II
Lettera: Attia e Marzio Filippo a Ottaviano
(aprile, 44 a.C.)
Quando riceverai questa lettera, figlio mio, sarai arrivato a Brindisi e avrai saputo tutto. Ciò che temevo è accaduto: il testamento è ormai pubblico e tu sei stato nominato figlio ed erede di Cesare. Il tuo primo impulso, lo so, sarà di accettare sia il nome sia il patrimonio. Ma tua madre ti implora di aspettare, di riflettere, e di giudicare il mondo in cui ti invita il testamento di tuo zio. Non è il semplice mondo rurale di Velletri dove hai passato la fanciullezza, né quello familiare dei pedagoghi e delle governanti dove hai trascorso la prima adolescenza. Non è neppure il mondo dei libri e della filosofia che ha caratterizzato la tua gioventù, e nemmeno il semplice mondo dei campi di battaglia che Cesare (contro il mio volere) ti ha fatto conoscere. È il mondo di Roma, in cui nessuno distingue il nemico o l’amico, in cui l’immoralità è più ammirata della virtù e dove i princìpi sono stati asserviti agli egoismi.
Tua madre ti supplica di rinunciare a quanto ti offre il testamento: potrai farlo senza disonorare il nome di tuo zio e nessuno ti giudicherà male. Infatti, accettando il nome e il patrimonio, accetterai l’inimicizia sia di quelli che hanno ucciso Cesare, sia di quelli che, ora, ne onorano il ricordo. Avrai soltanto l’amore della plebaglia, come fu per Cesare: ma quell’amore non bastò a proteggerlo dal suo destino.
Mi auguro che tu riceva questa lettera prima di aver agito con avventatezza. Noi ci siamo allontanati dal pericolo di Roma e rimarremo qui, nella proprietà del tuo patrigno a Puteoli, fino a quando il caos non sarà stato sostituito da qualche parvenza di ordine. Se non accetterai il testamento, potrai viaggiare sicuro attraverso il paese e raggiungerci qui. È ancora possibile condurre una vita onesta nell’intimità del proprio cuore e della propria mente. Il tuo patrigno desidera aggiungere qualche parola a questa lettera.
***
Tua madre ti parla con l’affetto che ha nel cuore: io pure ti parlo per affetto, ma anche per l’esperienza pratica che ho della vita e per la conoscenza degli avvenimenti di questi ultimi giorni.
Tu sai qual è la mia politica e come ci siano state occasioni in passato in cui non ho approvato la linea d’azione seguita dal tuo defunto zio. Di quando in quando, infatti, ho ritenuto necessario – come fece il nostro amico Cicerone – manifestare la mia disapprovazione nell’aula del Senato. Ti dico questo solo per dimostrarti che ti esorto a seguire il consiglio di tua madre per considerazioni non politiche, ma pratiche.
Non approvo l’omicidio e, se fossi stato consultato a riguardo, senza dubbio mi sarei opposto con tale avversione da trovarmi io stesso in pericolo. Ma devi capire che tra i tirannicidi (come loro stessi si definiscono) ci sono alcuni tra i più potenti e rispettati cittadini di Roma. Hanno l’appoggio della maggioranza del Senato, e solo la plebe li minaccia. Alcuni sono miei amici e, per quanto sconsiderate siano state le loro azioni, devono comunque essere ritenuti uomini onesti e patrioti. Persino Marco Antonio, che ha aizzato la canaglia, non si è mosso né si muoverà contro di loro: anche lui, a conti fatti, è un uomo pratico.
Quali che fossero le sue virtù, tuo zio ha lasciato Roma in uno stato da cui la città non potrà riprendersi molto presto. Tutto è in dubbio: i nemici di Cesare sono potenti ma confusi, mentre i suoi amici sono corrotti e nessuno ha più alcuna fiducia in loro. Se accetterai il nome e l’eredità, sarai abbandonato da coloro che contano, avrai un nome che è soltanto un vuoto onore, e un patrimonio di cui non hai bisogno. Soprattutto, rimarrai solo.
Vieni da noi a Puteoli. Non lasciarti coinvolgere in problemi la cui soluzione non può favorire i tuoi interessi. Isolati da tutto. Sarai al sicuro nel nostro affetto.
Le memorie di Marco Agrippa: Frammenti (13 a.C.)
…e agimmo in base a quelle notizie, e nel nostro dolore. Ci affrettammo a salpare e avemmo una traversata tempestosa fino a Otranto, dove sbarcammo in piena notte. Non rivelammo a nessuno la nostra identità. Dormimmo in una locanda e allontanammo i servi, in modo che nessuno potesse sospettare di noi. Poi, prima dell’alba, partimmo a piedi per Brindisi, come fossimo dei campagnoli. A Lecce ci fermarono due soldati che sorvegliavano l’ingresso di Brindisi e, nonostante non avessimo dato i nostri nomi, uno di loro, che aveva preso parte alla campagna in Iberia, ci riconobbe. Ci disse che la guarnigione di Brindisi ci avrebbe accolto bene e che potevamo andare laggiù senza correre pericoli. Uno dei soldati ci accompagnò, mentre l’altro ci precedeva per avvertire del nostro arrivo. Giungemmo a Brindisi, dove ci accolse con tutti gli onori un servizio di guardia e dove i soldati si schierarono ai nostri lati mentre entravamo in città.
Ci mostrarono una copia del testamento di Cesare che nominava Ottaviano suo figlio ed erede, donava i giardini al popolo perché vi si riposasse e lasciava ad ogni cittadino romano trecento pezzi d’argento del suo patrimonio.
Ci dissero, inoltre, che Roma era in preda al disordine, ci rivelarono i nomi degli assassini di Cesare, ci parlarono dell’illegalità del Senato, che aveva condannato l’omicidio e lasciato liberi gli assassini, e ci raccontarono il dolore e la furia del popolo per un comportamento tanto arbitrario.
Un messaggero della famiglia di Ottaviano gli consegnò le lettere di sua madre e del marito di lei che, per affetto e preoccupazione, lo esortavano a quella rinuncia all’eredità cui lui non avrebbe mai acconsentito. Anzi, le incertezze del mondo e le difficoltà del compito rafforzarono la sua decisione. Allora noi lo chiamammo Cesare e gli giurammo fedeltà.
Spronati dalla venerazione per il padre assassinato e dall’affetto per il figlio, la legione di Brindisi e i veterani accorsi da lontano si affollarono intorno a Ottaviano, esortandolo a guidarli nella vendetta contro gli omicidi. Ma lui li congedò con molte parole di gratitudine e, in un silenzio afflitto, proseguimmo lungo la via Appia e ci dirigemmo a Puteoli, da dove avevamo pensato di partire per Roma al momento opportuno.
Quinto Salvidieno Rufo:
Appunti per un diario, a Brindisi (44 a.C.)
Abbiamo saputo molto, capiamo poco. Si dice che ci furono più di sessanta cospiratori. I capi furono Marco Giunio Bruto, Gaio Cassio Longino, Decimo Bruto Albino, Gaio Trebonio… Tutti amici di Giulio Cesare. Alcuni di loro li conoscevamo da quando eravamo bambini. Ce ne sono altri, invece, che ancora non conosciamo. Marco Antonio parla in pubblico contro gli assassini e poi li invita a cena. Dolabella, che ha approvato l’omicidio, è stato nominato console per quest’anno dallo stesso Antonio scagliatosi contro i nemici di Giulio Cesare.
Qual è il gioco di Antonio? Dove finiremo?
Lettera: Marco Tullio Cicerone
a Marzio Filippo (44 a.C.)
Ho appena saputo che il tuo figliastro, con tre dei suoi giovani amici, si trova in questo momento in viaggio da Brindisi, dov’è sbarcato appena pochi giorni fa. Mi affretto a scriverti questa lettera perché tu possa riceverla prima del suo arrivo.
Corre voce che, nonostante la lettera di consigli che gli hai inviato (e di cui mi hai mandato una copia), intende accettare le disposizioni del testamento di Cesare. Spero che non sia vero, poiché temo l’avventatezza della gioventù. Per questo ti invito ad avvalerti della tua influenza per dissuaderlo o, se il passo è stato già compiuto, persuaderlo a rinunciare. Ti darò tutto il mio appoggio: sto per lasciare la mia casa qui ad Astura, in modo da poter essere con te a Puteoli quando lui arriverà. In passato sono stato cortese con lui e penso che mi ammiri.
So che gli vuoi bene, ma devi capire che Gaio è pur sempre un Cesare, e che i nemici della nostra causa potranno servirsi di lui se gli sarà consentito di fare a modo suo. In tempi come questi, la fedeltà nei confronti della nostra parte deve avere la precedenza sulle inclinazioni naturali. Inoltre, nessuno di noi vuole che gli venga fatto del male. Devi parlarne con tua moglie (ricordo che ha un forte ascendente sul figlio) e convincerla.
Ho avuto notizie da Roma. La situazione non è buona ma neanche disperata. I nostri amici non osano ancora farsi vedere, e persino il mio caro Bruto deve fare quello che può in campagna, invece di restare a Roma e restaurare la Repubblica. Avevo sperato che l’omicidio di Cesare ci avrebbe restituito subito la libertà, riportandoci alla gloria del passato e liberandoci dagli arrivisti che adesso pensano di turbare l’ordine amato da entrambi. Ma la Repubblica non è restaurata, quelli che dovrebbero agire con fermezza ne sembrano incapaci e Antonio si aggira come una bestia dall’uno all’altro bottino, saccheggiando il tesoro e accaparrandosi il potere appena può. Se dovessimo sopportare Antonio, potrei quasi rimpiangere la morte di Cesare. Ma non dovremo tollerarlo a lungo… Ne sono certo. Agisce in modo talmente imprudente che si distruggerà da sé.
Sono troppo idealista, lo so. Me lo dicono anche gli amici più cari. Eppure ho fiducia nel trionfo finale della nostra causa. La ferita guarirà, e anche la disfatta, il Senato ritroverà la solidità e la dignità che Cesare è quasi riuscito a soffocare… E tu e io, mio caro Marzio, vivremo per vedere rinnovata l’antica virtù romana, di cui abbiamo parlato così spesso.
Gli avvenimenti delle ultime settimane mi assediano. Hanno assorbito tanto del mio tempo che i miei affari ne soffrono. Uno degli amministratori della proprietà, Crisippo, è venuto ieri da me, e mi ha criticato seriamente: due delle mie botteghe sono crollate e altre sono così malandate che non soltanto gli affittuari ma persino i topi minacciano di emigrare! Quanto sono fortunato ad aver imitato Socrate… Certi chiamerebbero la mia situazione calamità: per me, invece, non è nemmeno una noia. Come sono insignificanti queste cose! In ogni modo, dopo una lunga discussione con Crisippo, ho escogitato un piano che mi farà vendere alcuni edifici e ripararne altri: tramuterò la perdita in utile.
Lettera: Marco Tullio Cicerone
a Marco Giunio Bruto (44 a.C.)
Ho visto Ottaviano. È a Puteoli, nella villa del patrigno che confina con la mia. Quindi, dato che Marzio Filippo e io siamo amici, posso vederlo quando voglio. Ti dico subito che è vero: ha accettato l’eredità e il nome del tuo defunto nemico.
Prima di disperarti, però, lasciami dire che la situazione è meno grave di quanto avremmo potuto credere. Il ragazzo è una nullità e non dobbiamo averne alcun timore.
Ha portato con sé tre giovani amici. Marco Agrippa, un enorme bifolco che apparirebbe più a suo agio arrancando lungo un solco prima o dopo l’aratura, anziché entrando in un salotto. Gaio Cilnio Mecenate, un giovane dalle fattezze dure e severe ma stranamente effeminato, che si dimena invece di camminare e sbatte le ciglia nel modo più repellente. E Salvidieno Rufo, un ragazzo magro ed emotivo che ride un pochino troppo, ma sembra essere il più sopportabile del gruppo. A quanto posso capire, sono dei nessuno, senza una famiglia, o un valore personale, o un patrimonio di cui valga la pena parlare (quanto a questo, naturalmente, nemmeno l’ascendenza del giovane Ottaviano è immacolata: suo nonno, dal lato paterno, era un semplice usuraio di campagna e più in là ancora soltanto gli dèi sanno da dove provenga).
In ogni modo, i quattro si aggirano per la casa come non avessero niente da fare, chiacchierando con gli ospiti e rendendosi fastidiosi. Sembrano ignorare tutto, perché difficilmente si riesce a ottenere una risposta intelligente da uno qualsiasi di loro. Pongono domande stupide, e poi hanno l’aria di non capire le risposte, poiché annuiscono inespressivi e guardano altrove.
Ma io non consento né al mio disprezzo né al mio sollievo di manifestarsi. Con il ragazzo ho simulato gravità. Appena è arrivato, mi sono avvicinato a lui con fare comprensivo, parlando di banalità a proposito della perdita di parenti stretti. La sua reazione mi ha persuaso del fatto che il suo dolore era personale, non politico. Allora ho finto di non capire e gli ho detto che, per quanto fosse stato deplorevole l’omicidio (mi perdonerai questa ipocrisia, caro Bruto), molte persone erano convinte dei moventi altruistici e patriottici del gesto. Di contro, lui non mi è sembrato per nulla infastidito dalle mie parole. Penso che di me abbia una sorta di timore reverenziale, e che sia possibile farlo passare dalla nostra parte, se riuscirò a trattare la cosa con sufficiente delicatezza.
È un ragazzo, e piuttosto sciocco: non ha la più pallida idea di cosa sia la politica, né è probabile che possa averla. Non è spinto né dall’onore né dall’ambizione, ma da un affetto piuttosto dolce per il ricordo di un uomo che avrebbe voluto essergli padre. I suoi amici, inoltre, sono interessati esclusivamente ai vantaggi che ne potranno ricavare. Quindi secondo me non costituisce un pericolo per noi.
D’altro canto, può darsi anche che riusciamo a sfruttare la circostanza a nostro vantaggio. Ottaviano, infatti, ha diritto al nome di Cesare, e (se riuscirà a entrarne in possesso) al patrimonio. Senza dubbio, alcuni lo seguiranno soltanto a causa del nome che ha assunto, altri, per esempio i veterani e i servi, a causa del ricordo dell’uomo che gli ha dato questo nome, altri ancora perché sono confusi o capricciosi. Ma la cosa importante è che non perderemo nessuno dei nostri, perché quelli che potrebbero seguirlo sono gli stessi che altrimenti avrebbero seguito Antonio. Se riusciremo a farlo passare dalla nostra parte, avremo raddoppiato la vittoria: nel peggiore dei casi, infatti, saremo riusciti a indebolire Antonio. Questa, di per sé, sarebbe già una vittoria sufficiente. Ci serviremo del ragazzo, e poi lo metteremo da parte. La discendenza del tiranno avrà così avuto fine.
Come senz’altro capirai, non posso parlare liberamente di queste cose con Marzio Filippo. Nonostante sia nostro amico si trova in una situazione imbarazzante. In fin dei conti è sposato con la madre del ragazzo, e nessun uomo è del tutto esente dalle debolezze causate dagli obblighi coniugali. Del resto non è un uomo abbastanza importante per confidargli ogni cosa.
Puoi conservare questa lettera in vista di momenti meno pericolosi ma, ti prego, non mandarne una copia al nostro amico Attico. Spinto dall’ammirazione per me e dall’orgoglio per la nostra amicizia, mostra le mie lettere a tutti, anche se non le pubblica. Ma le notizie che ti sto dando qui non dovrebbero divenire di pubblico dominio fino a quando il futuro non avrà dimostrato come le mie osservazioni siano vere.
Post scriptum: la prostituta egiziana di Cesare, Cleopatra, è fuggita da Roma, non so se temendo per la propria vita, o se disperata a causa della fine delle sue ambizioni. Grazie agli dèi, comunque, ce ne siamo liberati. Ottaviano sta andando a Roma per rivendicare l’eredità e ci va in assoluta sicurezza. A stento sono riuscito a dissimulare l’ira e la sofferenza quando l’ho saputo: lo sbarbatello e i suoi zotici amici possono recarsi laggiù senza pericolo per le loro persone mentre tu, mio eroe delle Idi di marzo, e il nostro Cassio, dovete nascondervi come animali braccati, fuori dalla città da voi liberata.
Lettera: Marco Tullio Cicerone
a Marco Giunio Bruto (44 a.C.)
Il più breve dei biglietti… Ottaviano è nostro, ne sono sicuro. È andato a Roma e ha parlato al popolo, ma solo per rivendicare l’eredità. Mi si dice che non parla male di te, né di Cassio, o di alcuno degli altri. Loda Cesare nei termini più cortesi, e rende noto di avere accettato l’eredità per un senso del dovere, e il nome per rispetto. Ma afferma di avere intenzione di ritirarsi a vita privata appena avrà sistemato le cose. Possiamo credergli? Dobbiamo, dobbiamo! Lo adulerò, quando tornerò a Roma, perché il suo nome può ancora avere un valore per noi.
Lettera: Marco Antonio a Gaio Senzio Tavo,
comandante militare della Macedonia (44 a.C.)
Senzio, vecchio galletto arzillo, Antonio ti saluta, e ti informa sull’ultima idiozia… Un esempio del genere di cose che mi capitano ogni giorno, ora che il fardello dell’amministrazione grava sulle mie spalle. Non so come riuscisse a sopportarlo Cesare, giorno dopo giorno. Di sicuro era un uomo strano.
Quel piccolo bastardo dalla faccia pallida, Ottaviano, è venuto a farmi visita ieri mattina. Si trova a Roma da circa una settimana e si comporta come una vedova, facendosi chiamare Cesare e altre assurdità del genere. Sembra che Gneo e Lucio, i miei fratelli idioti, gli abbiano permesso senza consultarmi di parlare alla folla nel Foro, purché non si fosse lanciato in un discorso politico. Hai mai sentito parlare di un discorso non politico? Bene, per lo meno Ottaviano non ha tentato di aizzarli, quindi non è del tutto sciocco. Ha strappato un po’ di comprensione alla folla, ne sono certo, ma non molto di più.
Comunque, in parte è certamente uno sciocco: è molto presuntuoso, specie considerando che suo nonno era un ladro e che il suo nome è preso in prestito. Si è presentato a casa mia in tarda mattinata, senza appuntamento, mentre c’era una fila ad aspettarmi, accompagnato da un seguito di tre persone come se lui fosse un maledetto magistrato e loro i suoi littori. Supponeva, presumo, che avrei lasciato tutto per precipitarmi da lui, ma naturalmente non l’ho fatto. Ho detto al mio segretario di fargli sapere che doveva aspettare il suo turno: pensavo, e speravo, che se ne andasse. Ma non se n’è andato, e gli ho fatto fare anticamera per quasi tutto il resto della mattinata, consentendogli infine di entrare.
Devo confessarlo: nonostante il gioco che giocavo con lui, ero un po’ curioso. L’ avevo vista, prima, soltanto un paio di volte… Una volta sei o sette anni fa, quando era sui dodici anni e Cesare gli fece pronunciare il panegirico al funerale di sua nonna Giulia. Poi due anni fa, alla sfilata trionfale di Cesare dopo l’Africa, quando mi trovavo sullo stesso cocchio di Cesare e il ragazzo ci seguiva a cavallo. A un certo momento Cesare mi aveva parlato a lungo di lui, e io mi ero chiesto se non mi fosse sfuggito qualcosa.
Bene, non era così. Non riuscirò mai a capire perché il «grande» Cesare ne ha fatto l’erede del suo nome, del suo potere, delle sue ricchezze. Giuro sugli dèi, se il testamento non fosse stato già consegnato e registrato al tempio delle Vestali, avrei corso il rischio di modificarlo io stesso.
Non credo che mi sarei irritato tanto se il ragazzo avesse lasciato le sue arie nella sala d’aspetto e fosse entrato nel mio ufficio come tutti gli altri. Invece no. Si è fatto avanti con i suoi tre amici al fianco, e me li ha presentati, come se mi interessasse conoscerli. Si è rivolto a me con la dovuta cortesia, poi ha aspettato che dicessi qualcosa. L’ho fissato a lungo senza parlare. Un merito devo riconoscerglielo: ha sangue freddo. Non ha ceduto e non ha aperto bocca, e io non sono riuscito a capire se fosse adirato o no per aver fatto anticamera. Così a un certo punto gli ho detto: «Dunque, cosa vuoi?».
Anche allora non ha battuto ciglio. Ha risposto: «Sono venuto a rendere omaggio a te, che eri amico di mio padre, e a domandarti cosa devo fare per rendere operante il suo testamento».
«Tuo zio», ho detto, «ha lasciato l’amministrazione dei suoi beni in un gran disordine. Ti consiglierei di non aspettare a Roma che tutto sia chiarito».
È rimasto zitto. Ti assicuro, Senzio, c’è qualcosa in quel ragazzo che mi esaspera. Davanti a lui non riesco a dominarmi. Ho detto: «Inoltre, ti consiglierei di non servirti così liberamente del suo nome, come se ti appartenesse. Non ti appartiene, come ben sai, e non ti apparterrà fino a quando l’adozione non sarà stata sanzionata dal Senato».
Ha annuito. «Ti sono grato del consiglio. Se mi servo del suo nome, lo faccio in segno di rispetto, non per ambizione. Ma, lasciando da parte la questione del nome e la mia quota dell’eredità, c’è il lascito di Cesare ai cittadini. La loro ira, ritengo, è tale che…».
Ho riso di lui. «Ragazzo», ho detto, «questo è l’ultimo, piccolo consiglio che ti darò stamattina. Perché non torni ad Apollonia a leggere i tuoi libri? Sarai molto più al sicuro, laggiù. Io mi occuperò degli affari di tuo zio a modo mio, e quando ne avrò il tempo».
Non si riesce a offendere, quell’individuo. Mi ha rivolto il suo sorrisetto freddo e ha detto: «Sono lieto di sapere che gli affari di mio zio si trovano in mani come le tue».
Mi sono alzato dal tavolo e gli ho posato la mano sulla spalla, dicendo: «Bravo, figliolo. Ora farete bene a filare, mi aspetta un pomeriggio laborioso».
E così è finita. Credo che sappia cosa può aspettarsi e, secondo me, non oserà mai fare grandi piani. È un ometto pomposo, insignificante, e non conterebbe assolutamente nulla, se non avesse un certo diritto di servirsi di quel nome. Ciò, di per sé, non lo porterà molto lontano, ma è fastidioso.
Comunque, ora basta con questo argomento. Vieni a Roma, Senzio, e ti prometto di non dirti una sola parola di politica. Andremo a vedere uno spettacolo di mimi a casa di Amelia (dove, grazie alla speciale autorizzazione di un console, di cui non farò il nome qui, alle attrici è consentito esibirsi senza l’impedimento delle vesti), berremo tutto il vino che ci riuscirà di mandar giù, e gareggeremo per stabilire chi è considerato l’uomo migliore dalle fanciulle.
Vorrei però che il piccolo bastardo si allontanasse da Roma insieme ai suoi amici.
Quinto Salvidieno Rufo:
Appunti per un diario (44 a.C.)
Abbiamo incontrato Antonio. Sono timoroso: abbiamo un compito enorme. E contro di noi, ovviamente, ricorrerà a qualsiasi mezzo di cui disponga per fermarci. Ci ha fatto sentire quanto siamo giovani.
Ma è un uomo davvero imponente. Vanesio, ma con audacia. Toga bianca come una nuvola (da cui risaltavano le braccia brune e muscolose) con una fascia di un viola acceso delicatamente orlata d’oro; è grosso quanto Agrippa ma si muove come un gatto più che come un toro. Ha il viso olivastro, bello, cosparso di minuscole cicatrici qua e là, il naso sottile, meridionale, segnato da una frattura, le labbra piene, incurvate all’insù agli angoli, grandi e teneri occhi castani che possono balenare nell’ira, voce tonante che può travolgerti con il suo affetto o con l’impeto della rabbia.
Mecenate e Agrippa, ciascuno a suo modo, sono furenti. Mecenate in modo micidiale, gelido (quando fa sul serio lascia cadere ogni leziosaggine, e anche il suo corpo sembra indurirsi): non vede possibilità di conciliazione, anzi, non ne vuole. Agrippa, di solito così flemmatico, trema di rabbia, la faccia accesa, i pugni stretti. Ma Ottaviano (ora, in pubblico, dobbiamo chiamarlo Cesare), nel suo momento più difficile non sembra avere preoccupazioni. Anche suo zio era così quando si sentiva in pericolo? Abbiamo sentito degli episodi al riguardo.
Ottaviano non vuole parlare della mattinata. Di solito facciamo il bagno in una delle terme pubbliche, ma oggi andiamo a casa sua sul colle. Non vuole che facciamo commenti con gli estranei sulla mattinata appena trascorsa fino a quando non ne avremo discusso tra noi, dice. Giochiamo a palla per un po’ (nota: Agrippa e Mecenate sono tanto arrabbiati che giocano male, lasciano cadere la palla, la lanciano con noncuranza, eccetera. Ottaviano gioca calmissimo, ridendo, con grande abilità e grazia. Il suo stato d’animo mi contagia: danziamo intorno agli altri due, finché non sanno più se ce l’hanno con Antonio o con noi). Mecenate lancia la palla lontano e grida a Ottaviano: «Sciocco! Non ti rendi conto di cosa dobbiamo affrontare?».
Ottaviano smette di danzare qua e là, si sforza di assumere un’aria contrita, ride di nuovo, si avvicina a lui e ad Agrippa, gli mette le braccia sulle spalle, dice: «Scusatemi, ma non riesco a smettere di pensare al gioco con cui ci siamo divertiti stamane da Antonio».
Agrippa dice: «Non è stato un gioco. Quell’uomo era mortalmente serio».
Ottaviano, sempre sorridendo: «Naturale che faceva sul serio: ma non capite? Aveva paura di noi. Aveva più paura lui di noi che noi di lui, e non lo sa. Nemmeno se ne accorge. Questo è il bello».
Comincio a scuotere la testa, ma Agrippa e Mecenate stanno guardando Ottaviano in modo bizzarro. Un lungo silenzio. Mecenate annuisce, la faccia gli si spiana, alza le spalle e dice, fingendosi irritato: «Oh be’, se vuoi essere sacerdotale al riguardo e divinare il cuore degli uomini…». Di nuovo alza le spalle.
Andiamo a fare il bagno. Pranzeremo e parleremo dopo.
Siamo d’accordo: nessuna azione precipitosa. Parliamo di Antonio, sapendo che è il nostro vero ostacolo. Agrippa vede in lui la fonte del potere. Ma come arrivarci? Non abbiamo forze per strapparglielo, non potremmo anche se osassimo. Dobbiamo fare in modo che ci riconosca: questo sarà il nostro primo, minuscolo vantaggio. È troppo pericoloso organizzare un esercito adesso, sia pure per vendicare l’omicidio: la posizione di Antonio è troppo ambigua. Vuole vendicare l’omicidio quanto lo vogliamo noi, o vuole soltanto il potere? È persino possibile che sia stato lui uno dei cospiratori. In Senato ha votato a favore di un provvedimento che perdonava gli assassini e assegnava una provincia a Bruto.
Mecenate lo vede come un uomo molto energico e d’azione, ma incapace di concepire il fine a cui l’azione è diretta. «Complotta, non progetta», dice. A meno che non abbia un nemico ben visibile non si muoverà. Ma bisogna costringerlo a una mossa, altrimenti ci troviamo di fronte a uno stallo. Problema: come indurlo ad agire senza che si accorga di temerci?
Parlo con una certa esitazione. Mi giudicheranno troppo debole? Dico che, secondo me, Antonio vuole quello che vogliamo noi: potere, appoggio delle legioni, eccetera. È amico di Cesare. È brusco con noi, ha modi non perdonabili ma comprensibili. Dobbiamo aspettare. Convincerlo della nostra lealtà. Offrirgli i nostri servigi. Agire con lui, persuaderlo a usare i suoi poteri per raggiungere gli scopi di cui abbiamo parlato.
Ottaviano dice piano: «Non mi fido di lui, perché anche lui non si fida totalmente di se stesso. Rivolgerci ad Antonio significherebbe legarci troppo alla sua linea d’azione, e né lui né noi sappiamo con certezza dove lo stia portando. Se vogliamo essere liberi di fare quello che dobbiamo, bisogna costringerlo a venire dalla nostra parte».
Discutiamo ancora e, man mano, delineiamo un piano. Ottaviano deve parlare al popolo, qua e là, rivolgendosi a piccoli gruppi, niente di ufficiale. Ottaviano dice: «Antonio si è convinto che siamo degli ingenui, e per noi è un vantaggio». Quindi, non diremo niente di incendiario, ma ci limiteremo a chiederci a voce alta perché gli assassini non sono stati puniti, perché la donazione di Cesare al popolo non è stata rispettata, perché Roma ha dimenticato così presto.
E poi un discorso ufficiale alla plebe in cui Ottaviano annuncerà che Antonio non è in grado di reperire il denaro (o non è disposto a farlo?) per pagare i cittadini romani, e di conseguenza Ottaviano stesso, di tasca sua, darà loro ciò che Cesare aveva promesso.
Altre discussioni. Agrippa dice che in questo modo Ottaviano dilapiderà il suo patrimonio, se Antonio nel frattempo non avrà reperito i fondi, e in tal caso, se si rendesse necessario un esercito, saremmo indifesi. Ottaviano replica che senza la buona volontà del popolo un esercito sarebbe in ogni caso inutile, che compreremo il potere senza aver l’aria di volerlo, che in un modo o nell’altro Antonio sarà costretto ad agire.
È deciso. Mecenate preparerà il discorso, Ottaviano lo completerà, cominceremo domani. Ottaviano dice a Mecenate: «E ricorda, amico mio, che deve essere un discorso semplice, non un poema. In ogni modo sono certo che dovrò districare la tua prosa inimitabilmente labirintica».
Si sbagliano. Marco Antonio non ha paura di noi né di nessuno.
Lettera: Gaio Cilnio Mecenate a Tito Livio (13 a.C.)
Alcuni anni fa il mio amico Orazio mi spiegò come componeva una poesia. Avevamo bevuto un po’ e stavamo parlando seriamente: credo che la sua spiegazione di allora fu più esatta di quella contenuta di recente nella cosiddetta Epistola ai Pisoni, una poesia sull’arte poetica che, devo confessarlo, non mi piace particolarmente. Disse: «Decido di scrivere una poesia quando sono spronato da qualche forte stato d’animo, ma aspetto che lo stato d’animo diventi risoluzione. Poi immagino un fine, il più semplice possibile, verso cui quello stato d’animo possa progredire, anche se spesso non riesco a capire come ci riuscirà. Infine compongo la poesia, usando tutti i mezzi a mia disposizione. Li prendo in prestito da altri, se è necessario. Non ha importanza. Invento, se devo. Non ha importanza. Adopero la lingua che conosco, e lavoro entro i suoi limiti. Ma il punto è questo: il fine che scopro in ultimo, non è il fine concepito all’inizio. Poiché ogni soluzione implica nuove scelte, e ogni scelta pone nuovi problemi da risolvere, e così via. Nel profondo del cuore, il poeta si stupisce sempre della direzione presa dalla sua poesia».
Ho pensato a questa conversazione stamane, mettendomi a sedere per scriverti ancora una volta di quei primi tempi: mi sono detto che la descrizione di Orazio sul modo di comporre una poesia presentava certe analogie impressionanti con il modo che abbiamo noi di foggiare i nostri destini nel mondo (nonostante, se Orazio mi leggesse e ricordasse quanto disse, se la prenderebbe di sicuro, direbbe che sono tutte assurdità, che una poesia si compone trovando un tema, disponendolo nel modo opportuno, anteponendo questa immagine a quell’altra, disponendo il metro secondo un determinato significato della lingua, e così via).
Infatti il nostro stato d’animo – o, per meglio dire, lo stato d’animo di Ottaviano, da cui siamo stati travolti tutti, come il lettore è travolto da una poesia – fu causato dall’incredibile omicidio di Giulio Cesare: evento che, sempre più, sembrava avere distrutto il mondo. E il fine che noi concepimmo fu di vendicarci degli assassini, nell’interesse del nostro onore e di quello dello Stato. Tutto si riduceva a questo, o così sembrava. Ma gli dèi del mondo e gli dèi della poesia sono savi davvero: quante volte, infatti, ci salvano dagli scopi verso cui crediamo di tendere lottando!
Mio caro Livio, non voglio atteggiarmi a padre con te. Ma tu non venisti a Roma fino a quando il nostro Imperatore non ebbe realizzato il suo destino diventando padrone del mondo. Consentimi di dirti qualcosa di quei tempi, perché tu possa ricostruire, tanti anni dopo, il caos che trovammo a Roma.
Cesare era morto. Per «volere del popolo», dissero gli assassini: eppure dovettero barricarsi nel Campidoglio per difendersi da quello stesso popolo che aveva «imposto» il gesto. Due giorni dopo il Senato ringraziò gli uccisori e, in men che non si dica, approvò e rese legge quegli stessi provvedimenti che Cesare aveva proposto e per i quali era stato ucciso. Per quanto fosse stato terribile il loro misfatto, i cospiratori avevano agito con coraggio ed energia. Ma poi, una volta compiuto il primo passo, si erano dispersi come donne impaurite. Antonio, in quanto amico di Cesare, incitò il popolo contro gli assassini. Eppure, la sera precedente le Idi di marzo, aveva invitato a cena gli assassini stessi, era stato visto parlare con uno di essi (Trebonio) al momento dell’omicidio e poi, di nuovo, aveva cenato con quegli stessi uomini due sere dopo. Ancora una volta aizzò la plebaglia affinché appiccasse incendi e saccheggiasse per protestare contro l’omicidio, e poi approvò che i colpevoli di tali reati fossero arrestati e giustiziati. Fece leggere pubblicamente il testamento di Cesare. Ma poi si oppose con tutte le sue forze a che le sue ultime volontà fossero rispettate.
Soprattutto, sapevamo di non poter avere fiducia in Antonio, e lo conoscevamo come un avversario formidabile, non perché fosse scaltro e capace, ma per la sua sconsideratezza e la sua temerarietà. Infatti, nonostante l’altissima considerazione in cui lo tengono alcuni giovani, lui non era un uomo molto intelligente, non aveva alcun vero scopo a parte la sua volontà, e non era così coraggioso. Non riuscì a comportarsi bene nemmeno uccidendosi, e si uccise molto tempo dopo che la sua situazione era divenuta disperata: ormai era troppo tardi perché la cosa potesse essere fatta con dignità.
Come ci si oppone a un avversario che è del tutto irrazionale e imprevedibile, e che pure, grazie a un’energia animalesca e alla fortuita combinazione delle circostanze, ha conseguito il potere più spaventoso? (Ricordando la situazione, una cosa molto strana è che capimmo subito che il nostro vero avversario era Antonio, non il Senato, nonostante i nostri nemici più palesi si trovassero là. Credo fu l’istinto a dirci che, seppure un arraffone come Antonio fosse riuscito ad avere la meglio su di loro, noi non avremmo avuto difficoltà con lui, quando fosse arrivato il momento). Io non so in che modo ci si può opporre a un uomo come lui. So soltanto cosa abbiamo fatto noi. Lascia che te lo racconti.
Eravamo andati da Antonio, ma lui ci aveva congedati bruscamente. Era il personaggio più potente di Roma, noi non avevamo altro che un nome. Decidemmo che, per prima cosa, dovevamo ottenere il suo riconoscimento. Non eravamo riusciti ad averlo mediante approcci amichevoli: dunque, bisognava tentare con le prime ostilità.
Quindi, cominciammo a parlare con i suoi amici e i suoi nemici. O, meglio, cominciammo a fare domande, ingenuamente, come ci stessimo sforzando di capire cosa stava succedendo. Quando pensavano che Antonio avrebbe prestato attenzione al testamento di Cesare? Dove si trovavano i tirannicidi, Bruto, Cassio, gli altri? Antonio era passato dalla parte dei repubblicani, o continuava ad essere fedele al partito del popolo di Cesare? Cose di questo genere. E badammo bene a fare in modo che Antonio fosse a conoscenza di queste conversazioni.
A tutta prima non ci fu nessuna reazione da parte sua. Insistemmo. Poi, finalmente, ci riferirono la sua irritazione: cominciarono a circolare voci di insulti lanciati da lui contro Ottaviano. Queste accuse passarono di bocca in bocca. A quel punto, facemmo la mossa che doveva costringerlo a scoprirsi.
Con un po’ di aiuto da parte mia, Ottaviano aveva composto un discorso (può darsi che ne abbia una copia tra le mie carte: se il segretario riuscirà a trovarla, te la manderò) in cui, dolorosamente, annunciava al popolo come Antonio non gli consegnasse il patrimonio di Cesare, nonostante il testamento. Ma io, diceva Ottaviano, avendo assunto il nome di Cesare, manterrò ad ogni costo gli impegni dell’uomo di cui sono erede: quindi, verserò i denari di tasca mia. Il discorso fu pronunciato. In realtà non c’era niente di sovversivo nelle sue parole: il tono si limitava ad essere dolente, rammaricato e intriso di stupore innocente.
Ma Antonio agì in modo precipitoso, come noi avevamo sperato. Presentò subito al Senato una proposta di legge che avrebbe impedito l’adozione legale di Ottaviano, si alleò con Dolabella, allora console con lui, che era stato vicino ai cospiratori, si assicurò l’appoggio di Marco Emilio Lepido che, subito dopo l’omicidio, era fuggito da Roma, tornando alla sua legione in Gallia. Minacciò apertamente di sopprimere Ottaviano.
Ora, devi renderti conto del fatto che la posizione di molti dei soldati e dei cittadini era difficile, o per lo meno così sembrava. Quasi tutti i ricchi e i potenti avevano osteggiato Giulio Cesare e quindi erano contro Ottaviano. Quasi tutti i soldati e la classe media avevano amato Giulio Cesare e quindi erano a favore di Ottaviano, anche se sapevano che Marco Antonio era stato amico di Cesare. Ora stavano assistendo a quella che consideravano una lotta distruttiva tra le due sole persone in grado di prendere le loro parti contro i ricchi e gli aristocratici.
Accadde così che Agrippa, che conosceva meglio di tutti noi la vita, il gergo e il modo di pensare dei soldati, si recò tra gli ufficiali subalterni, i centurioni e i soldati semplici che sapeva essere veterani delle campagne di Cesare, e tra i suoi amici: li esortò ad avvalersi dei loro gradi e ad appellarsi alla lealtà di tutti per far cessare la battaglia tra Marco Antonio e Ottaviano. Sicura dell’affetto di Ottaviano e del fatto che Antonio non avrebbe potuto considerare i suoi tentativi una ribellione o un comportamento sleale, tutta questa gente si mosse.
Si trattava, penso, di parecchie centinaia. Per prima cosa andarono a casa di Ottaviano, sul colle. Era importante che si recassero anzitutto là, te ne renderai conto. Ottaviano si finse stupito, ascoltò le loro esortazioni a diventare amico di Antonio, e pronunciò un breve discorso in cui perdonava gli insulti e accettava la pace. Ci assicurammo che Antonio ne fosse informato: se i militari avessero marciato verso casa sua senza preavviso, avrebbe potuto facilmente equivocare e pensare che marciassero contro di lui, a causa delle minacce contro Ottaviano.
Ma Antonio sapeva del loro arrivo, e più volte ho tentato di immaginarne l’ira mentre li aspettava solo nell’enorme casa dove un tempo aveva abitato Pompeo e di cui lui si era impossessato dopo le Idi di marzo. Antonio sapeva di non avere altra scelta se non aspettare, e in quel momento, forse, si sarebbe potuto fare un’idea del corso che stava per seguire la sua vita.
Dietro suggerimento di Agrippa, i veterani insistettero perché Ottaviano li accompagnasse. Lui lo fece, ma non accettò di marciare al posto d’onore, anzi, si mise in coda alla colonna. Devo dire che Antonio si comportò piuttosto bene quando entrammo nel patio di casa sua. Uno dei veterani lo chiamò, lui uscì, salutò i soldati e ascoltò il discorso… anche se, quando accettò la conciliazione, sembrava un po’ brusco e imbronciato. Poi fu il momento di Ottaviano: salutò Antonio che ricambiò il saluto. I veterani applaudirono. Non ci trattenemmo là a lungo, ma io ero molto vicino ai due quando si incontrarono, e sono convinto che sul viso di Antonio, quando si strinsero la mano, c’era un sorriso leggermente risentito, ma allo stesso tempo di apprezzamento.
Quello fu il primo modesto potere che riuscimmo a conquistare. E su di esso edificammo.
Sono stanco, mio caro Livio. Ti scriverò ancora, presto, quando la salute me lo consentirà. Infatti c’è ancora qualcosa che devo dirti.
Post scriptum: Sono sicuro che sarai discreto nel servirti di quello che ti sto raccontando.
Lettera: Marco Tullio Cicerone
a Marco Giunio Bruto (settembre, 44 a.C.)
Gli avvenimenti di questi ultimi mesi mi hanno ridotto alla disperazione. Ottaviano litiga con Antonio: nutro speranza. Le loro divergenze vengono appianate, li si vede insieme: non posso non temere. Litigano ancora, corrono voci di complotti: rimango interdetto. Una volta di più riescono a far tacere le dispute: la gioia mi abbandona. Che cosa significa tutto ciò? Sanno dove stanno andando? Nel frattempo le loro contese e le loro riconciliazioni mantengono tutta Roma in tumulto e fanno sì che il ricordo dell’omicidio del tiranno viva nella mente di tutti. Così il potere e la popolarità di Ottaviano non fanno che crescere. A volte quasi mi persuado che possiamo avere giudicato male il ragazzo. Poi mi convinco che è soltanto il capriccio degli eventi a farlo apparire più capace di quanto sia. Non lo so. Tutto è troppo oscuro.
Ho ritenuto necessario prendere la parola contro Antonio, in Senato, anche se ciò può avermi fatto correre qualche pericolo. Ottaviano mi dà il suo appoggio nelle conversazioni private, ma non parla in pubblico. In ogni caso, Antonio sa ora che io sono il suo nemico implacabile. Ha proferito contro di me minacce tali che non ho osato pronunciare il mio secondo discorso in Senato. Ma sarà reso pubblico e il mondo lo conoscerà.
Lettera: Marco Tullio Cicerone
a Marco Giunio Bruto (ottobre, 44 a.C.)
Temerarietà, temerarietà! Antonio ha mobilitato le legioni macedoni e va a raggiungerle a Brindisi. Ottaviano sta arruolando i veterani in congedo delle legioni di Cesare in Campania. Antonio intende marciare in Gallia contro il nostro amico Decimo, in apparenza per vendicare l’omicidio ma in realtà per accrescere il suo potere impadronendosi delle legioni galliche. Corre voce che sfilerà attraverso Roma, per esibire la sua forza contro Ottaviano. Avremo di nuovo la guerra in Italia? Possiamo affidare la nostra causa a un ragazzo tanto giovane e con un nome come quello di Cesare (così si fa chiamare)? Bruto, dove sei adesso, mentre Roma ha bisogno di te?
Ordine consolare a Gaio Senzio Tavo,
comandante militare della Macedonia
ad Apollonia, accompagnato da una lettera
(agosto, 44 a.C.)
Per ordine di Marco Antonio, console del Senato di Roma, governatore della Macedonia, pontefice del Lupercale, e comandante in capo delle legioni macedoni, Gaio Senzio Tavo è incaricato con la presente di impartire disposizioni ai comandanti delle legioni macedoni di mobilitare le loro forze per prepararsi alla traversata fino a Brindisi, di compiere questa traversata non appena sia possibile, e di rimanere laggiù con le loro legioni in attesa dell’arrivo del comandante supremo.
Senzio: questo è importante. Ha trascorso parte dello scorso anno ad Apollonia. Può avere allacciato rapporti d’amicizia con alcuni ufficiali. Indaga molto attentamente al riguardo. Se ci sono elementi che sembrano inclini ad appoggiarlo, trasferiscili immediatamente, o sbarazzatene in qualche altro modo. Ma liberati di loro.
Libello distribuito
alle legioni macedoni a Brindisi (44 a.C.)
Ai seguaci dell’assassinato Cesare:
Marciate contro Decimo Bruto Albino in Gallia, o contro il figlio di Cesare a Roma?
Chiedetelo a Marco Antonio.
Siete stati mobilitati per distruggere i nemici del vostro comandante ucciso, o per proteggere i suoi assassini?
Chiedetelo a Marco Antonio.
Dove è finito il testamento del defunto Cesare che lasciava ad ogni cittadino di Roma trecento monete d’argento?
Chiedetelo a Marco Antonio.
Gli assassini di Cesare e coloro che cospirarono contro di lui sono liberi grazie a una legge del Senato approvata da Marco Antonio.
L’assassino Gaio Cassio Longino è stato nominato da Antonio governatore della Siria.
L’assassino Marco Giunio Bruto è stato nominato governatore di Creta da Marco Antonio.
Dove sono gli amici del trucidato Cesare tra i suoi nemici?
Il figlio di Cesare lo grida a voi.
Ordine di esecuzione, a Brindisi (44 a.C.)
A Gaio Senzio Tavo, comandante militare della Macedonia, da Marco Antonio, comandante in capo delle legioni.
Oggetto: Atti di tradimento nelle legioni IV e marziana.
I seguenti ufficiali saranno condotti al quartier generale del comandante in capo delle legioni, all’alba del dodicesimo giorno di novembre:
P. Lucio, Cn. Servio, S. Porzio, M. Flavio, C. Tizio, A. Mario.
A quell’ora di quel giorno gli uomini suddetti saranno giustiziati mediante decapitazione. Verranno inoltre scelti tramite estrazione a sorte quindici soldati per ciascuna delle venti coorti delle legioni IV e marziana: saranno giustiziati insieme agli ufficiali, nello stesso modo.
Tutti gli ufficiali e gli uomini di tutte le legioni macedoni hanno l’ordine di essere presenti e di assistere all’esecuzione.
Gli Atti di Cesare Augusto (14 d.C.)
Quando avevo diciannove anni, di mia iniziativa e a mie spese, organizzai un esercito mediante il quale restituii la libertà alla Repubblica, oppressa dalla tirannia di una fazione.