdova e io ci sfilammo le scarpe e accendemmo le torce con il filtro rosso, tenendole sotto le canne delle armi. Schiena contro schiena, percorremmo le tavole di legno grezzo del pavimento fino al corridoio. Puntavamo i fucili e le luci verso le porte del bagno e della camera da letto sul retro.
Stavamo con le orecchie tese, pronti a cogliere qualsiasi movimento, qualsiasi ragione per aprire il fuoco. Mi chiesi se fosse questo il punto d’arrivo. Dopo tutto quello che avevo passato – la disintegrazione e l’umiliazione della mia famiglia, l’abbattimento dell’elicottero, la tormentata relazione con mio fratello – sarei morto in una squallida casa di Guadalajara? Portando con me nella tomba Justine e gli altri?
Arrivammo in fondo al corridoio e ci dividemmo. Córdova si avvicinò alla porta della camera da letto. Io feci lo stesso con quella del bagno. Dovevo fare ricorso a tutte le mie forze per mantenere la calma, controllare il respiro e il battito del cuore, in modo da percepire qualsiasi rumore.
Uno scalpiccio. Proprio dall’altro lato della porta.
Certe volte la miglior difesa è la sorpresa. Senza pensarci, girai la maniglia, spinsi la porta verso l’interno e la sentii urtare contro qualcosa di morbido, con un grugnito di accompagnamento. Balzai oltre la soglia, pronto a fare fuoco.
Ma mi trovai davanti a una tremante pistola nera, nella mano di un ragazzino di strada che non doveva avere più di quattordici anni, che tremava e non smetteva di agitare la gamba destra.
«Indietro o ti ammazzo», ringhiò. «Non mi importa degli ordini, se ti muovi ti ammazzo.»