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Rimasi tutta la notte seduto su un divano vicino alla sala operatoria. Mo-bot mi raggiunse verso l’una. Sci alle due.
Del Rio era andato sotto i ferri alle undici, un paio di ore prima che arrivassi all’ospedale dopo una breve visita agli uffici di Sanders a Beverly Hills, dove era arrivata una semplice email: «I bambini saranno liberati domani, a ora da definire. Vi contatteremo. Giustizia è fatta. Loro sono innocenti».
Con il passare del tempo, senza alcuna notizia dai medici che si occupavano delle ustioni e della colonna vertebrale di Rick, non riuscivo a pensare né agli Harlow né a Niente Prigionieri, a Tommy o tantomeno a Carmine Noccia. Per la prima volta da molto tempo – probabilmente dalla morte di mia madre – mi ritrovai a pregare, confessando la mia convinzione di essere responsabile della morte di Bud Rankin, quasi quanto lo era Niente Prigionieri. E per colpa mia il mio migliore amico era in chirurgia da cinque ore... sei, adesso. Chiesi misericordia a Dio per l’anima di Rankin e la spina dorsale di Del Rio.
Non sapevo chi avvisare, riguardo a Bud. Non aveva famiglia, era un solitario. Feci voto, in ogni caso, di onorare la sua memoria in qualche modo.
Al di là di questi pensieri, c’era il fatto che avevo sempre considerato Del Rio indistruttibile: eravamo un’unica forza in battaglia, lui era un autentico commilitone dei Marine, un fratello di sangue che non mi avrebbe mai abbandonato e che io a mia volta non avrei mai lasciato al proprio destino. Mentre l’alba tingeva il cielo di Los Angeles, l’idea che potesse passare su una sedia a rotelle il resto dei suoi giorni mi spezzava il cuore.
Sorseggiai il caffè che mi aveva procurato Sci e rivolsi lo sguardo, distratto, al televisore che trasmetteva le notizie dell’esplosione e delle vittime al molo di Huntington Beach. I media ormai conoscevano la storia e stavano parlando di tutto tranne che, mi sembrava, del coinvolgimento della Private. Vidi persino il sindaco mentre ammetteva che la bomba era esplosa durante la simulazione della consegna di...
«Jack?» Distolsi gli occhi dalla tv e vidi Justine.
C’era anche Cruz, ma riuscivo a guardare solo lei. Sembrava esausta. Aveva un avambraccio fasciato e un gonfiore sul mento. Eppure era bellissima, come sempre. Ma avvertivo che qualcosa le era stato portato via – o si era spezzato – durante la trasferta in Messico, il che mi lasciò ancora più sorpreso.
Una donna minuta con indosso un camice uscì dalla sala operatoria. Sì presentò come la dottoressa Phyllis Oates, primario di neurochirurgia all’UCLA Medical Center. «Chi è il parente più prossimo del signor Del Rio?»
Deglutii, temendo subito il peggio. «Sono io.»
La dottoressa mi guardò per un istante e mi sentii come se fossi stato spinto giù da un dirupo. Poi lei abbozzò un sorriso stanco e mi appoggiò una mano su un braccio. «Volevo dirle che il signor Del Rio è un uomo molto, molto fortunato. Al suo posto, chiunque sarebbe rimasto paralizzato dalla vita in giù. Ma la cintura di sicurezza e la muta umida hanno tenuto al loro posto le vertebre danneggiate, evitando che si spezzasse la spina dorsale. C’è un’infiammazione considerevole e occorreranno diversi mesi perché si riprenda, ma sono convinta che potrà tornare a camminare. E anche a correre.»
Guardai Justine, Sci, Mo-bot e Cruz. Scoppiammo tutti a piangere e ci abbracciammo. Non ricordo di avere provato tanta felicità e gratitudine come in quel momento.