I
Le memorie di Marco Agrippa: Frammenti (13 a.C.)
…Ero con lui ad Actium, quando la spada fece sprizzare fuoco dal metallo. Il sangue dei soldati allagò il ponte e colorò l’azzurro mare Ionio, il giavellotto sibilò nell’aria e gli scafi in fiamme crepitarono sull’acqua. Il giorno si riempì delle grida acute degli uomini, la carne arrostita nelle corazze che non riuscivano a strapparsi di dosso.
E, prima, ero con lui a Mutina, quando Marco Antonio invase il nostro accampamento, e nel letto vuoto in cui aveva dormito Cesare Augusto fu conficcata una spada. Ma non ci demmo per vinti e meritammo per la prima volta il potere che doveva darci il mondo.
Ero con lui anche a Filippi, quando viaggiava tanto malato da non riuscire a reggersi in piedi, e ciononostante si fece portare in lettiga tra le sue truppe. Quella volta sfiorò di nuovo la morte, per mano dell’assassino di suo padre, e si batté finché distrusse gli assassini del mortale Giulio, divenuto poi un dio.
Sono Marco Agrippa, a volte chiamato Vipsanio, tribuno del popolo e console in Senato, soldato e generale dell’Impero di Roma, e amico di Gaio Ottaviano Cesare, ora Augusto. Scrivo queste memorie nel cinquantesimo anno della mia vita, perché i posteri possano ricordare. Ricordare i tempi in cui Ottaviano scoprì Roma sanguinante tra le mascelle delle fazioni, uccise la bestia sovversiva risollevandone il corpo quasi senza vita, ne sanò le ferite e la rese di nuovo integra. In modo che marciasse con impetuoso vigore sui confini del mondo. In questo trionfo, io, con le mie capacità, ho avuto una parte. Di questa parte le mie memorie saranno una documentazione, così che gli storici dei tempi futuri potranno ammirare Augusto e Roma.
Agli ordini di Cesare Augusto, mi sono impegnato in tutti i modi per riportare Roma alla sua potenza: e Roma mi ha ricompensato ampiamente. Sono stato console tre volte, una edile e tribuno, due governatore della Siria. E per due volte ho ricevuto il sigillo della Sfinge dallo stesso Augusto, durante le sue gravi malattie. Ho guidato le vittoriose legioni romane contro Lucio Antonio a Perusia, e contro gli Aquitani in Gallia, e contro le tribù germaniche sul Reno, rifiutando poi il trionfo a Roma. Ho domato tribù e fazioni ribelli anche in Iberia e in Pannonia. Augusto in persona mi ha conferito il titolo di comandante in capo della nostra flotta. Con lui ho salvato le navi dal pirata Sesto Pompeo costruendo il porto a nordovest del golfo di Napoli. Queste stesse navi, in seguito, hanno sconfitto e distrutto Pompeo a Mylae e Naulochus, sulla costa della Sicilia: per questo il Senato mi ha premiato con la corona navale. Ad Actium abbiamo sconfitto il traditore Marco Antonio, riportando così la vita nel corpo di Roma.
Per celebrare la liberazione dell’Urbe dal tradimento egizio, ho fatto erigere il tempio ora denominato Pantheon, e altri edifici pubblici. Come primo amministratore della città agli ordini di Augusto e del Senato, ho fatto riparare gli antichi acquedotti costruendone di nuovi, perché i cittadini e la plebe potessero avere acqua e non incorrere in malanni. Quando, poi, Roma ha trovato finalmente la pace, ho contribuito al rilevamento e alla preparazione delle carte geografiche del mondo, impresa iniziata durante la dittatura di Giulio Cesare e resa possibile da suo figlio adottivo. Man mano che queste memorie procederanno, parlerò di tutto. Ma ora mi preme raccontare del periodo in cui gli eventi si misero in moto, l’anno successivo al ritorno trionfale di Giulio Cesare dalla penisola iberica, da una campagna a cui avevamo partecipato Gaio Ottaviano, Salvidieno Rufo e io.
Poiché mi trovavo con lui ad Apollonia, quando giunse la notizia della morte di Cesare…
Lettera: Gaio Cilnio Mecenate a Tito Livio (13 a.C.)
Devi perdonarmi, mio caro Livio, se ti rispondo così tardi. Inizio con le consuete lamentele: il riposo non sembra aver migliorato le mie condizioni di salute. I medici scuotono la testa con un’aria di sufficienza, borbottano misteriosamente e accettano l’onorario. Niente sembra farmi del bene. Né le medicine disgustose che mi somministrano, né l’astinenza da quei piaceri che, come sai, un tempo mi concedevo. La gotta mi ha reso impossibile tenere la penna in mano in questi ultimi giorni, nonostante io sappia con quanto impegno tu svolga il tuo lavoro e quanto sia importante per te il mio aiuto nella faccenda della quale mi hai scritto. Da poco, a tutti gli altri miei mali, si è aggiunta l’insonnia: ora le mie giornate trascorrono nello sfinimento e nell’apatia. Ma gli amici non mi abbandonano e la vita rimane. Devo esserne grato.
Mi poni delle domande sui primi tempi che ho passato col nostro Imperatore. Dovresti sapere che appena tre giorni fa è stato così buono da venire nella mia casa, a informarsi sui miei mali, e io ho ritenuto politicamente saggio avvertirlo della tua richiesta. Ha sorriso, mi ha chiesto se ritenessi o no opportuno aiutare un repubblicano inguaribile come te. Poi abbiamo cominciato a parlare dei tempi passati, come accade agli uomini che sentono sopraggiungere la vecchiaia. Lui ricorda ogni cosa, anche le più piccole, e persino in modo più vivido di me, che ho sempre avuto la vocazione a non dimenticare niente. Gli ho chiesto infine se non avrebbe preferito mandarti lui stesso un suo resoconto di quel periodo. Ha distolto lo sguardo, gli occhi persi in lontananza per un momento, ha sorriso di nuovo e ha detto: «No… Gli Imperatori possono falsificare i loro ricordi ancor più facilmente dei poeti e degli storici». Mi ha pregato di comunicarti il suo affettuoso rispetto e mi ha dato il consenso di scriverti liberamente.
Ma come posso parlarti con libera obiettività di quei tempi? Eravamo giovani. E nonostante Gaio Ottaviano, come si chiamava allora, sapesse di essere favorito dal destino e conoscesse l’intenzione di Giulio Cesare di adottarlo, né lui, né io, né Marco Agrippa, né Salvidieno Rufo, che eravamo i suoi amici, avremmo potuto immaginare dove saremmo finiti. Io non ho la libertà dello storico, amico mio. Puoi riferire i movimenti di uomini e di eserciti, ricostruire il corso intricato delle cospirazioni di Stato, porre sulla bilancia vittorie e sconfitte, narrare di nascite e di morti. E, ciononostante, essere libero, nella saggia semplicità del tuo compito, dal peso spaventoso di una sorta di conoscenza cui non posso dar nome, ma che sempre più percepisco con il trascorrere degli anni. Io so cosa vuoi. E tu sei senza dubbio spazientito con me perché non mi metto all’opera e non ti riferisco i fatti che ti occorrono. Ma devi ricordare che, nonostante i servigi che ho reso allo Stato, sono un poeta e quindi sono incapace di accostare le cose in modo diretto.
Forse ti sorprenderai di sapere che non avevo conosciuto Ottaviano fino a quando non lo incontrai a Brindisi, dove ero stato mandato a raggiungere lui e il suo gruppo di amici diretti ad Apollonia. Le ragioni della mia presenza laggiù mi rimangono oscure. Mi mandarono là per intercessione di Giulio Cesare, ne sono sicuro. Mio padre Lucio gli aveva reso tempo prima qualche servigio, e Giulio era venuto a farci visita nella nostra villa di Arezzo. Discussi con lui a proposito di qualcosa (sostenevo, credo, la superiorità delle poesie di Callimaco rispetto a quelle di Catullo) e divenni arrogante, offensivo e, pensavo, arguto. Ero molto giovane. In ogni modo mi sembrò di divertirlo e chiacchierammo per un po’. Due anni dopo ordinò a mio padre di mandarmi ad Apollonia, in compagnia di suo nipote.
Amico mio, devo confessarti (anche se potrai non servirtene) che non fui colpito in nessun modo da Ottaviano, quando lo vidi per la prima volta. Ero appena giunto a Brindisi da Arezzo e, dopo oltre dieci giorni di viaggio, mi sentivo stanco fino alle ossa, coperto dalla polvere della strada e irritabile. Li trovai sul molo da cui dovevamo imbarcarci. Agrippa e Salvidieno stavano parlando tra di loro e Ottaviano rimaneva in disparte a osservare una piccola nave ancorata nei pressi. Sembrava non si fossero accorti della mia presenza: «Sono il Mecenate che doveva incontrarsi con voi qui. Potrei sapere quali sono i vostri nomi?».
Agrippa e Salvidieno mi guardarono divertiti e mi dissero i loro nomi. Ottaviano non si girò. Allora, poiché mi sembrò di scorgere arroganza e sdegno nella sua schiena, aggiunsi: «E tu devi essere l’altro, quello che chiamano Ottaviano».
Si voltò verso di me e mi resi conto di essere stato stupido, perché aveva sulla faccia una timidezza quasi disperata. Disse: «Sì, sono Gaio Ottaviano. Mio zio mi ha parlato di te». Poi sorrise, mi porse la mano, alzò gli occhi e mi guardò per la prima volta.
Come sai, è stato detto molto di quegli occhi, il più delle volte in pessimi versi o in una prosa ancor peggiore. Ormai, penso, deve essersi stancato di ascoltare le metafore e non so che altro con cui li si descrive, nonostante in un primo tempo forse la sua vanità ne fosse solleticata. Ma i suoi occhi erano, anche allora, straordinariamente limpidi e penetranti e acuti… Più azzurri che grigi, anche se facevano pensare alla luce, non al colore… Ecco, vedi? Ho cominciato a fare io stesso il poeta. Ho letto troppi versi dei miei amici.
Forse indietreggiai di un passo. Non lo so. In ogni caso rimasi stupito e distolsi lo sguardo. Mi capitò di osservare la stessa nave che stava guardando Ottaviano.
«È quella la carretta sulla quale compiremo la traversata?», chiesi. Mi sentivo un po’ più allegro. Era una piccola nave mercantile, non più lunga di quindici metri, con il fasciame che stava marcendo a prua e le vele rattoppate. Puzzava.
Agrippa mi rivolse la parola: «Ci dicono che è la sola disponibile». Mi stava sorridendo appena. Immagino che mi giudicasse schizzinoso, perché portavo la toga e avevo parecchi anelli alle dita, mentre loro indossavano soltanto tuniche e non sfoggiavano alcun ornamento.
«Il puzzo sarà insopportabile», dissi.
Ottaviano osservò con gravità: «Credo che vada ad Apollonia per caricare pesce salato».
Rimasi in silenzio per un momento. Poi risi e ridemmo tutt, e diventammo amici.
Forse siamo più saggi da giovani, anche se i filosofi contesterebbero questa mia asserzione. Ma, te lo giuro, fummo amici da allora in poi. E quegli attimi di stupide risate costituirono un legame più saldo di qualsiasi altra cosa accaduta tra noi in seguito…Vittorie o sconfitte, fedeltà o tradimenti, sofferenze o gioie. Ma i giorni della giovinezza fuggono e una parte di noi se ne va con loro, per non tornare mai più.
Ecco come facemmo la traversata fino ad Apollonia, su un peschereccio maleodorante che cigolava alla più piccola onda, rollava così pericolosamente da costringerci a sostenerci se non volevamo rotolare sul ponte, e che ci portò verso un destino per noi inimmaginabile.
***
Riprendo la stesura di questa lettera dopo un’interruzione di due giorni. Non starò a infastidirti con un resoconto particolareggiato dei disturbi che mi hanno costretto a interrompermi: è tutto troppo sconfortante.
Mi sono reso conto di non averti dato notizie molto utili, quindi ho ordinato al segretario di frugare tra le mie carte per cercare informazioni che possano servirti. Forse te ne ricorderai: circa dieci anni fa parlai all’inaugurazione del tempio di Venere e Marte del nostro amico Marco Agrippa, quel tempio che il popolino ora chiama Pantheon. Inizialmente avevo l’idea, in seguito accantonata, di pronunciare un’orazione molto fantasiosa, quasi un poema se mi è consentito dirlo, per stabilire dei rapporti bizzarri tra la condizione di Roma come l’avevamo trovata noi da giovani e la condizione di Roma come la rappresentava ora il tempio. Comunque, per facilitarmi la soluzione del problema, scrissi degli appunti su quei primi tempi: ora li uso per aiutarti a completare la tua storia del mondo.
Immagina, se puoi, quattro giovani (estranei per me, ormai) all’oscuro del loro avvenire e di se stessi, all’oscuro del mondo in cui stanno cominciando a vivere. Uno di loro, Marco Agrippa, è alto e muscoloso, con la faccia quasi di un contadino, il naso pronunciato, l’ossatura robusta, la pelle simile a cuoio fresco, i capelli asciutti e rossicci e la barba rossa e ispida. Ha diciannove anni. Cammina pesantemente, come un manzo, ma c’è in lui una grazia strana. Si esprime con semplicità, adagio, placidamente, e non tradisce i suoi sentimenti. Non fosse per la barba, non si riuscirebbe a capire che è così giovane.
Un altro, Salvidieno Rufo, è tanto magro e agile quanto Agrippa è massiccio e goffo, è tanto scattante e volubile quanto Agrippa è lento e riservato. Ha la faccia smunta, la pelle chiara, gli occhi scuri; ride facilmente e illumina la gravità che gli altri ostentano. È il più anziano di tutti, ma gli vogliamo bene come fosse un nostro fratello minore.
Poi c’è un terzo (sono io?): la sua immagine è ancora più offuscata di quella degli altri. Nessuno può conoscere se stesso, né sapere come deve apparire persino agli amici. Ma immagino che quel giorno, e ancora per qualche tempo, dovettero giudicarmi un po’ stupido. Ero davvero molto vistoso allora, ed ero convinto che un poeta dovesse recitare la parte. Vestivo riccamente, avevo modi affettati, e mi ero fatto accompagnare da Arezzo da un servo incaricato soltanto di aver cura dei miei capelli… Finché gli amici mi derisero così spietatamente che dovetti rimandarlo in Italia.
E infine, ecco quello che allora era Gaio Ottaviano. Come posso parlarti di lui? Non conosco la verità, solo i miei ricordi. Lo ripeto: mi sembrava un ragazzo, nonostante io avessi a malapena due anni più di lui. Conosci il suo aspetto attuale. Bene, non è cambiato molto. Ma ora è l’Imperatore del mondo, e io devo guardare al di là di questo per vederlo com’era allora. Ti giuro, io, che lo servii conoscendo il cuore sia dei suoi amici sia dei suoi nemici, non avrei potuto prevedere cosa sarebbe diventato. Lo giudicavo un adolescente simpatico, niente di più, con un volto troppo delicato per ricevere i colpi del destino, con modi troppo diffidenti per conseguire uno scopo, e con una voce troppo dolce per pronunciare le parole spietate che un condottiero di uomini deve dire. Pensavo che sarebbe potuto diventare un ricco studioso, o un uomo di lettere. Ritenevo che non possedesse neppure l’energia necessaria per divenire senatore, una carica cui il suo nome e la ricchezza gli davano diritto.
Ecco i giovani che sbarcarono quel giorno, agli inizi d’autunno, nel quinto anno del consolato di Giulio Cesare, ad Apollonia, sulla costa adriatica della Macedonia. I pescherecci dondolavano nel porto e la gente salutava con la mano. Le reti erano tese ad asciugare sugli scogli. Le baracche di legno si allineavano lungo la strada per la città, costruita su un luogo elevato davanti a una piana che si stendeva per poi salire bruscamente e divenire montagna.
Trascorrevamo le mattinate studiando. Ci alzavamo quando il sole non era ancora sorto e ascoltavamo la prima lezione alla luce della lampada. Facevamo colazione con cibi rustici e semplici quando i raggi di luce si riflettevano sulle montagne a Oriente. Conversavamo in greco di ogni argomento (un’abitudine, temo, che ora sta tramontando), recitavamo a voce alta i passi di Omero imparati a mente la sera prima, li commentavamo, e infine pronunciavamo brevi declamazioni preparate secondo le disposizioni di Apollodoro (già anziano, ma di umore costante e di grande saggezza).
Nel pomeriggio venivamo portati fuori città, nell’accampamento dove si stavano addestrando le legioni di Giulio Cesare. Là, per il resto della giornata, prendevamo parte alle loro esercitazioni. Devo dire che proprio in questo periodo cominciai a sospettare di essermi ingannato sulle capacità di Ottaviano. Come sai, la sua salute è sempre stata malferma, nonostante la sua fragilità sia risultata più apparente della mia: io, caro Livio, sembro l’immagine stessa della salute anche quando sono in preda alla più grave delle malattie. Per quanto mi riguarda, prendevo scarsamente parte alle esercitazioni e alle manovre vere e proprie. Ottaviano invece partecipava sempre, preferendo, come suo zio, passare il tempo con i centurioni anziché con i comandanti di più alto grado della legione. Ricordo che una volta, nel corso di una battaglia simulata, il suo cavallo incespicò e lui venne scaraventato al suolo. Agrippa e Salvidieno si trovavano lì vicino, e Salvidieno fece subito per lanciarsi in suo aiuto, ma Agrippa lo trattenne per un braccio e non gli consentì di muoversi. Dopo qualche momento Ottaviano si riscosse, si mise in piedi e ordinò un altro cavallo. Glielo portarono, lui montò in sella e galoppò per tutto il resto del pomeriggio, svolgendo fino all’ultimo il suo compito nell’esercitazione. Quella sera, nella nostra tenda, lo sentimmo ansimare e chiamammo il medico della legione. Aveva due costole fratturate. Si fece bendare stretto il torace dal medico, la mattina dopo assistette alle lezioni insieme a noi e nel pomeriggio partecipò ugualmente a una marcia veloce.
Ecco come, in quei primi giorni o in quelle prime settimane, finii per conoscere l’Augusto che ora governa il mondo romano. Forse tu trasformerai tutto ciò in poche frasi di quella storia meravigliosa che ho avuto il privilegio di ammirare. Ma ci sono molte cose che non possono entrare a far parte dei libri, e questa è la perdita di cui sono sempre più preoccupato.
Lettera: Giulio Cesare a Gaio Ottaviano,
in Apollonia, da Roma (44 a.C.)
Stamattina, mio caro Ottaviano, ricordavo quel giorno dell’inverno scorso in Iberia, quando mi trovasti a Munda, nel pieno del nostro assedio alla fortezza dove Gneo Pompeo si era rifugiato con le sue legioni. Eravamo scoraggiati e stanchi a causa della battaglia. Non avevamo viveri e stavamo assediando un nemico in grado di riposarsi e nutrirsi mentre noi fingevamo di affamarlo. Arrabbiato per quella che sembrava una sconfitta certa, ti ordinai di tornare a Roma, da dove eri venuto con tanta facilità e tanti agi, o così mi sembrò allora. Ti dissi che non riuscivo a sopportare un ragazzo che voleva giocare alla morte e alla guerra. Ero arrabbiato soltanto con me stesso, come, ne sono certo, capisti sin da allora. Infatti non parlasti, ma ti limitasti a guardarmi con la più grande calma. Quindi mi tranquillizzai un po’ e ti parlai con il cuore (come ti ho sempre parlato, da allora), dicendoti che la campagna in Iberia contro Pompeo doveva eliminare finalmente e per sempre le lotte civili e le fazioni che avevano oppresso la nostra Repubblica, in un modo o nell’altro, sin dalla mia gioventù. E, aggiunsi, quella che avevo ritenuto essere una vittoria poteva ormai considerarsi una sconfitta quasi certa.
«Allora», dicesti, «non ci battiamo per la vittoria. Ci battiamo per le nostre vite».
E a me parve che un grande fardello mi venisse tolto dalle spalle e quasi tornai a sentirmi di nuovo giovane. Infatti ricordavo di essermi detto la stessa cosa più di trent’anni prima, quando sei degli uomini di Silla mi avevano sorpreso solo sui monti e, combattendo, m’ero aperto una strada tra loro fino al comandante. Poi ero anche riuscito a corromperlo perché mi riconducesse vivo a Roma. Fu in quel momento che seppi che sarei potuto diventare quello che poi fui.
Ricordando quei tempi lontani e vedendoti davanti a me, rividi me stesso giovane. E assorbii parte della tua gioventù e ti diedi parte della mia vecchiaia: così, insieme, provammo quella strana esultanza del potere, nonostante ci potesse accadere qualsiasi cosa. Ammonticchiammo i cadaveri dei nostri compagni caduti, avanzammo dietro di loro in modo che gli scudi non fossero appesantiti dai giavellotti scagliati dal nemico, ci avvicinammo alle mura e alla fine espugnammo la fortezza di Cordova, sulla pianura di Munda.
Ho ricordato inoltre, stamattina, l’inseguimento di Gneo Pompeo attraverso la penisola iberica, la pancia vuota e i muscoli stanchi. Ho ricordato i fuochi degli accampamenti durante la notte e i discorsi che fanno i soldati quando la vittoria è certa. Ho ricordato come tutte le sofferenze, le angosce e le gioie si fondano insieme, e persino i laidi morti sembrino belli, e la paura della morte e della disfatta sia come i passi successivi di un gioco. Adesso, mentre sono a Roma, desidero l’inizio dell’estate, quando marceremo contro i Parti e i Germani per rendere sicuri gli ultimi dei nostri confini… Capirai meglio la mia nostalgia delle campagne trascorse e l’aspettativa di quelle future se ti farò sapere qualcosa del mattino che ha suggerito questi ricordi.
Alle sette in punto, lo Sciocco (cioè Marco Emilio Lepido al quale, ti divertirà saperlo, ho dovuto concedere il tuo stesso potere sotto i miei ordini) stava aspettando alla porta con una lamentela a proposito di Marco Antonio. Sembra che uno dei tesorieri di quest’ultimo avesse l’abitudine di riscuotere tasse da quelli che avrebbero dovuto versarle al tesoriere di Lepido (stando a un’antica legge citata con abbondanza di particolari da Lepido stesso). Poi, ancora per un’ora, pensando che la prolissità allusiva fosse sottigliezza, ha lasciato intendere che Antonio è ambizioso… Osservazione che non mi ha stupito affatto. L’ho ringraziato, ci siamo scambiati banalità sulla natura della lealtà, e poi quello si è congedato per andare a riferire ad Antonio (ne sono certo) che io sono eccessivamente sospettoso anche con i miei amici più intimi. Alle otto sono entrati tre senatori, uno dopo l’altro, ognuno dei quali accusava i compagni di essere stati corrotti con un’identica somma: ho capito subito che erano tutti colpevoli. Non avevano potuto rendere il servigio per il quale erano stati corrotti, e il corruttore stava per rendere pubblica la cosa. Tutto ciò, naturalmente, avrebbe reso necessario un processo davanti al Senato. Loro volevano evitarlo, poiché avrebbe potuto portarli all’esilio, se non fossero riusciti a corrompere un numero sufficiente di giurati per assicurarsi la salvezza. Sapevo che, alla fine, sarebbero riusciti a comprare la giustizia, allora ho triplicato la somma pagata per la denunciata corruzione e li ho multati di tanto. Inoltre ho deciso che avrei trattato nello stesso modo il corruttore. Si sono dimostrati molto soddisfatti e io non li temo. So che sono corrotti e loro pensano che a mia volta anche io lo sia. La mattinata è trascorsa così.
Da quanto tempo viviamo la menzogna romana? Sin dove riesco a spingere la memoria, di certo. E forse anche da molti anni prima. Da quale fonte, mi chiedo, questa menzogna succhia la sua energia, così da diventare più forte della verità? Abbiamo assistito a omicidi, furti e saccheggi in nome della Repubblica. Li consideriamo lo scotto necessario da pagare per la libertà. Cicerone deplora la depravata moralità romana che adora la ricchezza. Ma lui stesso è molte volte milionario e viaggia con un centinaio di schiavi dall’una all’altra delle sue ville. Un console parla di pace e di tranquillità: e poi arma gli eserciti per assassinare il collega che minaccia i suoi interessi. Il Senato parla di libertà: e mi affida poteri che non voglio, ma che devo accettare ed esercitare se Roma vuole vivere. Non esiste il modo di eliminare la falsità?
Ho conquistato il mondo, ma non c’è una sola parte di esso che sia sicura. Ho mostrato la libertà al popolo, e il popolo la fugge come fosse una malattia. Disprezzo quelli in cui posso riporre fiducia, e amo quelli che più di ogni altro si affretterebbero a tradirmi. Non so dove siamo diretti, nonostante stia guidando una nazione verso il suo destino.
Questi, mio caro nipote che vorrei chiamare figlio, sono i dubbi che assediano l’uomo di cui si vorrebbe fare un re. Ti invidio l’inverno ad Apollonia. Sono soddisfatto di quanto mi si riferisce sui tuoi studi, e lieto che ti trovi così bene con gli ufficiali delle mie legioni. Ma sento la mancanza delle nostre conversazioni serali. Mi consolo con il pensiero che le riprenderemo quest’estate, durante la campagna in Oriente. Marceremo attraverso il paese, ci ciberemo dei prodotti locali e uccideremo chi dobbiamo uccidere. È la sola vita possibile per un uomo. E le cose andranno come dovranno andare.
Quinto Salvidieno Rufo: Appunti per un diario,
ad Apollonia (marzo, 44 a.C.}
Pomeriggio. Il sole è splendente, caldo. Dieci o dodici ufficiali e noi su una collina, intenti a seguire in basso, sul campo, le manovre della cavalleria. Nuvole di polvere si sollevano mentre i cavalli galoppano e girano. Grida, risate, bestemmie salgono fino a noi di lontano, nonostante il tambureggiare degli zoccoli. Noi tutti siamo saliti dal campo e ci stiamo riposando. Io mi sono tolto la corazza e, steso, ci appoggio la testa. Mecenate, la tunica immacolata e i capelli ben ravviati, siede appoggiato di spalle al tronco di un alberello. Agrippa è in piedi accanto a me, il corpo madido di sudore, le gambe come pilastri di pietra. Ottaviano è vicino a lui, il corpo snello tremante per le recenti fatiche. Sorridente, indica qualcosa sotto di noi. Agrippa annuisce. Proviamo tutti una sensazione di benessere. Non ha piovuto per una settimana, ha cominciato a far meno freddo, siamo soddisfatti della nostra abilità e dell’abilità dei soldati.
Scrivo in fretta queste parole, non sapendo in che modo potrò impiegare i momenti liberi. Devo annotare ogni cosa.
I cavalleggeri, sotto di noi, riposano. I cavalli si aggirano disordinati qua e là. Ottaviano siede accanto a me. Scherzoso, mi spinge la testa giù dalla corazza. Ridiamo di niente nello stato d’animo del momento. Agrippa ci sorride e stiracchia le grosse braccia, mentre il cuoio della sua corazza scricchiola nel silenzio.
Alle nostre spalle si alza la voce di Mecenate… acuta, sottile, un po’ affettata, quasi femminea. «Ragazzi che giocano a fare i soldati», dice. «Com’è intollerabilmente noioso».
Agrippa, con voce profonda, lenta, decisa, colma di quella serietà che nasconde tante cose: «Se fosse in tuo potere sollevare quell’ampio deretano da qualsiasi comodo appoggio riesca a trovare, scopriresti che esistono altri piaceri oltre i lussi che ostenti».
Ottaviano: «Forse riusciremmo a persuadere i Parti ad accettarlo come generale. Questo faciliterebbe il nostro compito, la prossima estate».
Mecenate emette un profondo sospiro, si alza e si avvicina. Per essere così massiccio, si muove con grande agilità. «Mentre vi abbandonavate alle vostre volgari esibizioni, ho concepito una poesia che prende in esame la vita attiva nei confronti di quella contemplativa. La saggezza della seconda la conosco già. E ho avuto modo di osservare la stupidità della prima».
Ottaviano, serio: «Mio zio mi disse una volta di leggere i poeti, di amarli, e di servirmene. Ma di non fidarmi mai di loro».
«Tuo zio», dice Mecenate, «è un uomo assennato».
Altri scherzi. Poi scivoliamo nel silenzio. Il campo sotto di noi è quasi deserto. I cavalli sono stati portati nelle scuderie al margine dell’accampamento. Più in basso del campo, verso la città, un cavalleggero si sta avvicinando, lanciato al galoppo. Lo osserviamo pigramente. Arriva nel campo, non si ferma, ma lo attraversa a una velocità folle, vacillando in sella. Comincio a dire qualcosa, ma Ottaviano si è irrigidito. Ha una strana espressione. Vediamo la schiuma schizzar via dalla bocca del cavallo. Ottaviano dice: «Conosco quell’uomo. È della famiglia di mia madre».
Ci è quasi addosso, ormai. Il cavallo rallenta. Lui scivola giù di sella, incespica, barcolla verso di noi con qualcosa in mano. Alcuni dei soldati lì attorno se ne sono accorti. Corrono verso di noi con le spade mezze fuori dal fodero, ma vedono che l’uomo è stremato e si muove soltanto grazie alla forza della volontà. Porge qualcosa a Ottaviano e gracida: «Questa… Questa…». È una lettera. Ottaviano la prende, la tiene in mano e non si muove per un po’. Il messaggero stramazza, poi si drizza a sedere e china la testa tra le ginocchia. Il solo suono che udiamo è l’ansito rauco del suo respiro. Guardo il cavallo e penso distrattamente: è sfiancato a tal punto che morirà prima del mattino. Ottaviano non si è mosso. Tutti ammutoliscono. Srotola adagio la lettera. Legge. Ha la faccia inespressiva. Continua a non parlare. Dopo molto tempo, alza la testa e si gira verso di noi. La sua faccia è come marmo. Mi mette in mano la lettera. Io non la guardo. Lui dice, con una voce opaca, spenta: «Mio zio è morto».
Non riusciamo ad afferrare il senso delle sue parole. Lo guardiamo stupidamente. La sua espressione non muta, ma lui parla di nuovo, e la sua voce è aspra e alta e colma di ottusa sofferenza, come i muggiti di un manzo a cui sia stato squarciato il collo per un sacrificio: «Giulio Cesare è morto».
«No», dice Agrippa. «No».
La faccia di Mecenate è divenuta tesa. Guarda Ottaviano simile a un falco.
La mano mi trema a tal punto che non riesco a leggere la lettera. La mia voce mi suona strana. Leggo a voce alta: «In queste Idi di marzo Cesare è stato assassinato dai suoi nemici al Senato. Mancano particolari. La gente corre come impazzita per le vie. Nessuno sa cosa accadrà. Può darsi che tu corra un grande pericolo. Non posso scrivere di più. Tua madre ti supplica di aver cura della tua persona». La lettera è stata scritta in tutta fretta. Ci sono macchie di inchiostro e la scrittura è incerta.
Mi guardo intorno, senza sapere quello che provo. Una sensazione di vuoto? Gli ufficiali rimangono in piedi intorno a noi, formando un cerchio. Ne guardo uno negli occhi, la faccia gli si corruga, sento un singhiozzo. E ricordo che questa è una delle prime legioni di Cesare, che i veterani lo considerano un padre.
Dopo molto tempo Ottaviano si muove. Si avvicina al messaggero che rimane seduto a terra, la faccia rilassata dalla spossatezza. Ottaviano gli si inginocchia accanto. La sua voce è dolce: «Sai qualcos’altro che non figuri su questa lettera?».
Il messaggero risponde: «No, signore», e fa per alzarsi, ma Ottaviano gli mette la mano sulla spalla. Dice: «Riposa». Poi si rimette in piedi e parla con uno degli ufficiali: «Fai in modo che ci si occupi di quest’uomo e gli si dia un alloggio comodo». Poi si gira verso noi tre, che ci siamo avvicinati l’uno all’altro. «Parleremo dopo. Ora devo riflettere su cosa accadrà». Tende la mano verso di me e capisco che vuole la lettera. Gliela consegno. Lui la prende e si allontana. La cerchia di ufficiali si apre per lasciarlo passare, mentre lui discende la collina. Per molto tempo lo seguiamo con lo sguardo, un’esile figura di adolescente in cammino sul campo deserto. Procede adagio, deviando a destra e a sinistra, quasi si sforzasse di scoprire la direzione in cui andare.
Più tardi. Grande costernazione nell’accampamento, quando si diffonde la notizia della morte di Cesare. Voci talmente pazzesche che non si può credere a una sola. Scoppiano e cessano litigi. Vola qualche pugno, ma le risse smettono subito. Alcuni dei vecchi soldati di carriera, che hanno trascorso l’intera vita combattendo di legione in legione, a volte contro gli stessi uomini divenuti adesso i loro camerati, osservano con disprezzo il fermento e si occupano dei fatti loro. Ottaviano non è ancora tornato dalla sua veglia solitaria nell’accampamento. Comincia a far buio.
Notte. Lugdunio, comandante della legione, ha collocato diversi uomini di guardia intorno alle nostre tende: nessuno sa quali nemici possiamo avere, o cosa potrebbe accadere. Noi quattro siamo insieme nella tenda di Ottaviano. Sediamo o restiamo distesi sui pagliericci disposti intorno alle lanterne baluginanti al centro. Ogni tanto Ottaviano si alza e va a sedersi su uno sgabello da campo, lontano dalla luce, in modo da avere la faccia nell’ombra. Da Apollonia sono venuti in molti, chiedendo altre notizie, dando consigli, offrendo aiuto. Lugdunio ci ha offerto la legione, se ne avremo bisogno. Ma Ottaviano lo ha pregato di non consentire che altri ci disturbino, e parla di quelli che sono venuti.
«Sanno ancora meno di noi, e parlano pensando soltanto a loro stessi. Ieri…», si interrompe e fissa qualcosa nell’oscurità, «ieri sembravano miei amici. Ora non posso più fidarmi di loro». Si interrompe di nuovo, si avvicina a noi e mi mette la mano sulla spalla. «Parlerò di queste cose soltanto con voi tre, che siete i miei veri amici».
Mecenate interviene. La voce gli è divenuta più profonda, e non è più resa stridula dall’effeminatezza che certe volte ostenta: «Non fidarti nemmeno di noi che ti amiamo. Da ora in poi, riponi in noi soltanto quella fiducia che riterrai giustificata».
Ottaviano si allontana bruscamente, con la luce alle spalle, e dice con voce soffocata: «Lo so. So anche questo».
E così, parliamo di cosa dobbiamo fare.
Agrippa dice che non dobbiamo fare niente, poiché non abbiamo niente di certo su cui fondare le nostre azioni. Alla luce incerta delle lanterne potrebbe essere un vecchio, con la voce e i modi gravi. «Qui siamo al sicuro, almeno per ora. Questa legione ci resterà fedele: Lugdunio ci ha dato la sua parola. Per quanto ne sappiamo, potrebbe trattarsi di una rivolta generale: non è escluso che vari eserciti siano già stati inviati a catturarci, come Silla mandò delle truppe a catturare i discendenti di Mario. Tra cui, inoltre, c’era lo stesso Giulio Cesare. Può darsi che non saremo tanto fortunati quanto lo fu lui. Abbiamo alle nostre spalle i monti della Macedonia, dove non ci seguiranno contro questa legione. In ogni caso almeno avremo il tempo di ricevere altre notizie. E non faremo nessuna mossa che possa compromettere la nostra posizione, in un modo o nell’altro. Dobbiamo aspettare».
Ottaviano, sommessamente, risponde: «Una volta mio zio mi disse che troppa cautela può portare alla morte almeno quanto un eccesso di temerarietà».
A un tratto mi trovo in piedi: una forza è entrata in me, parlo con una voce che non sembra la mia: «Io ti chiamerò Cesare, perché so che lui ti avrebbe voluto come suo figlio».
Ottaviano mi guarda. Mi accorgo che questo pensiero non gli era ancora passato per la mente. «È troppo presto per quello che dici», risponde adagio. «Ma ricorderò che è stato Salvidieno a chiamarmi per primo con questo titolo».
Dico: «Se ti voleva come suo figlio, avrebbe desiderato che ti comportassi come lui. Agrippa ha detto che qui abbiamo la fedeltà di una legione: le altre cinque in Macedonia reagiranno come ha fatto Lugdunio, se non aspetteremo troppo a chiederne la fedeltà. Infatti, se noi ignoriamo cosa accadrà, loro lo sanno ancor meno. Io dico di marciare su Roma con le legioni di cui disponiamo e di assumerne il potere».
Ottaviano: «E poi? Non sappiamo cosa sia quel potere. Non sappiamo chi ci si opporrà. Non sappiamo neppure chi ha assassinato Cesare».
Io: «Il potere diventerà quello che noi lo faremo essere. Quanto a chi ci si opporrà, non possiamo saperlo. Ma se le legioni di Antonio si uniranno alle nostre, allora…».
Ottaviano, adagio: «Non sappiamo neppure chi lo ha assassinato. Non conosciamo i suoi nemici e quindi non possiamo conoscere i nostri».
Mecenate sospira, si alza, scuote la testa. «Abbiamo parlato di azione, di quello che faremo. Ma non abbiamo parlato dello scopo a cui le nostre azioni mirano». Fissa Ottaviano. «Amico mio, cosa vuoi ottenere, con qualsiasi azione tu possa intraprendere?».
Per un momento Ottaviano non parla. Poi ci guarda, uno alla volta, con attenzione. «Giuro a tutti voi e agli dèi che, se è mio destino vivere, mi vendicherò degli assassini di mio zio, chiunque siano».
Mecenate annuisce: «Allora il nostro primo scopo è quello di garantire tale destino, perché tu possa mantenere il giuramento. Dobbiamo rimanere in vita. Quindi è necessario agire con cautela, certo… Ma dobbiamo agire». Sta andando avanti e indietro nella tenda, e ci si rivolge come fossimo scolaretti. «Il nostro amico Agrippa ci raccomanda di restare qui al sicuro, fino a quando non sapremo in quale direzione muoverci. Restare qui, però, significa rimanere nell’ignoranza. Presto, da Roma arriveranno delle notizie, ma si tratterà di voci confuse con la verità, di verità confuse con gli interessi personali: gli interessi personali e le fazioni diverranno la fonte di tutto ciò che sapremo». Si gira verso di me. «Il nostro impetuoso amico Salvidieno consiglia di colpire subito, poiché ritiene vantaggiosa la confusione in cui può trovarsi il mondo in questo momento. Precipitarsi nelle tenebre contro un avversario pavido può portare alla vittoria. Ma è altrettanto probabile che ti faccia cadere in un precipizio invisibile, o ti conduca dove non vuoi andare. No… Tutta Roma saprà che Ottaviano è stato informato della morte di suo zio. Quindi Ottaviano tornerà pacificamente, con gli amici e il suo dolore. Ma senza i soldati che tanto i sostenitori quanto gli avversari potrebbero volere. Nessun esercito attaccherà quattro ragazzi e alcuni servi, di ritorno per piangere un parente. Né soldati armati si riuniranno intorno a loro per mettere in allarme e irrigidire la volontà del nemico. E se la minaccia dovesse essere quella dell’omicidio, quattro persone possono fuggire più rapidamente di una legione».
A questo punto ognuno di noi dice la sua. Ottaviano tace. E io penso a quanto è strano che, così all’improvviso, dobbiamo rimetterci alla sua decisione, come non è mai accaduto prima. C’è una forza in lui che intuiamo e di cui prima non ci eravamo resi conto? O si tratta soltanto del momento? O di una deficienza in noi? Ci penserò dopo.
Alla fine Ottaviano parla: «Faremo come dice Mecenate. Lasceremo qui quasi tutte le nostre cose, come avessimo l’intenzione di tornare, e domani ci affretteremo il più possibile a salpare per l’Italia. Ma non diretti a Brindisi… C’è una legione laggiù, e non possiamo sapere come la pensi».
«Otranto», dice Agrippa. «Del resto è più vicina».
Ottaviano annuisce. «Ora dovete decidere. Chiunque ritorni con me, lega le sue fortune alle mie. Non esistono altre alternative e non è possibile tornare indietro. Inoltre non posso promettervi nulla, tranne quella che sarà la mia sorte».
Mecenate sbadiglia, è tornato ad essere quello di sempre. «Abbiamo compiuto la traversata con te su quel fetido peschereccio. Se siamo riusciti a sopportare quel viaggio, possiamo sopportare qualsiasi cosa».
Ottaviano sorride, un po’ malinconico. «Quel giorno è molto lontano».
Non parliamo più, ci limitiamo ad augurarci la buonanotte.
Sono solo nella mia tenda. La lampada scoppietta sul tavolo dove scrivo queste parole e, attraverso il lembo sollevato della tenda, vedo a Oriente, sopra le montagne, la prima pallida luce dell’alba. Non sono riuscito a dormire.
Nel silenzio di quest’ora antelucana, gli avvenimenti della giornata sembrano lontani e irreali. So che il corso della mia esistenza, di tutte le nostre esistenze, è stato modificato. Come la pensano gli altri? Lo sanno?
Sanno che davanti a noi si stende una strada al termine della quale si trova la morte o la grandezza? Le due parole mi turbinano nella mente, girando e girando, finché sembrano divenire una sola.