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Justine completò Fran in nove minuti e quaranta secondi, contando due visite al bagno per espellere il veleno dal corpo. Ma, quando si ritrovò stesa sul pavimento, sudata come un cavallo e impossibilitata a muoversi, con addominali, glutei e spalle in fiamme, la sofferenza la fece sentire meglio.

Se l’era meritata.

«Lo sai cosa mi piace di te, Justine?» disse Ronny.

«Cosa?» rantolò lei.

«Che non ti arrendi.» L’allenatore sorrise. «Arrivi con un dopo sbronza smisurato, sparisci due volte in bagno, ma vai lo stesso fino in fondo. Mi piacciono le persone così. Dammi del matto, ma mi piace chi finisce quello che ha cominciato, a qualunque costo.»

Lei abbozzò a sua volta un sorriso. «Grazie, Ronny... Ti faccio sapere appena mi passano le convulsioni.»

Il sole era sorto quando Justine uscì dal box. Camminava rigida, si sentiva il cervello surriscaldato, ma il maglio aveva smesso di batterle nella testa. Lo stomaco stava molto meglio e aveva sudato tutto il resto dell’alcol. Si sedette al volante, bevve un’altra bottiglietta d’acqua e cercò di stabilire il da farsi.

Prima è, meglio è. Ora, non dopo.

Le vecchie massime la guidarono più delle emozioni, mentre percorreva una decina di chilometri fino alla Bonaventure Charter School, a Clarkdale.

La scuola occupava un condominio riconvertito sulla Mentone Avenue, che il fondatore aveva ereditato da una zia ricca. Decorato a stucchi, con uno stile che ricordava quello delle antiche missioni, l’edificio era arretrato rispetto alla strada. Davanti alla facciata si estendeva un giardino ben curato, con un intreccio di sentieri di mattoni tra le aiuole fiorite. Era ancora presto – le sette e un quarto – e non c’era nessuno.

Justine parcheggiò poco più indietro, parallela al marciapiede. Da lì poteva vedere l’entrata. Abbassò il finestrino per far entrare un po’ d’aria, sperando di vedere arrivare Paul prima degli scolari e rimettere la propria vita sulla rotta giusta, in un modo o nell’altro. O, almeno, scoprire con precisione dove i venti impietosi del destino l’avessero condotta.

Dieci minuti più tardi apparve sul marciapiede una bambina afroamericana sugli otto, nove anni, accompagnata dalla madre. Indossava come divisa una gonnellina grigia a scacchi e una camicetta bianca. Abbracciò la mamma ed entrò nella scuola.

A Justine tornò in mente Malia, la maggiore dei figli degli Harlow; poi pensò a Jin e Miguel. Si chiese come si potessero sentire, a più di una settimana dalla scomparsa dei genitori adottivi, e dopo quattro giorni vissuti sotto il controllo di Dave Sanders. Erano stati orfani in passato e ora con tutta probabilità era di nuovo uno shock trovarsi in una situazione analoga, così piccoli. Dovevano trovare un’ancora, cercare di affrontare la situazione, uscire da un incubo.

Con i volti dei tre bambini in mente, Justine non poté non provare ammirazione per gli Harlow. Sì, c’erano aspetti di Thom e Jennifer che non la convincevano: il fatto che non avessero aiutato le cameriere a ottenere la cittadinanza, per esempio; o quei supporti per videocamere sopra la camera da letto. Ma nel contempo, anche se nessuno li obbligava, gli Harlow avevano adottato tre bambini soli al mondo e bisognosi, dando pure vita a una fondazione che si occupava di orfani a livello globale. L’investigatrice tamburellò sul volante. Quello era un aspetto della vita di Thom e Jennifer di cui sapeva ben poco. Aveva visto le pubblicità, le loro foto – insieme o separati – in terre lontane e desolate, con in braccio bambini malnutriti. Sapeva che gli Harlow costruivano scuole e dormitori, si preoccupavano di far arrivare l’acqua dove...

La sua attenzione tornò alla strada. La Toyota Camry di Paul stava accostando al marciapiede davanti alla scuola. Lui scese sorridente dal lato del passeggero, bello e spettinato come al solito. Ma a calamitare lo sguardo di Justine furono la graziosa bionda al volante e i due bambini sul sedile posteriore. La donna soffiò un bacio a Paul, che si incamminò verso l’ingresso della scuola, massaggiandosi la schiena con la mano destra.

La Toyota ripartì, superando l’auto di Justine. Il finestrino dal lato del guidatore era abbassato. La bionda occhieggiò i figli nello specchietto retrovisore: un bambino e una bambina sui seggiolini, nessuno dei due sembrava avere più di tre anni. Cantavano tutti insieme: «Le ruote dell’autobus girano, girano, girano... e girano, girano, girano...»

«Oh, mio Dio», sussurrò Justine, sentendo gli occhi riempirsi di lacrime e le guance bruciare di vergogna. «Che cosa ho fatto?»

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