EPILOGO


Lettera: Filippo di Atene

a Lucio Anneo Seneca, da Napoli (55 d.C.)

Sono rimasto sorpreso e lieto, caro Seneca, ricevendo la tua lettera. Confido che perdonerai il mio ritardo nella risposta. Le tue richieste mi arrivarono a Roma il giorno stesso in cui partivo e solo adesso ho cominciato a sistemarmi nella mia nuova casa. Sarai lieto di sapere che, per lo meno, ho seguito il tuo consiglio e mi sono ritirato dal trambusto e dal caos della mia professione per potermi dedicare alla placida dignità dell’apprendimento e comunicare ad altri le poche cose insegnatemi dagli anni. Scrivo queste parole dalla mia villa nei dintorni di Napoli. La luce del sole dispersa dalle viti che si inarcano sopra la terrazza danza sul foglio dove appaiono le parole, e io sono felice come mi promettesti che sarei stato ritirandomi. Per questa certezza e per la sua autenticità desidero ringraziarti.

Nel corso degli anni la nostra amicizia è stata troppo sporadica. Ti sono grato già soltanto perché mi hai ricordato e sei passato sopra al fatto che non parlai a tuo favore durante il disgraziato periodo del tuo obbligato soggiorno nelle aride solitudini della Corsica. Hai capito meglio della maggior parte degli altri, presumo, che un povero medico privo di ogni potere terreno, o anche cento uomini come lui, non sarebbero riusciti a prevalere contro la volontà di una persona stravagante come il nostro defunto Imperatore Claudio. Noi tutti che ti abbiamo ammirato, sia pure tacendo, proviamo un gran sollievo per il fatto che il tuo genio potrà illuminare una volta di più la Roma che tu ami.

Mi chiedi di scriverti a proposito di ciò di cui parlammo nelle troppo rare occasioni in cui abbiamo potuto conversare: la mia conoscenza con l’Imperatore Cesare Augusto. Sono felice di poter accogliere la tua richiesta, ma devi sapere che mi consuma un’amichevole curiosità: possiamo aspettarci un nuovo saggio? Un’epistola? O forse, addirittura, una tragedia? Aspetterò ansiosamente di conoscere l’impiego che intendi fare dei miei ricordi.

Quando, in passato, ti ho parlato dell’Imperatore, desiderando forse un’amicizia che immaginavo potesse essere consolidata dalla tua curiosità incessante, sono stato un po’ troppo misterioso e avaro per quanto concerne le informazioni. Ma ora ho sessantasei anni… Dieci meno di Ottaviano Cesare quando morì. E credo di essermi lasciato indietro da un pezzo quella vanità contro cui hai così spesso inveito, pur essendo così cortese da esentare me. Ti dirò quel che ricordo.

Come sai, fui medico di Ottaviano Cesare soltanto per alcuni mesi, ma in quei pochi mesi gli rimasi sempre accanto, il più delle volte così vicino da poterlo sentire se avesse chiamato. E mi trovavo al suo fianco quando morì. Ancora adesso non so perché scelse me per curarlo, in quei mesi che sapeva sarebbero stati gli ultimi. C’erano molti altri medici più illustri ed esperti di me, e io avevo appena ventisei anni. Comunque, la scelta cadde su di me. E anche se allora, troppo giovane, non riuscii nemmeno a concepirlo, ora sospetto che mi fosse affezionato, con quel curioso distacco che sembrava caratterizzarlo. E anche se negli ultimi giorni non potei far niente per lui, lui provvide affinché fossi un uomo ricco dopo la sua morte.

Dopo una comoda traversata di parecchi giorni verso Sud, partendo da Ostia, sbarcammo a Capri, e nonostante fosse chiaro che la salute gli stava venendo meno, non volle essere così scortese da ignorare la folla che lo attendeva. Conversò con molti dei presenti chiamandoli per nome, nonostante a volte, debole com’era, dovesse appoggiarsi al mio braccio. Poiché quasi tutti gli abitanti di Capri sono greci, parlò con loro in quella lingua scusandosi di quando in quando per il suo strano accento. Alla fine si decise a congedarsi dai vicini e ci dirigemmo verso la villa dell’Imperatore, da cui si godeva un panorama straordinario del golfo di Napoli. Lo persuasi a riposarsi e parve lieto di darmi ascolto.

Aveva promesso ai giovani dell’isola di assistere, la settimana seguente, alle gare atletiche organizzate per scegliere i rappresentanti di Capri nei giochi di Napoli, e, nonostante le mie proteste, volle a tutti i costi mantenere la promessa. Poi, sempre contro la mia volontà, li invitò tutti alla villa quella sera, per un banchetto in loro onore.

Al banchetto fu straordinariamente allegro. Inventò epigrammi licenziosi in greco, e incoraggiò i giovani a ridere clamorosamente di quei versi ribaldi. Partecipò ai loro giochi infantili consistenti nel bersagliarsi a vicenda con croste di pane. E, nonostante la loro strenua attività di quel pomeriggio, volle chiamarli scherzosamente «pigrolani» anziché «isolani», a causa della comoda esistenza che conducevano normalmente. Promise di assistere ai giochi di Napoli in cui dovevano gareggiare e sostenne che avrebbe puntato il suo intero patrimonio sul loro successo.

Restammo a Capri quattro giorni. Quasi sempre l’Imperatore rimase tranquillamente seduto a contemplare il mare, o la linea della costa italiana, a Est. Sorrideva e di quando in quando annuiva appena, come ricordando qualcosa.

Il quinto giorno attraversammo il golfo diretti a Napoli. L’Imperatore era ormai tanto debole che non riusciva a camminare senza sostegno. Ciononostante, volle a tutti i costi essere condotto ai giochi, perché aveva promesso ai giovani atleti che sarebbe stato presente. Confesso che, nonostante mi rendessi conto dell’imminenza della fine, potei soltanto assentire. Appariva chiaro che non andandoci avrebbe guadagnato soltanto pochi giorni in più di vita, al massimo. Rimase tutto il pomeriggio sotto il sole ardente applaudendo le vittorie dei Greci di Capri e, quando le gare terminarono, constatammo che non era più in grado di alzarsi dalla sedia.

Lo portammo fuori dello stadio su una lettiga, e fece sapere che voleva andare subito in una casa della sua fanciullezza, a Nola. Poiché era un tragitto di appena diciotto miglia, acconsentii. Arrivammo alla sua vecchia casa nelle prime ore del mattino.

Rendendomi conto che la fine era vicina, inviai un messaggio a Benevento, dove Livia e suo figlio Tiberio si trovavano da parecchi giorni. Attenendomi alle istruzioni dell’Imperatore, chiarii che non desiderava vedere Tiberio, pur acconsentendo a rendere noto di essere stato assistito da lui nelle ultime ore.

Il mattino del giorno in cui morì, mi disse: «Filippo, la mia fine è vicina, non è vero?».

C’era qualcosa nei suoi modi che mi impedì di contraddirlo. «Non si può essere certi», risposi. «Ma è vicina, sì».

Annuì serenamente. «Allora devo compiere i miei ultimi doveri».

Numerosi suoi conoscenti (ritengo che non avesse più nessuno, allora, da poter chiamare amico) avevano saputo a Roma della malattia e si erano affrettati ad accorrere a Nola. Li ricevette, si congedò da loro, li invitò a contribuire all’ordinato passaggio dei poteri, e li impegnò a sostenere Tiberio nella successione. Quando uno di loro ostentò lacrime, si dispiacque e disse: «È scortese da parte tua piangere in occasione della mia contentezza».

Poi espresse il desiderio di parlare da solo con Livia. Ma, quando accennai a uscire dalla stanza, mi ordinò con un gesto di rimanere.

Quando parlò con Livia, capii che andava perdendo rapidamente le forze. La salutò con un cenno. Lei si inginocchiò e lo baciò sulla guancia.

«Tuo figlio…», disse lui. «Tuo figlio…».

Respirò rauco per un momento. La mascella gli si rilassò, poi, con uno sforzo manifesto della volontà, ritrovò un po’ di energia.

«Non dobbiamo perdonarci a vicenda», disse. «È stato un matrimonio. È stato migliore di quasi ogni altro».

Ricadde all’indietro sul letto. Accorsi al suo fianco. Respirava ancora. Livia gli toccò la guancia. Indugiò accanto a lui ancora un momento, poi uscì dalla stanza.

Qualche attimo dopo, l’Imperatore a un tratto aprì gli occhi e mi disse: «Filippo, i miei ricordi… Adesso non mi servono più». Per un momento, poi, i suoi pensieri parvero vagare altrove, poiché di colpo gridò: «I giovani! I giovani la porteranno davanti a loro!».

Gli misi la mano sulla fronte. Mi fissò di nuovo, si sollevò su un gomito, e sorrise. Poi quegli straordinari occhi celesti divennero vitrei, il corpo ebbe una convulsione breve e lui ricadde sul fianco.

Così morì Gaio Ottaviano Cesare, l’Augusto. Erano le tre del pomeriggio, il diciannovesimo giorno di agosto, durante i consolati di Sesto Pompeo e Sesto Apuleio. Morì nella stessa stanza dove il suo padre naturale, l’anziano Ottavio, era morto settantadue anni prima.

Della lunga lettera che Ottaviano scrisse al suo amico Nicolao a Damasco, devo dire una cosa. Era stata affidata a me affinché la inoltrassi, ma a Napoli seppi che lo stesso Nicolao era morto due settimane prima. Non ne informai l’Imperatore, poiché mi sembrò che fosse felice al pensiero del vecchio amico intento a leggere le sue ultime parole.

Poche settimane dopo la morte di Ottaviano, sua figlia Giulia morì nell’isolamento a Reggio. Alcuni bisbigliarono che l’ex marito, l’Imperatore Tiberio, l’aveva lasciata morire di fame. Di questa voce non conosco il fondamento e presumo che non lo conosca nessuno attualmente in vita.

È di moda, oggi e da oltre trent’anni, per molti dei cittadini più giovani parlare del lungo regno di Ottaviano Cesare con una certa condiscendenza.

E lui stesso, verso la fine della vita, ritenne che tutta la sua opera non fosse servita a nulla.

Eppure l’Impero di Roma creato da lui ha resistito alla severità di un Tiberio, alla crudeltà mostruosa di un Caligola, e all’inettitudine di un Claudio. E ora il nostro nuovo Imperatore è colui di cui tu fosti maestro da ragazzo, e a cui resti vicino nella sua nuova autorità. Siamo grati del fatto che governerà alla luce della tua saggezza e della tua virtù, e preghiamo gli dèi affinché, con Nerone, Roma possa infine realizzare il sogno di Ottaviano Cesare.