PARTE TERZA
Lettera: Ottaviano Cesare
a Nicolao di Damasco (14 d.C.)
9 agosto
Mio caro Nicolao, ti mando saluti affettuosi e la mia gratitudine per la recente spedizione di questi datteri che tanto mi piacciono e che tu sei stato così cortese da mandarmi ogni anno. Sono diventati una delle importazioni più rilevanti dalla Palestina, e in tutta Roma e nelle province italiane sono conosciuti con il tuo nome, dato da me. I nicolai, li chiamo. E il nome si è affermato tra coloro che possono permettersi di acquistarli. Ti divertirà, spero, sapere di essere più noto nel mondo grazie a questo affettuoso eponimo che per i tuoi tanti libri. Dobbiamo aver raggiunto entrambi l’età in cui è possibile trarre qualche ironico piacere dalla consapevolezza della futilità in cui sono scivolate in ultimo le nostre esistenze.
Ti scrivo dalla mia imbarcazione, quella su cui molti anni fa tu e io navigammo piacevolmente tra le piccole isole disseminate lungo la nostra costa occidentale. Siedo dove ero solito sedere. Un po’ più avanti del centro della nave, sulla piattaforma sormontata da un baldacchino e sollevata, per cui posso osservare senza ostacoli il costante e lento movimento del mare. Siamo partiti da Ostia stamane, in un’ora troppo gelida per questa stagione, prima dell’alba, e ora stiamo navigando a Sud, verso la costa della Campania. Ho deciso che sarà un viaggio comodo. Ci lasceremo portare dal vento, e se il vento opporrà un rifiuto, aspetteremo, galleggiando sul mare che ci sosterrà.
La nostra destinazione è Capri. Alcuni mesi fa, uno dei miei vicini Greci laggiù mi chiese di essere l’ospite d’onore alle gare atletiche annuali dei giovani dell’isola. Sul momento tergiversai, adducendo a pretesto il fardello dei miei doveri. Ma poco tempo fa si è presentata la necessità di un mio viaggio al Sud per un’altra missione, e ho deciso di concedermi il piacere di questa vacanza.
La settimana scorsa mia moglie mi ha avvicinato con il rigido formalismo che non ha mai perso, chiedendomi di accompagnare lei e suo figlio in un viaggio a Benevento, dove Tiberio deve recarsi per questioni concernenti la sua nuova carica. Livia mi ha spiegato quanto già sapevo. Il popolo non è convinto che io sia affezionato al mio figlio adottivo, e ogni manifestazione di affetto e interessamento da parte mia potrebbe rendere più sicura l’eventuale successione di Tiberio al potere.
Livia non si è espressa apertamente come avrebbe potuto fare: nonostante la sua forza di carattere, è sempre stata diplomatica. Al pari di uno di quei diplomatici asiatici con cui ho avuto a che fare per gran parte della vita, ha voluto farmi capire, senza dirlo con schietta brutalità, che i giorni rimastimi sono ormai pochi e che devo preparare il mondo al momento di caos da cui sarà inevitabilmente seguita la mia morte.
Naturalmente, anche in questa come in ogni altra cosa Livia è stata corretta e ragionevole all’estremo. Sono arrivato al settantaseiesimo anno. Ho vissuto più a lungo di quanto desiderassi, e la noia mortale non favorisce la longevità. Non ho quasi più denti e la mano mi trema, colta di quando in quando da una paralisi che mi stupisce sempre. Inoltre la stanchezza dell’età pesa sulle mie membra. Quando cammino, a volte provo la sensazione bizzarra che la terra si stia spostando sotto i miei piedi, che il sasso, o il mattone, o il piccolo tratto di suolo su cui passo possano sprofondare sotto di me, facendomi precipitare, libero dalla terra, là dove si va quando giunge il nostro momento.
Ho accolto di conseguenza la sua richiesta, a condizione che la mia presenza fosse cerimoniale. Siccome Tiberio soffrì il mal di mare, ho proposto che lui e sua madre seguissero la via di terra fino a Benevento, mentre io avrei viaggiato con la nave verso la stessa meta. E, se entrambi desideravano rendere pubblica la notizia che il marito e padre adottivo viaggiava con loro, non mi sarei opposto. È un accordo soddisfacente, e immagino che siamo tutti più soddisfatti di questo sotterfugio di quanto lo saremmo stati della pubblica franchezza.
Sì, mia moglie è una donna straordinaria. Penso di essere stato più fortunato della maggior parte dei mariti. Era bellissima da giovane, ed è rimasta bella anche nella vecchiaia. Ci siamo amati soltanto per pochi anni dopo il matrimonio, ma abbiamo conservato tra noi le forme della cortesia. E io ritengo che, ora, siamo diventati qualcosa di simile ad amici. Ci comprendiamo a vicenda. So che nel profondo del suo cuore di repubblicana lei ha sempre pensato di essersi unita a un uomo inferiore a lei, di aver rinunciato alla dignità di un antico titolo per il potere bruto di un uomo la cui autorità sembrava essere immeritata a causa di un nome più umile. Ho finito per convincermi che l’abbia fatto nell’interesse del suo primogenito, Tiberio, a cui ha sempre voluto un bene inesplicabile e per il quale sempre ha nutrito la più tenace delle ambizioni. Fu questa ambizione a causare la prima discordia tra noi, una discordia divenuta poi tanto profonda che, in un certo periodo della nostra esistenza, parlavo a mia moglie soltanto di argomenti su cui avevo preso accurati appunti, in modo che non dovessimo sopportare anche l’ulteriore fardello di malintesi, reali o immaginari.
Eppure, alla lunga, nonostante le difficoltà tra Livia e me, questa ambizione ha agito a favore della mia autorità e di Roma. Livia è stata sempre abbastanza intelligente per rendersi conto che la successione di suo figlio dipendeva dal mio incontestato potere, e che lui sarebbe stato schiacciato se non avesse ereditato un Impero stabile. E se Livia riesce a contemplare la mia morte con serenità, sono certo che contemplerà anche la propria nello stesso modo. Una sola cosa le preme realmente: quell’ordine di cui siamo entrambi meri strumenti.
Di conseguenza, per rispetto verso tale preoccupazione per l’ordine che io condivido, tre giorni fa ho depositato nel tempio delle vergini Vestali quattro documenti, che dovranno essere aperti e letti in Senato soltanto dopo la mia morte.
Il primo è il mio testamento e lascia a Tiberio due terzi dei miei beni e del mio patrimonio personale. Nonostante lui non ne abbia bisogno, questo lascito è un gesto che deve necessariamente accompagnare un’adeguata successione. La parte rimanente, tranne piccoli lasciti a favore dei cittadini e di vari parenti e amici, va a Livia che, con questo documento, viene anche adottata nella famiglia Julia e a cui è consentito assumere i miei titoli. Il nome non le farà piacere, ma i titoli sì. Si renderà conto, infatti, che la statura di suo figlio verrà accresciuta dal possesso, da parte di lei, di questi titoli, e che la sua ambizione potrà così essere soddisfatta assai più facilmente.
Il secondo è una serie di direttive concernenti il mio funerale. Coloro ai quali sarà affidato il compito andranno senza dubbio al di là delle mie istruzioni, che sono già abbastanza prodighe e volgari. Ma questi eccessi piacciono invariabilmente alla plebe, e di conseguenza sono necessari. Mi consolo con la certezza che non dovrò assistere a quest’ultima parata.
Il terzo documento è un resoconto della situazione dell’Impero: il numero dei soldati in servizio attivo, le somme di denaro che esistono (o dovrebbero esistere) nella tesoreria, gli obblighi finanziari del governo nei confronti di capi delle province e di singoli cittadini, i nomi degli amministratori fiscalmente e altrimenti responsabili… Tutte quelle questioni che devono essere rese pubbliche per la sicurezza dell’ordine e per impedire la corruzione. Ho accluso inoltre alcuni consigli molto energici al mio successore. Lo esorto a non estendere la cittadinanza romana così capricciosamente o ampiamente da indebolire il centro dell’Impero. Lo esorto affinché tutti coloro che occupano alte cariche amministrative siano alle dipendenze del governo, e con un compenso fisso, per ridurre le tentazioni di un’indebita ricerca del potere e delle corruzioni. E in ultimo sostengo che in nessuna circostanza le frontiere dell’Impero devono essere ampliate, ma i militari vanno impiegati esclusivamente per difendere i confini già stabiliti, soprattutto contro i barbari della Germania, che sembrano non stancarsi mai delle loro avventure insensate. Questi consigli alla lunga verranno ignorati, non ne dubito. Ma non lo saranno per alcuni anni e io avrò almeno lasciato al mio paese questo piccolo retaggio.
Infine ho affidato alla custodia delle pie vergini un elenco di tutti gli atti e i servigi da me compiuti a favore di Roma e del suo Impero. Ho ordinato che questo elenco sia inciso su delle targhe di bronzo da murare bene in vista sulle colonne che, con tanta ostentazione, si levano all’esterno di quel mausoleo ancor più ostentato in cui ho deciso debbano essere conservate le mie ceneri.
In questo momento ho davanti a me una copia del documento, e di quando in quando lo sbircio come se fosse stato scritto da qualcun altro. Mentre lo componevo, trovai necessario a volte consultare tutta una serie di altre opere, tanto lontani nel tempo erano alcuni degli eventi che dovevo ricordare. È straordinario essere invecchiati al punto da dover ricorrere a opere altrui per frugare nella propria vita.
Tra le opere che consultai ci furono quella mia Vita che tu scrivesti dopo essere arrivato per la prima volta a Roma, le parti della Storia del nostro amico Livio dedicata alla Fondazione della città che concernono le mie prime attività, e i miei stessi Appunti per un’autobiografia: che, a loro volta, dopo tanti anni sembrano opera di qualcun altro.
Mi perdonerai se lo dico, mio caro Nicolao, ma tutti questi lavori mi sembrano avere una cosa in comune: sono menzogne. Confido che non applicherai troppo alla lettera questa critica alla tua opera. Credo che capirai cosa intendo. Non ci sono falsità in nessuno di quei libri, che contengono di fatto pochi errori: eppure sono menzogne. Mi chiedo se durante i tuoi recenti anni di studi e meditazione nella tranquillità della lontana Damasco anche tu sia arrivato alla stessa conclusione.
Mi sembra infatti, adesso, quando leggo queste opere, di leggere di un uomo che portava il mio nome, ma che quasi non conosco. Per quanto mi sforzi, a malapena riesco a vederlo ormai. E, se pure lo intravedo, indietreggia come fosse nella nebbia, evitando i miei sguardi più penetranti. Mi domando: se mi vedesse, riconoscerebbe quello che è diventato? Riconoscerebbe la caricatura che tutti gli uomini divengono di se stessi? Non credo.
In ogni modo, mio caro Nicolao, il completamento di questi quattro documenti e la loro consegna al tempio delle Vestali possono essere gli ultimi atti ufficiali che compio. In effetti ho rinunciato al potere e al mio mondo, mentre sto navigando adagio verso Capri, e mentre ancor più adagio navigo verso quel luogo dove tanti dei miei amici sono andati prima di me. Inoltre, per lo meno, potrò godermi una vacanza non turbata dalla sensazione di qualcosa lasciato incompiuto. Per pochi giorni almeno nessun messaggero si precipiterà da me con la notizia di una nuova crisi o di una nuova cospirazione. Nessun senatore mi importunerà chiedendomi di appoggiare una legge stupida e inutile. Nessun giurista difenderà davanti a me i suoi clienti corrotti. Ho doveri soltanto nei confronti di questa lettera che sto scrivendo, del vasto mare da cui la nostra fragile nave è sostenuta senza alcuno sforzo, e dell’azzurro cielo italiano.
Viaggio quasi solo. Soltanto pochi rematori si trovano a bordo, e ho impartito l’ordine che non debbano lavorare ai loro posti se non nell’eventualità di un’improvvisa burrasca. Alcuni servi oziano a poppa della nave e ridono pigramente. Sempre intento a osservarmi con attenzione, c’è un nuovo giovane medico che ho assunto, un certo Filippo di Atene.
Sono sopravvissuto a tutti i miei medici. Mi è di qualche consolazione sapere che non sopravvivrò a Filippo. Inoltre, ho fiducia in lui. Sembra sapere pochissimo, e non ha ancora esercitato la medicina abbastanza a lungo per imparare la facile ipocrisia con cui può ingannare i pazienti e allo stesso tempo riempirsi la borsa. Non conosce alcun rimedio per la malattia della vecchiaia, e non mi assoggetta a quelle torture per subire le quali tanti pagano così avidamente. È un po’ nervoso, credo, sapendosi alla presenza di un uomo che, troppo solennemente, considera l’Imperatore del mondo. Ciononostante non è ossequioso, e si occupa dei miei agi più che di quella che un altro potrebbe pensare essere la mia salute.
Mi stanco, caro Nicolao. È l’età. Con l’occhio sinistro non vedo quasi più nulla. Eppure, se lo chiudo, riesco a scorgere a Oriente il dolce profilo della costa italiana che tanto amo. E anche a discernere, persino da lontano, la forma di particolari ville, e addirittura a distinguere movimenti di figure umane sulla costa. Nell’inattività, mi domando quali misteriosi esistenze debba condurre quella gente semplice. Tutte le vite sono misteriose, presumo, anche la mia.
Filippo si sta agitando e mi guarda con apprensione. Vuole che interrompa, è chiaro, quella che secondo lui è una fatica e non un piacere. Ascolterò i suoi consigli, mi interromperò per qualche tempo, e fingerò di riposare.
All’età di diciannove anni, di mia iniziativa e a mie spese, arruolai un esercito mediante il quale restituii la libertà alla Repubblica, oppressa dalla tirannia della fazione. Per questo servigio il Senato, per onorarmi, mi accolse tra i suoi ranghi durante il consolato di Gaio Pansa e di Aulo Irzio, e mi concesse allo stesso tempo la precedenza consolare nel voto e il diritto di comandare soldati. Come propretore mi ordinò, insieme ai consoli, di «accertare che la Repubblica non subisse alcun danno». Quello stesso anno, inoltre, essendo entrambi i consoli caduti in guerra, il popolo mi elesse console e triumviro per decidere la Costituzione.
Quelli che avevano trucidato mio padre li esiliai, punendo il loro misfatto mediante il debito ricorso alla legge. E in seguito, quando mossero guerra alla Repubblica, per due volte li sconfissi in battaglia…
Inizia così il resoconto dei miei atti e dei servigi resi a Roma di cui ti ho scritto stamattina. Quando, disteso sul mio giaciglio, ho finto di appisolarmi consentendo a Filippo un po’ di tregua dalla sua preoccupazione, ho ripensato al resoconto e alle circostanze in cui è stato scritto. Sarà inciso su targhe di bronzo e murato sulle colonne che segnano l’ingresso al mio mausoleo. Sulle colonne ci sarà spazio a sufficienza per sei targhe, e ogni targa può contenere cinquanta righe di circa sessanta caratteri ciascuna. Perciò l’esposizione dei miei atti deve essere limitata a circa diciottomila caratteri.
Mi sembra del tutto appropriato essere stato costretto a scrivere di me entro questi limiti, per quanto arbitrari possano essere. Infatti, come le mie parole devono essere adattate a una simile necessità pubblica, così è stato della mia vita. E come hanno fatto le azioni della mia vita, queste parole devono nascondere almeno tanta verità quanta ne dicono. La verità rimarrà al di sotto delle parole incise, nella pietra compatta che circonderanno. E anche questo è opportuno: poiché gran parte della mia esistenza è stata vissuta in questa segretezza. Non è mai stato politicamente consigliabile per me rivelare ad altri il mio cuore.
È una fortuna che la gioventù non riconosca mai la propria ignoranza, perché se lo facesse non troverebbe il coraggio di abituarsi alla sopportazione. Forse è un istinto del sangue e della carne quello che impedisce questa consapevolezza e consente al ragazzo di diventare l’uomo che vivrà per constatare la follia della propria esistenza.
Senza dubbio, ero ignorante in quella primavera in cui avevo diciotto anni, studiavo ad Apollonia e ricevetti la notizia della morte di Giulio Cesare… Alla mia fedeltà a Giulio Cesare è stata attribuita molta importanza, ma Nicolao, te lo giuro, non so se amassi o meno quell’uomo. L’anno prima dell’omicidio, ero andato con lui nella campagna in Iberia. Era mio zio ed era l’uomo più importante che avessi mai conosciuto: mi lusingava la fiducia che riponeva in me, e sapevo che si proponeva di adottarmi e farmi suo erede.
Nonostante tutto ciò sia accaduto quasi sessant’anni fa, ricordo quel pomeriggio, nel campo di addestramento, in cui seppi della morte di mio zio Cesare. C’erano Mecenate, Agrippa e Salvidieno. Uno dei servi di mia madre mi portò il messaggio, e ricordo che piansi come se, dopo averlo letto, soffrissi.
Ma in quel primo momento, Nicolao, non provai nulla. Era come se il pianto di dolore scaturisse da un’altra gola. Poi la freddezza discese in me e mi allontanai dai miei amici, in modo tale che non si accorgessero di cosa sentivo e non sentivo. E mentre camminavo solo su quel campo sforzandomi di destare in me l’opportuna sensazione di sofferenza e di perdita, mi accorsi a un tratto d’essere colmo di sollievo. Come chi montando un cavallo lo sente teso e sfrecciante sotto di sé, e sa di poter dominare il povero animale che, in un eccesso di energia, vuole mettere alla prova il padrone. Quando tornai dai miei amici sapevo di essere cambiato, di essere diverso da quello che ero stato. Conoscevo il mio destino, ma non potevo parlarne con loro. Eppure erano miei amici.
Anche se probabilmente non sarei stato in grado di esprimermi, allora, sapevo come il mio destino fosse semplicemente questo: cambiare il mondo. Giulio Cesare era salito al potere in un mondo corrotto più di quanto tu possa concepire. Non più di sei famiglie governavano il mondo. Città, regioni e province dominate da Roma erano la valuta delle corruzioni e delle ricompense. Nel nome della Repubblica e sotto la maschera della tradizione, omicidi, guerre civili e repressioni spietate costituivano i mezzi per arrivare ai fini accettati del potere, della ricchezza e della gloria. Chiunque disponesse di denaro a sufficienza poteva arruolare un esercito e accrescere così quella ricchezza, assicurandosi inoltre maggior potere, e di conseguenza la gloria. Così romano uccideva romano, e l’autorità diveniva semplicemente la forza delle armi e del denaro. Tra queste lotte e queste fazioni, i comuni cittadini si contorcevano indifesi quanto la lepre nella trappola del cacciatore.
Non fraintendermi. Non ho mai provato quell’amore sentimentale e retorico per la gente comune tanto in voga nella mia gioventù (e anche adesso). Il genere umano nel suo insieme l’ho sempre trovato brutale, ignorante e crudele: sia che queste caratteristiche fossero coperte dalla ruvida tunica del contadino che dalla toga bianca e purpurea del senatore. Eppure, anche nei più deboli degli uomini, quando erano soli e se stessi, ho trovato venature di forza come quelle dell’oro nella roccia friabile. Anche nel più crudele degli uomini possono balenare la tenerezza e la compassione, e nel più superficiale possono esserci momenti di semplicità e grazia. Ricordo Marco Emilio Lepido a Messina, un vecchio privato dei suoi titoli, che io costrinsi pubblicamente a chiedere perdono per le sue colpe e a supplicare per aver salva la vita. Dopo averlo fatto alla presenza delle truppe che prima comandava, mi fissò a lungo senza vergogna né rammarico né paura. Mi sorrise, poi mi voltò le spalle e si diresse impettito verso l’oscurità. E, ad Actium, ricordo Marco Antonio sulla prua della sua nave, intento a fissare Cleopatra mentre la sua flotta si allontanava abbandonandolo a una sconfitta certa. In quel momento si rendeva conto che la Regina non lo aveva mai amato: eppure aveva sul volto un’espressione quasi femminile di saggia affettuosità e di perdono. E ricordo Cicerone, quando seppe che i suoi sciocchi intrighi erano falliti, e quando lo informai in segreto che la sua vita era in pericolo. Sorrise come se non ci fosse stata alcuna contesa tra noi e disse: «Non stare a crucciarti. Io sono vecchio. Qualsiasi errore possa aver commesso, ho amato il mio paese». Mi dissero che aveva offerto il collo al carnefice con la stessa eleganza.
Così, non decisi di cambiare il mondo per un facile idealismo e per una egocentrica virtuosità, che invariabilmente preannunciano l’insuccesso. Né decisi di cambiare il mondo perché la mia ricchezza e il mio potere ne fossero accresciuti. La ricchezza che supera la possibilità di procurarsi agi mi è sempre sembrata il più noioso dei possessi, e il potere che trascende la propria utilità mi è sempre parso spregevole. Fu il destino a impadronirsi di me quel pomeriggio ad Apollonia, quasi sessant’anni fa, e io decisi di non evitarne l’abbraccio.
Forse fu più l’istinto che la consapevolezza, tuttavia, a farmi capire che, se il destino di un uomo è quello di cambiare il mondo, il prescelto deve anzitutto cambiare se stesso. Se vuole ubbidire al proprio destino, deve trovare o creare dentro di sé qualche parte spietata e segreta indifferente a lui stesso, agli altri, e persino al mondo che è destinato a rimodellare, non secondo il suo desiderio ma secondo un ordine di cui si renderà conto nel corso del processo.
Eppure quei giovani erano miei amici, e mi erano carissimi nel preciso momento in cui, in cuor mio, rinunciai a loro. Quale perverso animale è l’uomo, che ha caro soprattutto quanto rifiuta o abbandona. Il soldato che come mestiere ha scelto la guerra, nel colmo della battaglia anela alla pace, e nella sicurezza della pace anela al cozzar delle spade e al caos del campo insanguinato. Lo schiavo che lotta contro la servitù non voluta e che riesce a liberarsi con le sue capacità, si lega poi a un protettore ancor più crudele ed esigente di quanto lo fosse il suo padrone. L’uomo che abbandona l’amante, vive in seguito nel sogno della sua perfezione immaginata.
Né io sono esente da queste contraddizioni. Quando ero giovane, avrei detto che la solitudine e la segretezza mi erano state imposte. E sarei stato in errore. Come quasi tutti gli uomini, scelsi allora la mia vita. Decisi di rinchiudermi nel sogno formato in parte da un destino che nessuno avrebbe potuto condividere, e rinunciai così alla possibilità di quel genere di amicizia umana tanto comune da non essere mai nominata, e per conseguenza apprezzata di rado.
Non si inganna se stessi sulle conseguenze delle proprie azioni. Ci si inganna sulla facilità con cui si può vivere insieme a quelle conseguenze. Io conoscevo le conseguenze della decisione di vivere in me stesso, ma non avrei mai potuto prevedere la gravità della perdita. Infatti, la mia necessità di amicizia crebbe nella misura in cui la rifiutavo. E i miei amici, ritengo, Mecenate, Agrippa, Salvidieno, non riuscirono mai a capire appieno questa necessità.
Salvidieno Rufo, naturalmente, morì prima di averla potuta capire. Come me, era spronato da energie giovanili così prive di rimorsi che le conseguenze stesse divennero nulla e la dispersione di energia costituì la sua fine.
Il giovane, che non conosce il futuro, vede la vita come una sorta di avventura epica, una sorta di Odissea attraverso mari sconosciuti e isole ignote, dove metterà alla prova le proprie capacità e scoprirà la propria immortalità. L’uomo di età matura, che ha vissuto il futuro sognato un tempo, vede la vita come una tragedia. Ha imparato che il suo potere, per quanto grande, non potrà prevalere contro le forze del caso e della natura a cui dà il nome di dèi, e ha imparato che è mortale. Ma il vecchio, se recita a dovere la sua parte, deve vedere la vita come una commedia. I suoi trionfi e i suoi insuccessi si fondono, e l’uno non è motivo di orgoglio o di vergogna più dell’altro, e lui non è né l’eroe che dimostra il proprio valore contro queste forze, né il protagonista che ne rimane distrutto. Come ogni misero e pietoso guscio d’attore, finisce per rendersi conto di aver recitato tante di quelle parti da non essere più se stesso.
Io ho recitato queste parti nella mia vita. E se ora, mentre mi approssimo all’ultima, credo di essermi sottratto alla goffa commedia da cui sono stato definito, può darsi che questa sia soltanto l’ultima illusione, l’espediente ironico con cui viene conclusa la commedia.
Da giovane recitai la parte dello studioso. Cioè di chi esamina problemi di cui non sa nulla. Con Platone e i pitagorici, galleggiai attraverso le nebbie in cui si suppone vaghino le anime cercando nuovi corpi. E per qualche tempo, convinto della fratellanza tra uomini e bestie, rifiutai di cibarmi con qualsiasi carne e sentii nei riguardi del mio cavallo un’affinità che non avevo creduto possibile. Allo stesso tempo, e senza alcun disagio, adottai pienamente le opposte dottrine di Parmenide e di Zenone, e mi sentii a mio agio in un mondo che era assolutamente solido e immobile, senza alcun significato al di là di se stesso, e quindi infinitamente manipolabile, almeno per la mente contemplativa.
Né, quando il corso degli eventi intorno a me si modificò, mi sembrò fuori luogo indossare la maschera del soldato e interpretare quella parte. Guerre, sia civili sia contro paesi stranieri, intrapresi in tutto il mondo, sul mare e sulla terra… Per due volte ebbi il trionfo con un’ovazione, per tre volte fui onorato con il trionfo curule, e fui salutato Imperatore ventuno volte. Pure, come altri hanno fatto rilevare forse con più tatto di quanto meritassi, fui un soldato mediocre. I successi che ho vantato, li ho dovuti a uomini più abili di me nell’arte della guerra. Primo tra tutti Marco Agrippa, e poi a quelli che ereditarono le sue capacità. Contrariamente ai libelli e alle voci diffuse nei primi tempi della mia carriera militare, non ero più vile di altri, né mi mancava la volontà di sopportare i disagi delle campagne. Ero, credo, ancora più indifferente alla mia esistenza di quanto lo sia adesso, e la sopportazione delle privazioni della guerra mi dava uno strano piacere, mai provato altrove né prima né dopo. Ma mi è sempre sembrato che ci fosse un infantilismo singolare nella realtà della guerra, per quanto necessaria potesse essere.
Si dice che nei tempi antichi della nostra storia venissero offerti agli dèi sacrifici umani e non di animali. Oggi ci sentiamo orgogliosi pensando come queste abitudini siano ormai tanto lontane nel tempo da essere ricordate soltanto nell’incertezza del mito e della leggenda. Scuotiamo la testa meravigliandoci di quei tempi così remoti (diciamo) dalla luce e dall’umanità dello spirito romano e ci stupiamo della brutalità su cui è fondata la civiltà di Roma. Io stesso ho provato una compassione distaccata e astratta per lo schiavo e il contadino di quegli antichi tempi, uccisi dal coltello dei sacrifici sull’altare di un dio selvaggio. Eppure compatendoli mi sono sentito un po’ sciocco.
Poiché a volte, nel sonno, sfilano davanti a me le decine di migliaia di cadaveri che non cammineranno più sulla terra, uomini non meno innocenti di quelle antiche vittime la cui morte propiziava un dio primitivo. E mi sembra, allora, nell’oscurità o nella chiarezza del sogno, di essere un sacerdote emerso dal passato tenebroso della nostra razza per celebrare il rito in seguito a cui il coltello viene vibrato. Diciamo a noi stessi di essere diventati un popolo civilizzato e con pio orrore parliamo dei tempi in cui un dio delle messi pretendeva il corpo di un essere umano per la sua oscura protezione. Ma non è forse il dio servito da tanti Romani nei nostri ricordi, o anche nel corso della nostra esistenza, tenebroso e pauroso quanto quello antico? Sia pur soltanto per distruggerlo, io ne sono stato il sacerdote. E sia pur soltanto per indebolirne il potere ho fatto quel che voleva. Eppure non l’ho distrutto, né ne ho indebolito il potere. Dorme irrequieto nel cuore degli uomini, aspettando di destarsi o di essere destato. Tra la brutalità capace di sacrificare una singola vita innocente a un timore senza nome, e la luce della civiltà capace di sacrificare migliaia di vite a un timore cui abbiamo dato un nome, ho trovato poco da scegliere.
Decisi molto presto, però, che era deleterio ai fini dell’ordine, da parte degli uomini, onorare quegli dèi che scaturiscono dalle tenebre dell’istinto. Incoraggiai di conseguenza il Senato a dichiarare divino Giulio Cesare, ed eressi un tempio in suo onore a Roma, affinché tutto il popolo potesse sentire la presenza del suo genio. E sono certo che, dopo la mia morte, il Senato riterrà opportuno allo stesso modo dichiarare la mia divinità. Come sai, sono già ritenuto divino in molte cittadine e province d’Italia, nonostante non abbia mai consentito che questo culto venisse praticato a Roma. È una follia, ma senza dubbio necessaria. Ciononostante, tra tutte le parti che ho dovuto recitare nel corso della mia esistenza, questa di essere un dio mortale è stata la più spiacevole. Sono un uomo, tanto sciocco e debole quanto la maggior parte degli uomini. Se ho avuto un vantaggio rispetto ai miei simili, è consistito nel fatto che me ne sono reso conto io stesso e ho saputo, di conseguenza, quali erano le loro debolezze. Inoltre non ho mai immaginato di trovare più forza e saggezza in me stesso di quanto ne abbia trovata in altri. Questa consapevolezza fu una delle fonti del mio potere.
È pomeriggio, il sole inizia la sua lenta discesa a Occidente. C’è calma piatta, per cui le vele purpuree sopra di me penzolano lente contro il cielo pallido. La nostra nave dondola con dolcezza sulle onde, ma non prosegue in misura percettibile. I rematori, che per tutto il giorno hanno oziato, mi guardano con apprensione, aspettandosi che io li strappi al riposo e li costringa a faticare contro la bonaccia da cui siamo stati immobilizzati. Non lo farò. Tra mezz’ora, un’ora, o due ore, la brezza si alzerà. Allora ci dirigeremo verso la costa, troveremo un porto sicuro e getteremo l’ancora. Per il momento mi accontento di andare alla deriva dove mi condurrà il mare.
Tra tutte le maledizioni della vecchiaia, questa insonnia che devo sopportare in misura crescente è la più tormentosa. Come sai, sono sempre stato soggetto alle insonnie. Ma quando ero più giovane riuscivo a sfruttare l’irrequietudine notturna della mente, e quasi mi godevo i momenti in cui mi sembrava che tutto il mondo dormisse e che io solo avessi modo di osservarne il riposo. Al sicuro dalle esortazioni di chi voleva consigliarmi una politica secondo la sua concezione del mondo, cioè secondo l’idea che si faceva di se stesso, avevo la libertà della contemplazione e del silenzio. Presi molte delle mie decisioni politiche più importanti mentre giacevo sveglio nelle ore antelucane. Ma l’insonnia che ho dovuto sopportare di recente è diversa. Non si tratta più di quell’irrequietezza della mente così intenta al proprio gioco da essere gelosa del sonno che gliene toglierebbe la consapevolezza. Si tratta, piuttosto, dell’insonnia dell’attesa, un lungo periodo in cui l’anima si prepara a un riposo diverso da ogni altro conosciuto prima dallo spirito o dal corpo.
Non ho dormito stanotte. Verso il tramonto ci siamo ancorati a un centinaio di metri circa da terra, in una piccola insenatura che protegge i pochi pescherecci di un villaggio senza nome. Qui, le capanne dal tetto di paglia si annidano sui pendii di un poggio situato forse a ottocento metri dalla spiaggia. Man mano che la sera scendeva, ho osservato le lampade e i fuochi baluginare contro l’oscurità: sono rimasto a guardare finché non si sono spenti con un guizzo. Ora, una volta di più, il mondo è addormentato. Numerosi uomini dell’equipaggio hanno approfittato della tiepida aria notturna e dormono sul ponte. Filippo è sottocoperta, accanto alla cabina in cui crede che io riposi. Dolcemente, invisibili, le piccole onde sciabordano contro il fianco della nostra nave. La brezza notturna bisbiglia contro la vela ammainata. La lampada sul tavolo splende a intermittenza, per cui di quando in quando devo aguzzare gli occhi per vedere le parole che ti sto scrivendo.
Durante la lunga notte, ho pensato che questa lettera non serve al fine per cui era stata intesa. Volevo dapprima, quando ho cominciato a scriverti, semplicemente ringraziarti per i nicolai, assicurarti la mia amicizia, e forse dare a entrambi un po’ di conforto nella vecchiaia. Ma ora vedo che mentre scrivevo queste cortesie amichevoli la lettera è divenuta qualche altra cosa. È divenuta un altro viaggio, un viaggio che non prevedevo. Sono diretto a Capri per la mia breve vacanza, ma mi sembra, ora, nel silenzio di questa notte, sotto la geometria misteriosa delle stelle dove non esiste niente tranne questa mano intenta a tracciare le curiose lettere, che, tramite qualche altro processo misterioso, tu capirai. Mi sembra di essere diretto altrove, in un luogo più misterioso di ogni altro mai visto. Ti scriverò ancora domani. Forse riusciremo a scoprire il luogo verso cui sto viaggiando.
10 agosto
C’era un’umidità gelida nell’aria quando ci siamo imbarcati a Ostia, ieri. Davvero stupidamente, sono rimasto in coperta per poter vedere la costa italiana indietreggiare nella nebbia morbida e iniziare questa lettera diretta a te. Una lettera con cui intendevo soltanto, a tutta prima, ringraziarti per i nicolai e assicurarti il mio duraturo affetto, nonostante da molto tempo siamo lontani. Come avrai ormai capito, però, è diventata qualcosa di più. Allora ti chiedo di avere con me l’indulgenza di un vecchio amico e di ascoltare quello che scoprirò di volerti dire. In ogni modo, il freddo ha causato uno dei miei raffreddori, che si è tramutato in febbre, e una volta di più ho dovuto abituarmi a un’indisposizione. Non ho detto a Filippo di questo nuovo malessere. Anzi, gli ho assicurato che mi sento bene. Infatti sembra che qualcosa mi costringa a portare a termine questa lettera, e non voglio essere disturbato dalle premure di Filippo.
La questione della mia salute è sempre stata meno interessante per me che per gli altri. Sin da giovane sono stato delicato e soggetto a una tale gamma di malattie che più medici di quanto mi piaccia immaginare hanno finito con l’arricchirsene. La loro ricchezza è stata in vasta misura immeritata, presumo. Ma non ce l’ho con loro per quello che ho pagato. Il mio corpo mi ha condotto così spesso vicino alla morte che, durante il sesto consolato, quando avevo trentacinque anni, il Senato decretò che ogni quattro anni i consoli e i sacerdoti degli ordini formulassero voti e celebrassero sacrifici per le mie condizioni di salute. Allo scopo di mantenere quei voti vennero indetti giochi, in modo che al popolo fosse ricordata la necessità di pregare, e tutti i cittadini, sia singolarmente sia per municipalità, furono incoraggiati a celebrare continui sacrifici per la mia salute nei templi degli dèi. Si trattava di una idiozia, naturalmente. Ma giovò alla mia salute almeno tanto quanto i vari medicamenti e le varie cure cui fui assoggettato dai medici. Inoltre in questo modo feci credere al popolo di partecipare al destino dell’Impero.
Sei volte, nel corso della mia vita, questa tomba che è l’anima mia mi ha condotto sull’orlo delle tenebre eterne in cui tutti gli uomini alla fine precipitano, e sei volte ha indietreggiato, come per ordine di un destino che non riusciva a sconfiggere. Ho vissuto di gran lunga più dei miei amici, nelle cui vite esistevo più pienamente che nella mia. Quei miei primi amici sono tutti morti. Giulio Cesare morì a cinquantotto anni, quasi vent’anni più giovane di me adesso. E io sono sempre stato convinto che la sua morte sia stata determinata tanto da quella noia preannuncio di noncuranza, quanto dalle spade degli assassini. Salvidieno Rufo morì a ventitré anni: si tolse la vita perché riteneva di aver tradito la nostra amicizia. Povero Salvidieno. Di tutti i miei primi amici era il più simile a me. Mi domando se si sia mai reso conto che il tradimento fu mio e che lui fu la vittima innocente di un contagio partito da me. Virgilio morì a cinquantun anni, e io mi trovavo accanto al suo letto di morte. Nel delirio, ritenne di morire come un poeta fallito e mi fece promettere che avrei distrutto il suo grande poema sulla fondazione di Roma. E poi Marco Agrippa, a cinquant’anni: lui che non era mai stato malato un solo giorno in vita sua, morì all’improvviso, al culmine del potere, prima che io potessi dirgli addio. Pochi anni dopo (nei miei ricordi gli anni si dissolvono gli uni negli altri, come le note del cembalo, del liuto e della tromba formano un unico suono), a due mesi di distanza l’uno dall’altro, Mecenate e Orazio erano morti. Eccetto te, caro Nicolao, furono gli ultimi miei vecchi amici.
Ora, mentre la vita scorre via adagio, mi sembra che nelle loro esistenze ci sia stata una sorta di simmetria mancante nella mia. I miei amici morirono al culmine del potere, quando ormai avevano compiuto la loro opera eppure potevano aspettarsi altri trionfi. Né furono così sfortunati da ritenere che la loro esistenza fosse stata vissuta invano. Da quasi vent’anni, mi sembra che la mia esistenza sia stata vissuta invano. Alessandro fu fortunato a morire così giovane, altrimenti avrebbe finito per rendersi conto che conquistare il mondo è ben piccola cosa, e governarlo ancor meno.
Come sai, tanto i miei ammiratori quanto i miei detrattori mi hanno paragonato a quell’ambizioso giovane macedone. È vero che l’Impero romano adesso è formato da molti dei paesi che Alessandro conquistò per primo. È vero che, come lui, io salii al potere in età giovanile, ed è vero che ho viaggiato in molte delle terre che lui è stato il primo a soggiogare. Ma io non ho mai voluto conquistare il mondo, e sono stato, si può dire, più governato che governante.
Le terre che ho aggiunto al nostro Impero, le ho aggiunte per garantire la sicurezza delle frontiere. Se l’Italia fosse stata sicura senza quelle annessioni, mi sarei accontentato di restare entro i limiti degli antichi confini. Risultò invece che dovetti trascorrere più tempo di quanto mi sarebbe piaciuto in terre straniere. Ho viaggiato dalla bocca dove il Bosforo si riversa nel mar Nero alle più remote sponde dell’Iberia, e dalle gelide piane della Pannonia, dove conteniamo i barbari Germani, ai deserti ardenti dell’Africa. Il più delle volte non mi recai là come un conquistatore ma come un emissario, per trattative pacifiche con governanti che somigliavano più a capi tribù che a capi di Stato e che spesso non conoscevano né il latino né il greco. A differenza di mio zio Giulio Cesare, che si sentiva, in qualche modo bizzarro, rinascere durante viaggi così lunghi, io non ero mai a mio agio in quei paesi lontani e pensavo sempre alle campagne italiane, persino a Roma.
Eppure finii per provare rispetto e addirittura affetto per alcuni di quei popoli strani, così diversi dai Romani, con cui avevo a che fare. Il membro della tribù nordica, il corpo seminudo avvolto nelle pelli degli animali uccisi con le sue mani, intento a fissarmi attraverso il fumo di un fuoco da campo, non era diverso dal bruno africano di cui ero ospite, in una dimora la cui ricchezza avrebbe offuscato quella di molte ville romane. Né il condottiero persiano in turbante, la barba accuratamente arricciata, i calzoni strani, il mantello ricamato a fili d’oro e d’argento e gli occhi guardinghi come quelli di un serpente, era diverso dal selvaggio condottiero della Numidia ritto davanti a me con il giavellotto, lo scudo di pelle d’elefante e il corpo d’ebano mollemente avvolto in una pelle di leopardo. In un momento o nell’altro ho dato potere a uomini come questi. Li ho resi re nei loro paesi, offrendo la protezione di Roma. Ne ho persino fatto dei cittadini, affinché la stabilità dei loro regni potesse essere sostenuta dal nome di Roma. Erano barbari. Non potevo riporre fiducia in loro. Eppure, il più delle volte trovavo in loro tanto da ammirare quanto trovavo da detestare. E conoscerli fece sì che capissi meglio i miei compatrioti che, spesso, mi sono sembrati strani quanto qualsiasi altra popolazione di questo mondo.
Sotto il profumo e l’acconciatura dell’elegante uomo romano, che si aggira a passettini nel suo giardino minuziosamente curato, indossando la toga di seta proibita, c’è il rude contadino che arranca dietro l’aratro ed è unto dal sudore impastato di polvere della sua fatica. Nascosta dalla facciata di marmo della più ricca dimora romana c’è la capanna dal tetto di paglia dell’umile agricoltore. Dentro il sacerdote che con riti solenni sacrifica la giovenca bianca, si nasconde il padre affannato, costretto a provvedere carne per il desco familiare e panni contro i rigori invernali.
A un certo momento, quando mi divenne necessario assicurarmi il favore e la gratitudine del popolo, presi l’abitudine di organizzare giochi di gladiatori. In quel periodo, quasi tutti i contendenti erano criminali i cui delitti sarebbero stati altrimenti punibili con la morte o con la deportazione. Consentii loro di scegliere tra l’arena e le conseguenze penali delle loro azioni. Inoltre stabilii che il contendente sconfitto avrebbe potuto implorare pietà e che chi fosse riuscito a sopravvivere per tre anni, qualunque fosse stato il suo reato, avrebbe ottenuto la libertà. Non mi stupiva che il criminale condannato a morte o ai lavori forzati a vita nelle miniere scegliesse l’arena. Mi stupì il fatto che il criminale esiliato da Roma preferisse l’arena ai pericoli relativi di un paese straniero. Non mi divertii mai a quei combattimenti tra gladiatori, eppure mi costrinsi ad assistervi affinché il popolo sentisse che condividevo il suo piacere. E la gioia del popolo nell’assistere alla carneficina era straordinaria da vedere. Si sarebbe detto che i plebei venissero stranamente incoraggiati a sopportare le loro esistenze, osservando altri meno fortunati di loro costretti a rinunciare alla propria. Più di una volta dovetti calmare la brama di sangue della folla risparmiando la vita a qualche povero disgraziato che si era battuto coraggiosamente, e osservai, come trasparisse su una sola faccia, l’imbronciata delusione della brama non soddisfatta. A un certo momento sospesi i giochi in cui l’uno o l’altro dei contendenti doveva morire, e li sostituii con incontri di pugilato in cui italici venivano contrapposti a barbari. Ma questo non piacque alla plebe, e altri che volevano conquistarsi l’ammirazione del popolo organizzarono spettacoli talmente sanguinari e sfrenati che fui costretto a rinunciare all’innovazione e a lasciarmi guidare una volta di più dai desideri dei miei compatrioti, per poterli dominare.
Ho visto gladiatori tornare nei loro alloggi dall’arena coperti di sudore, polvere e sangue, e piangere come donnette per una piccola cosa: la morte di un falcone prediletto, il biglietto scortese di un’innamorata, la perdita del mantello preferito. E nei palchi ho visto le matrone più rispettabili con il viso distorto mentre reclamavano a gran voce il sangue di un gladiatore sfortunato. Poi, quelle stesse donne, nella serenità della loro casa, si occupavano dei figli e dei servi con la massima dolcezza e il più grande affetto.
Così, se nelle vene del romano più raffinato scorre il sangue rustico del suo antenato contadino, ci scorre anche il sangue selvaggio del più ribelle barbaro del settentrione. Ed entrambi sono mal celati dietro la facciata che il romano ha eretto, non tanto per farsi passare per un altro, quanto per mascherarsi contro il suo stesso riconoscimento.
Mi succede di pensare, mentre andiamo lentamente alla deriva verso Sud, che, senza costringermi a impartire l’ordine, l’equipaggio, non costretto ad affrettarsi, si è mantenuto istintivamente in vista della terra, nonostante, in caso il vento cambiasse, non ci sarebbe facile correggere la rotta per seguire l’andamento irregolare della costa. C’è un che di profondo nel cuore italico che non ama il mare, un odio emerso talvolta così intensamente da sembrare quasi anormale. È qualcosa di più della paura, di più della naturale tendenza del contadino a rimanere attaccato alla terra e a evitare ciò che ne è tanto diverso. Così, l’avida smania del nostro amico Strabone di salpare beatamente su mari ignoti in cerca di cose strane lascerebbe allibito il comune romano, che si azzarda a spingersi al largo, dove la terra non è più visibile, soltanto in occasione di necessità inderogabili come una guerra. Eppure, agli ordini di Marco Agrippa la marina romana divenne la più potente nella storia del mondo, e le battaglie che salvarono Roma dai suoi nemici furono combattute sul mare. Ciononostante, l’avversione resta. Fa parte del carattere italico.
È un’avversione di cui i poeti si sono resi conto. Tu conosci quella breve poesia di Orazio dedicata alla nave che portava il suo amico Virgilio ad Atene? Orazio sostenne il concetto secondo cui gli dèi avevano separato terra da terra con le inimmaginabili profondità dell’oceano affinché i popoli restassero distinti. Ma l’uomo, nella sua folle temerarietà, lancia la propria fragile imbarcazione su un elemento che non dovrebbe essere toccato. Lo stesso Virgilio, nel grande poema sulla fondazione di Roma, non parla mai del mare se non nei termini più minacciosi: Eolo manda tuoni e venti sull’oceano, le onde si levano tanto alte da oscurare le stelle, gli alberi delle navi si schiantano e gli uomini non vedono più nulla. Ancor oggi, dopo tanti anni e tante letture del poema, continua a commuovermi sino alle lacrime il pensiero di Palinuro, il timoniere tradito dagli dèi del sonno nelle profondità del mare, dove affoga, mentre si affligge per Enea, pensandolo troppo fiducioso nella calma del mare e del cielo.
Tra i tanti servigi che Mecenate mi rese, ora il più importante sembra questo: mi consentì di conoscere i poeti a cui concedeva la sua amicizia. Erano uomini eccezionali, tra i più straordinari che io abbia incontrato. E se i Romani, come spesso accadeva, li trattavano con tutto il disprezzo che osavano ostentare, si trattava di un disprezzo che forse mascherava un timore non del tutto diverso da quello causato dal mare. Alcuni anni fa, fui costretto a bandire da Roma il poeta Ovidio, coinvolto in un intrigo che minacciava di turbare l’ordine dello Stato. Poiché la parte che aveva avuto nell’intrigo era stata più maliziosa e mondana che malevola e politica, gli resi l’esilio il meno penoso possibile. Lo perdonerò presto e gli consentirò di tornare dal gelido Nord al più temperato e piacevole clima di Roma. Eppure, anche nella località dove è stato bandito, il villaggio quasi barbaro di Tomis presso la foce del Danubio, continua a comporre le sue poesie. Ci scriviamo a volte, e siamo in rapporti abbastanza amichevoli. E, nonostante senta la mancanza dei piaceri di Roma, Ovidio non dispera della sua situazione. Ma tra i tanti poeti che ho conosciuto, lui è il solo in cui non riponevo piena fiducia. Tuttavia gli ero affezionato e continuo ad esserlo.
Potevo riporre fiducia nei poeti perché non ero in grado di dargli quello che volevano. L’Imperatore può dare a un uomo comune i mezzi per accumulare ricchezze tali da lasciare sbalordita la più straordinaria propensione al lusso. Può trasmettere un potere tale che pochi uomini osano opporvisi. Può conferire tanti onori e tanta gloria a un liberto, che anche un console si riterrebbe in obbligo di comportarsi nei suoi riguardi con una certa deferenza. Una volta offrii a Orazio la posizione di mio segretario privato: avrebbe fatto di lui uno degli uomini più influenti di Roma e, se fosse stato sia pur moderatamente corrotto, uno dei più ricchi. Rispose che, ahimè, le sue condizioni di salute gli impedivano di accettare un incarico di tale responsabilità. Sapevamo entrambi come l’incarico fosse quasi più cerimoniale che faticoso, e come lui godesse di una salute eccellente. Ma non avrei potuto offendermi. Orazio possedeva la piccola fattoria che gli aveva donato Mecenate, alcuni schiavi, i vigneti, e un reddito sufficiente per consentirgli di produrre un vino eccellente.
Presumo di aver ammirato i poeti perché mi sembravano i più liberi e di conseguenza i più affezionati degli uomini. Mi sentivo molto vicino a loro perché vedevo nei compiti che si prefissavano una certa analogia con quello a cui io mi ero dedicato da tempo.
Il poeta contempla il caos dell’esperienza, la confusione del caso e i regni incomprensibili della possibilità. Cioè il mondo in cui viviamo tutti così intimamente da far sì che pochi di noi si diano la pena di esaminarlo. I frutti di questa contemplazione sono la scoperta, o l’invenzione, di qualche piccolo principio d’armonia e d’ordine isolabile dal disordine che lo oscura, e l’asservimento di questa scoperta alle leggi poetiche che la rendono possibile. Nessun generale addestra più accuratamente le sue truppe, nei loro complessi schieramenti, di quanto il poeta disponga le proprie parole secondo le rigorose necessità del metro. Nessun console schiera con maggior scaltrezza una fazione contro l’altra allo scopo di conseguire i suoi fini, del poeta che contrappone un verso all’altro per mettere in risalto la verità. E nessun Imperatore organizza le parti disparate del mondo che governa, affinché costituiscano un tutto, con più cura di quella con cui il poeta dispone i particolari della sua poesia, affinché un altro mondo, forse più reale di quello da noi abitato tanto precariamente, ruoti nell’universo delle menti umane.
Era mio destino cambiare il mondo, ho detto prima. Forse avrei dovuto dire che il mondo fu il mio poema, che io mi dedicai al compito di ordinarne le parti in un tutto, subordinando l’una all’altra fazione, e adornandolo con le bellezze di cui era degno. Eppure, se è un poema quello che ho creato, si tratta di un poema che non sopravvivrà a lungo ai suoi tempi. Virgilio, quando morì, mi supplicò seriamente di distruggere il suo grande poema. Non era completo, disse, e imperfetto. Come il generale che vede una legione distrutta e non sa del trionfo di altre due, lui si riteneva un fallito. Eppure il suo poema sulla fondazione di Roma sopravviverà senza dubbio a Roma stessa, e certamente vivrà più a lungo della povera struttura che io ho messo insieme. Non distrussi il poema. Virgilio non credeva, penso, che gli avrei dato ascolto. Ma il tempo distruggerà Roma.
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La febbre non è diminuita. Un’ora fa sono stato preso da un capogiro improvviso e da una fitta tagliente nel fianco sinistro, seguita da stordimento. Mi accorgo che la gamba sinistra, sempre un po’ debole, adesso è quasi del tutto incapace di muoversi. Riesce ancora a sopportare il mio peso, ma si trascina inerte sotto di me. E, se la pungo con lo stilo per provare la sua sensibilità, sento appena il più pallido barlume di dolore.
Non ho ancora informato Filippo del malessere. Non può far niente per guarirmi, e preferirei non umiliarlo costringendolo a vane terapie con un corpo il cui deterioramento è di gran lunga al di là della portata di qualsiasi cura lui sia in grado di tentare. Dopo tutti questi anni, non posso adirarmi contro il corpo che vien meno. Nonostante la sua debolezza, mi ha servito bene. E forse è opportuno che io assista alla sua morte come potrei assistere alla dipartita di un vecchio amico, ricordando, mentre l’anima scivola via verso quella qualsiasi immortalità cui può essere destinata, l’anima mortale che nella vita non poté separarsi dall’animale di cui era ospite. Ora sono in grado, e lo sono da alcuni mesi, di distaccarmi dal corpo che mi contiene e di osservare questa sembianza di me stesso. Non è una capacità del tutto nuova, eppure mi sembra adesso più naturale di quanto lo sia mai stata prima.
E così, distaccato da un corpo disfatto, quasi dimentico della sofferenza, galleggio sopra il mare inimmaginabile, a Sud, verso Capri. Il sole alto risplende sull’acqua che si fende davanti alla nostra prua, la spuma bianca sibila stendendosi e disperdendosi sulle onde. Mi riposerò da questo compito cui mi sono accinto, e forse riacquisterò un po’ di forze. Questa sera entreremo nel porto di Puteoli. Domani sbarcheremo a Capri, dove adempirà quella che potrebbe essere l’ultima delle mie pubbliche funzioni.
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Siamo in porto. Sono le prime ore del pomeriggio e le nebbie non hanno ancora sottratto la costa alla vista di chi viaggia per mare. Rimango al mio tavolo, e inganno il tempo scrivendo questa lettera. Credo che Filippo, che continua a osservarmi dal suo posto a prua, abbia cominciato a sospettare che le mie condizioni di salute sono nettamente peggiorate. Dal suo bel volto giovanile traspare un’espressione dubbiosa e gli occhi nocciola, sotto le sopracciglia diritte e delicate come quelle di una donna, mi sbirciano di quando in quando. Non so per quanto tempo ancora riuscirò a nascondergli il malessere.
Abbiamo gettato l’ancora in una piccola insenatura subito a nord di Puteoli, e ancora più a nord c’è Napoli dove, alcuni anni fa, Marco Agrippa fece costruire una strada rialzata tra il mare e il lago di Lucrino, affinché la flotta romana potesse effettuare le manovre al sicuro dalle vicissitudini del tempo e dalle flotte pirata di Sesto Pompeo. A un certo momento, fino a duecento vascelli di guerra si addestrarono in quel porto nell’entroterra, divenendo così in grado di battere Sesto Pompeo e di salvare Roma. Ma in questi ultimi anni di pace si è lasciato che la melma ostruisse l’accesso allo specchio d’acqua e mi risulta che adesso è diventato un vivaio d’ostriche, in modo che i ricchi Romani possano accrescere i piaceri della loro nuova esistenza. Da dove ci troviamo all’ancora, non riesco a vedere quel porto, e ne sono lieto.
In questi ultimi anni mi si è presentata alla mente la possibilità che l’appropriata condizione dell’uomo, cioè quella in cui è più ammirevole, possa non essere quella prosperità, quella pace e quell’armonia che io mi sono adoperato per dare a Roma. Nei primi anni di governo, trovavo molto da ammirare nei miei compatrioti. Nonostante le tante privazioni non si lagnavano, e a volte erano quasi allegri. Nel pieno della guerra si preoccupavano più per la vita dei camerati che per la propria. E, nel pieno dei disordini, erano risoluti e leali nei confronti dell’autorità di Roma, dovunque ritenessero che questa autorità potesse risiedere. Per più di quarant’anni abbiamo avuto la pace romana. Nessun romano si è battuto contro un altro romano, nessun piede barbaro ha calpestato con un’ostilità non sfidata il suolo italiano, nessun soldato è stato costretto a portare le armi contro la sua volontà. Abbiamo vissuto la prosperità romana. Nessuno a Roma, per quanto umile, è rimasto privo della razione quotidiana di grano. I cittadini delle province non sono più alla mercé delle carestie o dei disastri naturali, ma possono star certi di avere aiuti in qualsiasi calamità. Ogni cittadino, quali che siano le sue origini, può diventare ricco quanto le capacità e i casi della vita glielo consentono. Inoltre, abbiamo vissuto l’armonia romana. Organizzai i tribunali di Roma in modo che ognuno potesse presentarsi a un magistrato con qualche certezza di ricevere almeno un minimo di giustizia: codificai le leggi dell’Impero, in modo che anche gli abitanti delle province potessero vivere relativamente al sicuro dalla tirannia del potere o dalla corruzione dell’avidità. Difesi lo Stato dalla forza brutale dell’ambizione di potere riconfermando e applicando quelle leggi contro il tradimento che Giulio Cesare aveva promulgato prima della morte.
Eppure ora sul volto dei Romani c’è un’espressione che temo lasci mal presagire per il futuro. Insoddisfatti di onesti agi, cercano di tornare alla corruzione di un tempo che quasi privò lo Stato della propria esistenza. Nonostante avessi dato al popolo libertà, potere e diritto di famiglia, nonché la libertà di parlare senza timore di rappresaglie, la dittatura di Roma mi fu offerta sia dal popolo che dal Senato romano, dapprima mentre ero lontano in Oriente, dopo la sconfitta di Marco ad Actium, e poi durante il consolato di Marco Marcello e Lucio Arrunzio, quando avevo salvato l’Italia a mie spese dalla carestia che distrusse le riserve di grano. In nessuna delle occasioni accettai, pur incorrendo nello scontento del popolo. E ora i figli di senatori, da cui ci si dovrebbe aspettare servano i loro simili o se stessi con qualche onore, pretendono di mettere a repentaglio le loro vite nell’arena, combattendo contro comuni gladiatori, per quello che immaginano sia il piacere del pericolo. Il coraggio romano si è abbassato fino alla volgare polvere del Circo.
Ora il porto di Marco Agrippa fornisce ostriche ai viveur di Roma, i corpi degli onesti soldati romani fecondano i loro lussureggianti giardini di tassi potati e cipressi, e le lacrime delle vedove formano ruscelletti artificiali che scorrono allegramente nel sole italiano. Intanto, a Nord, i barbari aspettano.
I barbari aspettano. Cinque anni fa, sul tratto della frontiera germanica delimitata dal Reno, a Roma toccò un disastro da cui non si è ancora riavuta. Forse è un preannuncio del suo fato.
Dalla sponda settentrionale del mar Nero alla più bassa costa dell’oceano di Germania, dalla Moesia al Belgio, per un tratto di oltre mille miglia nessun ostacolo naturale protegge l’Italia dalle tribù germaniche. Non si riesce a sconfiggerle, né a sottrarle alle loro abitudini di saccheggio e omicidio. Mio zio non ci riuscì, né ci riuscii io negli anni in cui ebbi il comando. Di conseguenza divenne necessario fortificare quella frontiera, per proteggere subito le province settentrionali di Roma e in ultimo per proteggere Roma stessa. Il tratto più pericoloso di quella frontiera, in quanto proteggeva terre particolarmente ricche e fertili, era il settore a nordovest, sotto il Reno. Così, delle venticinque legioni con centocinquantamila soldati che difendevano l’Impero di Roma, ne feci assegnare cinque, formate dai più esperti veterani, a quella piccola zona. La comandava Publio Quintilio Varo, che era stato con successo proconsole dell’Africa e governatore della Siria.
Presumo di dovermi ritenere responsabile di quel disastro, poiché mi lasciai convincere ad affidare il comando contro i Germani a Varo. Era un lontano parente di mia moglie e in passato aveva reso alcuni servigi a Tiberio. Fu uno degli errori più gravi che io abbia mai commesso, e la sola volta, a quanto ricordo, in cui affidai a un uomo di cui sapevo così poco una carica così elevata.
Infatti, sul confine rude e primitivo di quella provincia settentrionale, Varo immaginò di poter continuare a vivere nei lussi e negli agi della Siria. Si isolò dai soldati e cominciò a riporre fiducia nei provinciali germanici abili nelle adulazioni e in grado di offrirgli qualche sembianza dell’esistenza sensuale a cui si era assuefatto in Siria. Il più importante di questi adulatori fu un certo Arminio dei Cherusci, che aveva militato un tempo nell’esercito romano ed era stato ricompensato con il dono della cittadinanza. Arminio, che parlava scorrevolmente il latino nonostante le sue origini barbare, si conquistò la fiducia di Varo per poter favorire le sue ambizioni di potere sulle disperse tribù germaniche. E, quando fu sufficientemente certo della sprovvedutezza e della vanità di Varo, gli disse che le remote tribù dei Chauci e dei Bructeri erano in rivolta e dilagavano a Sud, minacciando la sicurezza del confine provinciale. Varo, arrogante e temerario, non volle ascoltare il consiglio di altri. Ritirò tre legioni dal campo estivo sul Weser e marciò verso Nord. Arminio aveva predisposto bene i propri piani. Mentre Varo guidava le sue legioni attraverso la foresta e le paludi verso Lemgo, le tribù barbare, già avvertite e preparate da Arminio, piombarono sulle legioni in difficoltà. Confuse dalla fulmineità dell’attacco, incapaci di opporre una resistenza ostinata, smarrite dalla foresta fitta, dalla pioggia e dal terreno acquitrinoso, le nostre truppe furono annientate. Entro tre giorni, quindicimila soldati furono uccisi o catturati. Alcuni prigionieri furono bruciati vivi dai barbari, altri crocifissi e altri ancora offerti in sacrificio agli dèi del Nord dai barbari sacerdoti, che li decapitarono e ne collocarono le teste sugli alberi nei boschi sacri. Meno di cento soldati riuscirono a sottrarsi all’imboscata e riferirono il disastro. Varo fu ucciso, oppure si tolse la vita. Nessuno può saperlo con certezza. In ogni modo, la sua testa mozzata mi fu restituita a Roma da un capotribù di nome Marboduus, non so se per un ansioso senso di religiosità o per scherno esultante. Diedi ai miseri resti di Varo una sepoltura decente, non tanto nell’interesse della sua anima quanto in quello dei soldati portati al disastro dal suo comando. E là al Nord i barbari continuano ad aspettare.
Dopo la vittoria sul Reno, Arminio non fu abbastanza intelligente per approfittare del vantaggio. Il Nord gli rimaneva aperto, dalla foce del Reno sin quasi alla confluenza del fiume con l’Elba, eppure si accontentò di saccheggiare i vicini. L’anno seguente affidai il comando delle legioni in Germania a Tiberio, in quanto era stato lui a persuadermi a nominare Varo. Tiberio si rendeva conto della propria responsabilità nel disastro, e sapeva che il suo avvenire dipendeva dal successo sui Germani e dalla capacità di riportare l’ordine in quelle province settentrionali turbate. Ci riuscì, soprattutto perché contò sull’esperienza dei centurioni e dei tribuni veterani delle legioni più che sulla propria iniziativa. E così ora al Nord regna una pace inquieta, nonostante Arminio continui ad essere libero, in qualche luogo nelle regioni selvagge al di là del confine che ha turbato.
Molto più a Oriente, al di là persino dell’India, in una parte di quel mondo ignoto dove non risulta che Romani abbiano mai posto piede, si dice che esista un paese i cui sovrani, nel corso di innumerevoli regni successivi, hanno eretto una grande muraglia difensiva che si estende per centinaia di miglia lungo la loro intera frontiera settentrionale, in modo da proteggere il regno dalle invasioni dei barbari vicini. Può darsi che tutto ciò sia la fantasia di un avventuriero. Può anche essere che un paese simile non esista. Ciononostante, confesserò che la possibilità di un simile progetto mi è balenata in mente quando sono stato costretto a pensare ai nostri vicini settentrionali, che non vogliono essere né conquistati né pacificati. Eppure so quanto sia inutile. I venti e le piogge delle epoche sbriciolano anche la pietra più solida, e non c’è muraglia che possa essere eretta per proteggere il cuore umano dalla sua stessa debolezza.
Infatti, a massacrare quindicimila soldati romani non furono Arminio e le sue orde. Fu Varo, con la sua debolezza, così come è il viveur romano, con la sua vita equivoca, a inviare al massacro altre migliaia di uomini. I barbari aspettano e noi ci indeboliamo nella sicurezza dei nostri agi e piaceri.
È di nuovo notte, la seconda di questo viaggio, che, mi sta divenendo sempre più chiaro, può essere l’ultimo per me. Non credo che la mente mi venga meno insieme al corpo ma, devo confessarlo, l’oscurità è discesa su di me prima ancora che io mi accorgessi del suo sopraggiungere, e mi sono sorpreso a guardare a Occidente senza vedere nulla. In quel momento, Filippo non ha più saputo tenere a bada l’ansia, si è avvicinato con quelle maniere lievemente rudi che rivelano in modo così trasparente la sua timidezza e la sua incertezza. Gli ho consentito di mettermi la mano sulla fronte per poter valutare l’intensità della febbre, e ho risposto ad alcune delle sue domande. Mentendo. Ma quando ha tentato di insistere che mi ritirassi nella cabina sottocoperta per proteggermi dall’aria notturna, ho recitato la parte del vecchio caparbio e capriccioso, e ho finto di adirarmi. L’ho fatto con tanta energia che Filippo si è persuaso della mia forza e si è accontentato di mandare a prendere alcune coperte, in cui ho promesso di avvolgermi. Filippo ha deciso di rimanere sul ponte, per potermi tenere d’occhio. Ma ben presto la testa ha cominciato a ciondolargli e ora, raggomitolato sulle assi nude, la testa appoggiata alle braccia piegate, con la fiducia e l’abbandono commoventi dei giovani, dorme, certo di svegliarsi domattina.
Non vedo più nulla, adesso, ma poco fa, prima che le brume del crepuscolo salissero dal mare e ammantassero l’orizzonte, mi è sembrato di riuscire a scorgere i contorni di una chiazza scura contro la vasta curva del mare. Credo di aver visto l’isola di Pandataria, dove per tanti anni mia figlia ha sopportato l’esilio. Ora non si trova più a Pandataria. Dieci anni fa ritenni che fosse possibile consentirle di tornare senza pericoli sulla terraferma italiana. Ora risiede nel villaggio calabro di Reggio, proprio all’estremità della penisola italica. Per più di quindici anni non l’ho vista, né ho pronunciato il suo nome, né ho consentito che si accennasse alla sua esistenza in mia presenza. Era troppo doloroso per me. E quel silenzio si limitava a definire un altro dei tanti ruoli che ho dovuto assumere nella vita.
I miei nemici gioirono, come è comprensibile, osservando il ricorso ironico, cui infine dovetti piegarmi, a quelle leggi sul matrimonio che ho promulgato e fatto approvare dal Senato circa trent’anni fa. E anche alcuni miei amici hanno avuto modo di dispiacersi della loro esistenza. Orazio mi disse una volta che le leggi erano impotenti contro le segrete passioni del cuore umano, e che soltanto chi non ha alcun potere su di esso, come il poeta o il filosofo, può persuadere lo spirito dell’uomo alla virtù. Forse, in questo caso, tanto i miei nemici quanto i miei amici ebbero ragione. Le leggi non ricondussero il popolo alla virtù, e il vantaggio politico che ottenni accontentando i settori più tradizionalisti degli anziani aristocratici fu momentaneo.
Non fui mai così sciocco da credere che le mie leggi sul matrimonio e sull’adulterio potessero essere ubbidite. Io stesso non mi attenni ad esse, né vi si attennero i miei amici. Virgilio, quando invocò la musa affinché lo assistesse nella stesura dell’Eneide, non credeva realmente all’esistenza di colei che invocava: era un modo che aveva imparato per iniziare il poema, un modo per annunciare le sue intenzioni. Così, quelle leggi che ho varato non volevano tanto essere ubbidite quanto seguite. Ritenevo che non esistesse alcuna possibilità della virtù senza l’idea della virtù, e nessuna effettiva idea della virtù che non fosse codificata nella legge stessa.
Mi sbagliavo, naturalmente. Il mondo non è un poema. E le leggi non ottennero gli scopi che le avevano suggerite. Ma alla fine furono utili a me, anche se allora non avrei potuto prevedere un simile impiego, e in seguito non ho più potuto pentirmi di averle consentite. Furono quelle leggi, infatti, a salvare la vita di mia figlia.
L’uomo, quando invecchia e mentre il mondo diviene sempre meno importante per lui, si domanda più che mai quali siano state le forze che lo hanno spinto nella vita. Senza dubbio gli dèi sono indifferenti alla povera creatura che si dibatte verso il suo destino e le parlano in modo così obliquo che deve decidere per conto suo i significati di quanto preannunciano. Così, nella mia parte di sacerdote, ho esaminato le viscere e il fegato di centinaia di animali e, con l’aiuto degli auguri, ho scoperto, o inventato, tutti quei portenti che mi sembravano favorire le mie intenzioni. E, alla fine, sono arrivato alla conclusione che gli dèi, se pure esistono, non contano. Quindi, se incoraggiai il popolo al culto degli antichi dèi romani, lo feci per necessità e non per la convinzione religiosa che quelle forze poggiassero molto saldamente sulle loro supposte persone. Forse tutto sommato avevi ragione tu, mio caro Nicolao. Forse esiste un solo dio. Ma, se questo è vero, gli hai dato un nome sbagliato. Il suo nome è Caso, il suo sacerdote è l’uomo, e la sola vittima del sacerdote dev’essere lui stesso, il suo povero Io combattuto.
Come si sono resi conto di molte altre cose, i poeti si sono resi conto anche di questo meglio della maggioranza, nonostante abbiano espresso questa conoscenza in termini che a certi possono sembrare banali. Riconobbi con te, in passato, che parlavano troppo dell’amore e attribuivano un’importanza eccessiva a quanto era, nel migliore dei casi, un passatempo piacevole. Ma ora non sono più tanto certo che questa concordanza di giudizi fosse saggia. «Odio e amo», disse Catullo parlando di quella Clodia Pulcro la cui famiglia causò tante difficoltà a Roma, anche nella nostra epoca e molto tempo dopo la morte di lei. Non è sufficiente. Ma in quale modo migliore potremmo cominciare a scoprire quell’Io che non è mai del tutto soddisfatto o insoddisfatto di quanto il mondo gli offre?
Devi perdonarmi, Nicolao. So che non sarai d’accordo e che non hai modo di esprimere il tuo dissenso. Ma in questi ultimi anni a volte ho pensato che si potrebbe costruire un sistema teologico, o anche religioso, intorno all’idea dell’amore, se quest’idea fosse estesa molto al di là della sua applicazione solita, e affrontata in un certo modo. Ora che ho più esperienza, ho esaminato quella capacità misteriosa esistita in me per tanti anni nelle sue molteplici varietà. Forse il nome che attribuiamo a questa capacità è inadeguato. Ma se lo è, altrettanto inadeguati sono i nomi, espressi e inespressi, che attribuiamo a tutti gli dèi più semplici.
Ho finito per convincermi che nella vita di ogni uomo, prima o poi, arriva il momento in cui ci si rende conto, meglio di ogni altra cosa che sia riuscito a capire e indipendentemente dal fatto se è in grado o meno di esprimere tale consapevolezza, della realtà terrificante della sua solitudine e del suo isolamento, e di non poter essere diverso dalla povera creatura che è. Adesso guardo i miei stinchi scheletrici, la pelle avvizzita sulla mano, la carne cascante chiazzata di macchie scure dall’età, e mi riesce difficile rendermi conto del fatto che un tempo questo corpo cercò sollievo da se stesso nel corpo di un’altra, e che un’altra cercò la stessa cosa in me. A quell’istante di piacere certi dedicano l’intera esistenza, e divengono amareggiati e vuoti quando il corpo vien meno, com’è inevitabile che accada. Sono amareggiati e vuoti perché hanno conosciuto soltanto il piacere, e non sanno il significato di quel piacere. Poiché, contrariamente a quanto possiamo credere, l’amore erotico è la più altruista tra tutte le manifestazioni dell’amore: cerca di fondere l’uno nell’altra, e quindi di sottrarsi all’Io. Questo genere d’amore è il primo a morire, naturalmente, in quanto vien meno con il venir meno del corpo. E per questa ragione, senza dubbio, molti l’hanno ritenuto la più spregevole tra le manifestazioni dell’amore. Ma il fatto che si spegnerà, e che noi sappiamo come sia destinato a spegnersi, lo rende più prezioso. E, dopo averlo conosciuto, non siamo più irrimediabilmente intrappolati ed esiliati nell’Io.
Eppure, da solo non basta. Ho amato molti uomini, mai però come ho amato le donne. L’amore di un uomo per un fanciullo è una moda a Roma che tu hai osservato con un certo stupore e, ritengo, con ripugnanza, sbalordito per la mia tolleranza di simili pratiche, e ancor più turbato, forse, perché, nonostante tale tolleranza, non mi ci sono mai dedicato. Ma quel genere d’amore che è l’amicizia mi è sembrato il più esente dai piaceri della carne: accarezzare un corpo appartenente al nostro stesso sesso significa accarezzare se stessi, e di conseguenza non è un sottrarsi all’Io, ma un imprigionarsi in lui. Chi ama un amico, infatti, non diviene quell’altro. Rimane se stesso e contempla il mistero dell’uno che non può mai essere, degli Io che non è mai stato. Amare un fanciullo può essere la forma più pura di questo mistero: dentro il fanciullo ci sono potenzialità che difficilmente una persona può immaginare, quell’Io estremamente lontano dall’osservatore. L’affetto che io ebbi per i miei figli adottivi e per i miei nipoti è stato oggetto di un certo divertimento tra chi mi ha conosciuto, ed è stato considerato l’indulgenza di un uomo sotto ogni altro aspetto razionale, il sentimentalismo di un padre sotto ogni altro aspetto responsabile. Io non l’ho interpretato così.
Un mattino, alcuni anni fa, mentre percorrevo la via Sacra verso il palazzo del Senato dove dovevo pronunciare il discorso che avrebbe condannato mia figlia a vivere in esilio, incontrai una persona conosciuta da bambino. Era Irzia, la figlia della mia vecchia nutrice. Irzia aveva badato a me come fossi stato suo figlio e, per i suoi fedeli servigi, le era stata concessa la libertà. Non la vedevo da cinquant’anni, e non l’avrei riconosciuta se non le fosse sfuggito dalle labbra un diminutivo con cui mi chiamava un tempo. Parlammo dei tempi della nostra fanciullezza e per un momento gli anni fuggirono via da me. Addolorato com’ero, per poco non dissi a Irzia quanto stavo per fare. Ma, mentre parlava dei suoi figli e della sua vita, e mentre constatavo la serenità con cui era tornata nel suo luogo di nascita per aspettare la morte nel placido ricordo della gioventù persa, non riuscii ad aprir bocca. Nell’interesse di Roma e della mia autorità, dovevo condannare mia figlia. E mi accadde di pensare che, se la scelta fosse dipesa da Irzia, Roma sarebbe caduta e Giulia sarebbe sopravvissuta. Non riuscii a parlare, perché sapevo che Irzia non avrebbe capito i miei moventi e sarebbe rimasta turbata per il poco tempo che le restava da vivere. Per un momento ridivenni bambino, e muto davanti a quella che ritenevo una saggezza insondabile.
Dopo l’incontro con Irzia, pensai che esiste un tipo di amore più potente e duraturo dell’unione con un altro essere che ci seduce con il piacere dei sensi, più potente e duraturo dell’amore platonico con cui contempliamo il mistero dell’altro e diveniamo noi stessi. Le amanti invecchiano o ci dimenticano, la carne diventa debole, gli amici muoiono e i fanciulli realizzano, e perciò tradiscono, quelle capacità potenziali contemplate in loro all’inizio. È un tipo d’amore grazie a cui tu, mio caro Nicolao, hai trovato te stesso per gran parte della vita, un tipo d’amore in cui i nostri poeti furono più felici. È l’amore dello studioso per il suo testo, del filosofo per la sua idea, del poeta per le sue parole. Così, Ovidio non è solo nel nordico esilio a Tomis, né tu sei solo nella tua remota Damasco, dove hai deciso di dedicare gli anni che ti rimangono ai libri. Non occorre alcuna creatura vivente per un amore così puro, e di conseguenza viene universalmente riconosciuto che è questa la forma d’amore suprema, in quanto va a un oggetto che si avvicina all’assoluto.
Eppure, sotto certi aspetti, può essere la forma d’amore più vile. Poiché, se eliminiamo la retorica altisonante che così spesso circonda questo concetto, questo si rivela né più né meno come amore del potere (perdonami, mio caro Nicolao, fingiamo una volta di più di dedicarci a uno di quei cavilli con i quali ci divertivamo un tempo). È il potere di cui dispone il filosofo sulla mente disincantata del lettore, il potere che ha il poeta sulla mente viva e sul cuore dell’ascoltatore. E se la mente, il cuore e lo spirito di chi viene a trovarsi sotto l’incantesimo di questo potere ne sono innalzati, è un fatto accidentale non essenziale ai fini dell’amore, o anche del suo scopo.
Ho cominciato a rendermi conto che è stato questo genere d’amore ad avermi spronato nel corso degli anni, nonostante si sia reso necessario per me nascondere tale realtà a me stesso oltre che agli altri. Quarant’anni fa, quando avevo trentasei anni, il Senato e il popolo di Roma mi accordarono il titolo di Augusto. Venticinque anni dopo, quando ne avevo sessantuno e nello stesso anno in cui esiliai mia figlia da Roma, il Senato e il popolo mi concessero il titolo di Padre della Patria. Fu molto semplice e appropriato. Scambiai una figlia contro un’altra, e la figlia adottiva ne fu grata.
A Occidente, nelle tenebre, c’è l’isola di Pandataria. La piccola casa dove Giulia visse per cinque anni ora è disabitata e, per ordine mio, abbandonata. Aperta alle intemperie e alla lenta erosione del tempo, tra qualche anno comincerà a crollare, e il tempo se la prenderà come prende ogni cosa. Spero che Giulia mi abbia perdonato perché le risparmiai la vita, come io l’ho perdonata di aver pensato di toglierla a me.
Infatti le dicerie che tu puoi aver sentito erano vere. Mia figlia faceva parte della cospirazione che si proponeva di assassinare suo marito e di uccidere me. E io mi richiamai a quelle leggi sul matrimonio, per così lungo tempo mai applicate e la condannai all’esilio per la vita, affinché non fosse condannata a morte dalla segreta volontà di suo marito, Tiberio, che le avrebbe fatto subire un processo per tradimento.
Più volte mi sono domandato se mia figlia abbia mai confessato a se stessa la portata della propria colpa. L’ultima volta che la vidi, lo so, stravolta e addolorata com’era per la morte di Iullo Antonio, non ci riuscì. Spero che possa non riuscirci mai, che viva la sua esistenza persuasa di essere stata vittima di una passione da cui fu condotta alla rovina, e non di aver partecipato a una congiura che si sarebbe certamente conclusa con la morte di suo padre, e quasi certamente avrebbe distrutto Roma. La prima conseguenza avrei potuto consentirla, la seconda no. Ho dimenticato ogni rancore che posso aver provato contro mia figlia, poiché mi sono reso conto di come, nonostante il suo ruolo nella congiura, sia sempre esistita una parte di Giulia che rimase la bambina affezionata al padre, forse troppo adorante. Una parte di lei che dovette indietreggiare inorridita rendendosi conto di quanto sarebbe stata costretta a fare. Una parte di lei che ancora, nella solitudine di Reggio, ricorda la figlia di un tempo. Mi sono reso conto che si può desiderare la morte di un’altra persona e allo stesso tempo voler bene alla vittima con un amore non percettibilmente diminuito. Un tempo avevo l’abitudine di chiamarla mia Piccola Roma, un appellativo frainteso quasi da tutti. Volevo che la mia Roma divenisse le potenzialità intraviste in lei. In ultimo, l’una e l’altra mi tradirono, ma non posso amarle di meno per questo.
A sud del nostro ancoraggio, il lago Lucrino, un tempo dragato da oneste mani italiche in modo che la flotta romana potesse proteggere il popolo, fornisce ostriche alle mense dei ricchi Romani. Giulia langue sulla desolata costa calabra, a Reggio. Tiberio governerà il mondo.
Ho vissuto troppo a lungo. Tutti quelli che avrebbero potuto succedermi e che si sono adoperati per la sopravvivenza di Roma, non sono più al mondo. Marcello, il primo a cui diedi mia figlia, morì a diciannove anni. Marco Agrippa morì. I miei nipoti e figli di Agrippa e di Giulia, Gaio e Lucio, morirono al servizio di Roma. Il fratello di Tiberio, Druso, allo stesso tempo più capace e più costante del fratello, che avevo cresciuto come mio figlio, morì in Germania. Rimane soltanto Tiberio.
Non dubito che Tiberio, più d’ogni altro, sia stato responsabile del fato di mia figlia. Non avrebbe esitato a coinvolgerla nella congiura contro la sua vita e la mia, e sarebbe stato lieto di vedere il Senato condannarla a morte, pur fingendosi addolorato e disperato. Non posso non disprezzare Tiberio. Al centro della sua anima c’è un rancore che nessuno è riuscito a sondare, e lui possiede una crudeltà essenziale non rivolta contro alcun particolare bersaglio. Ciononostante non è un uomo debole, e non è uno sciocco. E la crudeltà in un Imperatore è meno pericolosa della debolezza o della stupidità. Di conseguenza, ho affidato Roma alla mercé di Tiberio e ai casi fortuiti del tempo. Non potevo fare altro.
11 agosto
Durante la notte non mi sono mosso dal mio giaciglio, ho continuato a osservare le stelle che seguono adagio il loro eterno viaggio sulla grande cupola del cielo. Verso l’alba, per la prima volta da giorni mi sono appisolato per breve tempo, e ho fatto un sogno. Mi trovavo in quella condizione curiosa in cui si sogna e si sa di sognare e, ciononostante, si riscontra nel sogno una realtà tale da schernire quella della vita. Avrei voluto ricordare i contorni di quell’altro mondo, ma al risveglio il ricordo del sogno si è dileguato nella luminosità del mattino.
Mi hanno svegliato i movimenti dell’equipaggio, e il suono di un canto lontano. Per un attimo, in preda alla confusione, ho pensato alle Sirene di cui Omero scrive così mirabilmente, immaginandomi legato all’albero della mia nave, impotente contro l’invito di una bellezza inimmaginabile. Ma non erano le Sirene: era una nave carica di grano proveniente da Alessandria, che navigava adagio verso di noi da Sud. Gli uomini dell’equipaggio egizio, con vesti bianche e ghirlande sul capo, cantavano in piedi sul ponte, nella loro lingua, avvicinandosi. E la brezza mattutina ha portato fino a noi l’odore muschioso dell’incenso che bruciavano.
Li abbiamo visti avvicinarsi molto stupiti, finché alla fine l’enorme nave, che faceva sembrare molto piccola la nostra, si è accostata al punto da consentirci di distinguere le facce brune e sorridenti degli uomini. Poi il capitano si è fatto avanti e mi ha chiamato per nome.
Con qualche difficoltà, che spero di essere riuscito a nascondere anche a Filippo, mi sono alzato dal giaciglio avvicinandomi al parapetto, a cui ho potuto appoggiarmi mentre ricambiavo i saluti del capitano. È risultato che la nave aveva sbarcato un carico di merci nel porto tra Puteoli e Napoli ed era stata informata della mia presenza. L’equipaggio voleva, prima di fare ritorno nella lontana patria egizia, salutarmi e ringraziarmi. La nave era tanto vicina che ho potuto fare a meno di gridare: vedevo con grande chiarezza la faccia del capitano. Gli ho domandato come si chiamasse: Pothelios.
Mentre l’equipaggio continuava il canto sommesso, Pothelios mi ha detto: «Tu ci hai dato la libertà di navigare sui mari e di rifornire Roma con le abbondanti merci dell’Egitto. Hai liberato i mari dai pirati e dai briganti che un tempo avrebbero reso vuota questa libertà. Gli Egizi romani possono così prosperare e tornare alla loro patria sicuri, nella certezza che soltanto i capricci del vento e delle onde ne minacciano la salvezza. Di tutto ciò ti ringraziamo, e preghiamo affinché gli dèi ti concedano una sorte propizia per il resto dei tuoi giorni».
Per un momento non sono riuscito a parlare. Pothelios si era rivolto a me in un latino un po’ goffo, ma passabile. Ho pensato che trent’anni fa quest’uomo si sarebbe espresso nel greco-egizio demotico, e che quindi mi sarebbe riuscito difficilissimo capirlo. Ho restituito i ringraziamenti del capitano, ho rivolto alcune parole all’equipaggio e ho ordinato a Filippo di provvedere affinché ciascuno di loro ricevesse qualche moneta d’oro. Poi sono tornato sul giaciglio da cui ho visto l’enorme nave da carico scostarsi adagio da noi e fare rotta a Sud, le vele gonfie nel vento, mentre gli uomini dell’equipaggio salutavano con la mano e ridevano, contenti della loro sicurezza e del ritorno in patria.
E così ora facciamo rotta a Sud, e il nostro vascello – meno imponente – danza sulle onde. La luce del sole coglie le chiazze di spuma candida sulla cresta delle piccole onde che sciabordano con dolcezza e bisbigliano contro i fianchi della nave, mentre la profondità azzurro-verde del mare sembra quasi allegra. E io riesco a convincermi adesso che, tutto sommato, c’è stata qualche simmetria nella mia vita, qualche punto fermo. E che la mia esistenza ha reso vantaggi, più che danni, al mondo da cui sono felice di andarmene.
Ora, in questo mondo, l’ordine romano predomina. I barbari Germani possono aspettare al Nord, i Parti a Est, altri popoli al di là di frontiere che non abbiamo neppure concepito. Poiché, anche se Roma non cadrà davanti a loro, cadrà alla fine davanti a quel barbaro cui nessuno si sottrae… il Tempo. Ma per il momento, per alcuni anni, l’ordine romano predomina. Predomina in ogni città italica importante, in ogni colonia, in ogni provincia. Dal Reno e dal Danubio ai confini dell’Etiopia, dalle sponde atlantiche della Spagna e della Gallia alle sabbie dell’Arabia e al mar Nero. In tutto il mondo ho fondato scuole in modo da far conoscere la lingua latina e le tradizioni romane, e le ho fatte prosperare. La legge romana mitiga la crudeltà disordinata dei costumi provinciali, così come i costumi provinciali modificano la legge romana. E il mondo guarda con timore reverenziale a quella Roma che io trovai costruita di argilla e che ora è fatta di marmo.
La disperazione che ho espressa prima mi sembra ora indegna di quanto ho fatto. Roma non è eterna: non importa. Roma cadrà: non importa. Ci sarà stato un momento di Roma, e non morirà del tutto. Il barbaro diverrà la Roma che avrà conquistato, il nostro latino gli scioglierà la lingua rozza, la visione di quanto avrà distrutto gli scorrerà nel sangue. E, nel tempo che è incessante come so, il costo non è nulla, è meno di nulla.
Ci avviciniamo all’isola di Capri. Splende come un gioiello nel sole mattutino, uno smeraldo scuro che scaturisce dal mare azzurro. Il vento è quasi cessato e galleggiamo nell’aria, si direbbe, verso questo luogo tranquillo e piacevole dove ho trascorso tante ore felici. Gli abitanti dell’isola, miei vicini e amici, hanno già cominciato a riunirsi nel porto, salutano agitando le braccia e sento le loro voci chiaramente. Gaiamente, gaiamente mi chiamano. Tra un momento mi alzerò e risponderò.
Il sogno, Nicolao, ricordo il sogno che ho fatto stanotte. Ho sognato di trovarmi di nuovo a Perusia, ai tempi della rivolta di Lucio Antonio contro l’autorità di Roma. Avevamo cinto d’assedio la città per tutto l’inverno, sperando di costringere Lucio alla resa in modo da evitare lo spargimento di sangue romano. I miei uomini erano stanchi e scoraggiati dalla lunga attesa, e minacciavano la rivolta. Per restituirgli speranza, ordinai che fosse eretto un altare di fronte alle mura della città per offrire un sacrificio a Giove. Ed ecco il sogno.
Un bue bianco, mai aggiogato all’aratro, è condotto all’altare: ha le corna dorate e la testa inghirlandata da un corona di alloro. La corda è lenta. Il bue viene avanti volenteroso, a testa alta. Gli occhi sono azzurri e sembrano fissarmi, come se l’animale riconoscesse chi deve abbatterlo. Il sacerdote che mi assiste gli sbriciola sulla testa il grumo di sale. Il bue non si muove. Il sacerdote assaggia il vino, poi glielo versa tra le corna. Ancora il bue non si muove. Il sacerdote dice: «Vogliamo compierlo?».
Alzo la scure. Gli occhi azzurri sono fissi su di me, non si distolgono da me. Colpisco e dico: «È compiuto». Il bue freme e si piega adagio sulle ginocchia, ancora con la testa alta: e gli occhi fissi su di me. Colui che mi assiste sguaina la daga e gli taglia la gola, catturando il sangue nel calice. E ancora, mentre il sangue scorre, gli occhi azzurri paiono fissare i miei, finché alla fine divengono vitrei e il corpo si rovescia di lato.
Questo è accaduto più di cinquant’anni fa. Avevo ventitré anni. È strano che io l’abbia sognato, dopo tanto tempo.