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Mi si irrigidì il dito sul grilletto, mentre in testa mi giravano pensieri, opzioni e conseguenze potenzialmente disastrose.
Se avessi sparato a Cobb mentre usciva dalla porta, con un po’ di fortuna sarebbe caduto all’esterno, lasciandosi sfuggire le bombe a mano. Cosa c’era là fuori? Un vicolo? Un parcheggio? Non ne avevo idea.
In ogni caso, era sempre meglio che le bombe esplodessero là fuori che qui dentro. Con molta fortuna, la porta d’acciaio si sarebbe richiusa alla sue spalle prima che scoppiassero. In caso contrario, lui poteva cadere all’indietro e lasciar rotolare le granate dentro il locale. Sarei stato fatto a pezzi.
Sempre che esplodessero.
Alla fine fu lui a prendere la decisione al posto mio. Si voltò di nuovo verso di me e fece un movimento rapido con la mano destra, come se stesse per lanciarmi contro la bomba a mano. Era una finta degna di un quarterback della NFL, e funzionò: non potei fare a meno di abbassarmi, almeno per un momento. Abbastanza perché il mirino laser perdesse il suo bersaglio e lui desse una spinta alla porta, lanciandosi all’esterno.
Feci fuoco. Il proiettile colpì l’acciaio quando lui era ormai fuori tiro. La porta cominciò a richiudersi. Senza pensarci, feci quattro balzi, sentii un rumore metallico e aprii la porta con un calcio.
Nel momento in cui vidi il cassonetto sul lato opposto del vicolo, capii che cos’aveva fatto Cobb e mi buttai di lato, a terra. A dispetto del tempo, la granata esplose con una forza straordinaria. Mi sentii come afferrato da una mano gigantesca che mi tappava le orecchie, mi assordava e mi oscurava la vista.
Ma non rimasi ferito. La bomba era scoppiata all’interno di un pesante cassonetto in acciaio, le cui pareti avevano contenuto l’esplosione, costringendo lo shrapnel verso l’alto, come un geyser letale. Sapevo che tutto quello che sale prima o poi deve scendere, per cui mi riparai la testa con le braccia mentre lottavo per rimettermi in piedi.
Quando riuscii a riprendere il senso dell’orientamento e a voltarmi nella direzione giusta, Cobb era uscito dal vicolo e si era messo a correre diagonalmente per la East Sixth Street, scomparendo dal mio campo visivo. Mi accorsi che mi mancava l’equilibrio quando cercai di corrergli dietro.
Dove stava andando Cobb? Scappava e basta? Oppure si dirigeva verso una macchina?
Ebbi la risposta quando arrivai in fondo al vicolo e lo vidi correre in direzione del parcheggio di una rivendita di auto usate sul lato nord della Sixth. Cercai di prendere la mira, ma c’erano troppi ostacoli tra me e lui.
Mi tuffai in mezzo al traffico. Il mio udito era ancora quasi completamente fuori uso, ma al di sopra del tintinnio nelle orecchie riuscivo a sentire i clacson e lo stridore di pneumatici delle auto che cercavano di non investirmi. C’erano anche delle sirene?
Scrutavo l’area intorno a Cobb. Arrivai al marciapiede mentre lui saltava dall’altro lato di una recinzione e atterrava nel parcheggio. Mi abbassai e proseguii più veloce che potevo lungo la Atlantic, in direzione nord, sentendo gente che gridava.
Davanti a me, a mezzo isolato, era parcheggiata una betoniera in funzione; tre operai che stavano asfaltando il marciapiede guardavano verso il parcheggio. Mi sollevai e vidi Cobb tirare fuori a forza un uomo da una Chrysler decappottabile con un palloncino giallo attaccato all’antenna. Salì a bordo e l’auto partì.
Pensavo che si sarebbe diretto verso l’uscita sul retro, che dava sul vicolo, ma all’improvviso il veicolo svoltò bruscamente a destra, puntando sull’Atlantic.
Mi misi a correre, gridando agli operai della betoniera: «A terra! Ha una bomba a mano!»
Forse videro la mia pistola, forse capirono cosa stavo dicendo, fatto sta che si tuffarono nel cemento fresco. Altri tardarono a rendersi conto di cosa stesse succedendo e rimasero in piedi, confusi, mentre passavo di corsa con la pistola in mano. In quel momento la Chrysler raggiunse il marciapiede, in attesa di immettersi nel traffico sull’Atlantic.
Ero a tre metri di distanza quando gridai: «Cobb!»
Lui mi guardò, senza mostrare sorpresa. E mi lanciò la seconda granata.