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Le strade di Santa Monica erano ancora scivolose e battute dal vento quando, alle cinque e un quarto del mattino, Justine Smith scese dalla sua macchina con indosso una felpa e un paio di pantaloncini. Bevve un sorso d’acqua e si lasciò sfuggire un gemito. Sentiva dolori muscolari anche in zone del corpo in cui ignorava di avere muscoli. Eppure eccola qui, pronta a un nuovo castigo.

Ho una componente masochista? È per questo che lavoro troppo, la mia vita sentimentale è a zero e mi sento come se mi fosse passato sopra un camion?

Incapace di formulare una risposta coerente, Justine attraversò rigida la strada, verso un edificio industriale con una saracinesca e un’insegna che diceva PACIFIC CROSSFIT. Justine aveva un rapporto di amore-odio con quella palestra, che proponeva il programma di esercizi più duro che lei avesse mai affrontato. Niente macchinari hi-tech. Niente specchi. Niente look alla moda. Solo bilancieri olimpionici, attrezzature ginniche e il fegato di affrontare brevi ma follemente intense sessioni di allenamento, che spesso la lasciavano sudata fradicia, ansimante sul pavimento e dolorante per giorni.

Justine veniva dall’università, non dalla polizia, ma il suo attuale impiego alla Private esigeva che fosse in perfetta forma fisica. Così, quando aveva scoperto che pompieri, poliziotti e membri delle forze speciali praticavano il Crossfit per tenersi in allenamento, si era iscritta alla palestra – al «box», come veniva chiamata dallo staff – più vicina a casa.

Le prime settimane era stata quasi sicura che sarebbe morta durante un allenamento. Ma, invece di arrendersi, aveva affrontato la situazione con lo zelo che la contraddistingueva. A ogni costo, tutti i lunedì, martedì, giovedì e venerdì, era la prima davanti alla porta, battendo sul tempo anche gli ex Navy SEAL e i poliziotti delle squadre SWAT che di solito si presentavano alle sessioni del mattino presto.

Sei mesi, pensò Justine. Poi ammise a se stessa che il Crossfit le faceva ancora paura. Ma era assolutamente orgogliosa di essere arrivata a eseguire venti flessioni consecutive o a sollevare più di cento chili. Senza contare che i suoi addominali erano scolpiti. Non c’era altro modo per descriverli.

Il coach aprì la porta del box dall’interno. Una Toyota Camry blu accostò al marciapiede. Ne scese, quasi con cautela, un tipo che lei non aveva mai visto.

Attraversato l’atrio e superato uno spogliatoio, Justine entrò nel box vero e proprio. Diede un’occhiata al tabellone sulla parete prima di cominciare il riscaldamento. Quando lesse il programma del giorno, sentì lo stomaco sussultare di angoscia.

«’Grace: trenta a slancio e sforbiciata, a tempo’?» protestò una voce maschile alle sue spalle. «È da pazzi! Ancora non riesco a muovermi dopo la sessione di ieri.»

Justine si voltò. Il tipo nuovo era sui trentacinque anni e aveva capelli castani ricci, barba ben curata e occhi nocciola molto, molto belli.

«Il dolore qui è uno stile di vita», replicò lei.

L’uomo le fece un sorriso. Un bel sorriso. «Paul», si presentò, tendendole la mano. «Quinta sessione.»

Lei ricambiò il sorriso e gliela strinse. «Justine. Poco più di sei mesi.»

«Poi migliora?»

«Neanche un po’.»

Private L.A.:
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