V
Il diario di Giulia, Pandataria (4 d.C.)
Conoscevo l’energia di Livia, e gli imperativi della politica di mio padre. L’ambizione di Livia per quanto concerneva suo figlio era la più ferma e la più straordinaria che avessi mai visto. Non l’ho mai capita, e presumo che non la capirò mai. Livia apparteneva alla stirpe Claudia. Suo marito aveva fatto parte della famiglia prima di mio padre, di cui Tiberio conservava il nome. Forse era stato l’orgoglio ispiratole da quell’antico nome a persuaderla degli alti destini di Tiberio. Ho persino pensato che potesse essere stata più affezionata all’ex marito di quanto desse a vedere, e che lo ritrovasse nel figlio. Era una donna fiera. Di quando in quando ho sospettato che potesse essersi sentita sminuita andando a letto con mio padre, il cui nome, in quel periodo, non era certo illustre quanto il suo.
Ottaviano aveva sognato che fosse Marcello, il figlio di sua sorella, a succedergli: per questo ero fidanzata con lui. Poi Marcello morì. Allora Ottaviano sognò che gli succedesse Agrippa, o almeno che uno dei miei figli (adottati da lui) potesse giungere a una maturità sufficiente per sostituirlo in modo adeguato nella sua missione. Agrippa morì e i miei figli continuavano ad essere dei fanciulli. Non restava nessun maschio nella discendenza di Ottaviano, e non c’era nessun altro in cui potesse riporre fiducia o su cui potesse esercitare un potere sufficiente. Rimaneva soltanto Tiberio, che detestava, nonostante fosse il suo figliastro.
Poco dopo la morte di Marco Agrippa, l’inevitabilità di quanto dovevo fare cominciò ad agire in me, come una ferita infetta la cui esistenza non volevo ammettere. Livia mi sorrideva con un’aria compiaciuta, come condividessimo un segreto. E soltanto quando arrivai al termine dell’anno di lutto mio padre mi convocò, per dirmi quanto sapevo già.
Mi venne incontro sin sulla porta di casa e congedò i servi che mi avevano accompagnato. Ricordo il silenzio della casa. Era pomeriggio inoltrato, ma sembrava non esserci anima viva, tranne lui.
Mi condusse attraverso il patio fino al minuscolo cubicolo della camera da letto, di cui si serviva anche come ufficio. La stanza era arredata in modo molto parsimonioso, con un tavolo, uno sgabello e un unico divano. Ci mettemmo a sedere e chiacchierammo per un po’. Si informò sulla salute dei miei figli e si lamentò perché non li portavo abbastanza spesso a fargli visita. Parlammo di Marco Agrippa. Mi chiese se continuavo ad affliggermi per lui. Non risposi. Dopo un silenzio piuttosto lungo, chiesi: «Dev’essere Tiberio, vero?».
Mi fissò. Trasse un profondo respiro, espirò e fissò il pavimento. Annuì. «Dev’essere Tiberio».
Sapevo che era così, lo sapevo già da prima. Eppure un turbamento, come una paura, mi dilagò dentro. Dissi: «Ti ho ubbidito in ogni cosa, sin da quando riesco a ricordare. Era il mio dovere. Ma questa volta sento di rasentare la disubbidienza».
Mio padre taceva. Aggiunsi: «Una volta mi dicesti di paragonare Marco Agrippa a certi miei amici che tu disapprovavi. Scherzai, ma feci il paragone, e devi conoscerne l’esito. Ora ti chiedo di paragonare Tiberio al mio defunto marito e di domandarti come potrei sopportare un simile matrimonio».
Lui alzò le mani, come per parare un colpo. Ma continuò a tacere. Dissi: «La mia vita è sempre stata al servizio della tua politica, della nostra famiglia, e di Roma. Non so cosa sarei potuta diventare. Forse una nullità. Ma forse…». Non sapevo che cosa dire. «Devo continuare così? Non mi concederai mai riposo? Devo dare la vita?».
«Sì», rispose. Continuava a non guardarmi. «Devi».
«Allora sarà Tiberio, questa volta».
«Sarà Tiberio».
«Conosci la sua crudeltà», osservai.
«La conosco», disse mio padre. «Ma so anche che tu sei mia figlia e che Tiberio non oserebbe farti alcun male. Ti troverai un’altra vita fuori del matrimonio. Con il tempo, ti ci abituerai. Finiamo tutti per abituarci alla nostra sorte».
«Non esiste nessun’altra via d’uscita?».
Si alzò dallo sgabello su cui era rimasto seduto e iniziò un andirivieni irrequieto. Notai che zoppicava in modo sempre più pronunciato.
«Se esistesse un’altra via d’uscita», disse, «ne approfitterei. Ci sono state tre congiure contro la mia vita dopo la morte di Marco Agrippa. Erano architettate stupidamente e mal dirette, di conseguenza è stato facile scoprirle ed eliminarle. Sono riuscito a mantenerle segrete. Ma ce ne saranno altre». Strinse il pugno e lo batté tre volte, morbidamente, sul palmo dell’altra mano. «Ce ne saranno altre. Gli anziani non dimenticano che è uno venuto su dal niente a governarli. Non sono disposti a perdonargli né la fama, né il potere. E Tiberio…».
«Tiberio appartiene alla stirpe Claudia», dissi.
«Sì. Questo matrimonio non renderà sicura la mia autorità, ma contribuirà almeno un po’ a farlo. I nobili diventeranno meno pericolosi, forse, convincendosi che uno dei loro, un membro della stirpe Claudia, potrebbe succedermi. Per lo meno, ciò gli consentirà di essere più pazienti».
«E si persuaderanno che farai di Tiberio il tuo successore?».
«No», rispose mio padre a voce bassa. «Ma si persuaderanno che potrei nominare mio successore un nipote della stirpe Claudia».
Fino a quel momento, nonostante avessi accettato come inevitabile l’idea del matrimonio, non ne avevo accettato la realtà.
Dissi: «Sicché devo essere di nuovo la troia da allevamento per il piacere di Roma».
«Si trattasse soltanto di me…», disse mio padre. Mi voltò le spalle. Non riuscivo a vederlo in faccia. «Si trattasse soltanto di me, non te lo chiederei. Non ti consentirei di sposare un uomo simile. Ma non esisto soltanto io. Questo lo hai sempre saputo, sin dall’inizio».
«Sì, l’ho sempre saputo».
Era come se stesse parlando con se stesso. «Hai avuto figli da un brav’uomo: ti sarà di conforto. Ricorderai tuo marito tramite i figli che ti ha dato».
Parlammo ancora quel pomeriggio, ma non riesco a ricordare che cosa dicemmo. Uno stordimento doveva essersi impadronito di me, credo, perché ricordo di non aver provato più nulla dopo il primo impeto di amarezza. Eppure non ce l’avevo con mio padre, perché faceva quanto doveva fare. Senza dubbio, fossi stata al suo posto mi sarei regolata nello stesso modo.
Ciononostante, quando arrivò il momento di andarmene, gli posi una domanda. Non gliela posi nell’ira, o nell’amarezza, e nemmeno con quello che sarebbe potuto sembrare autocompatimento.
«Padre», chiesi, «ne è valsa la pena? La tua autorità, questa Roma che hai salvato, questa Roma che hai edificato? Ha giustificato tutto quello che sei stato costretto a fare?». Ottaviano mi fissò a lungo, poi distolse lo sguardo. «Devo credere che sia così», rispose. «Dobbiamo crederlo entrambi».
Avevo ventotto anni quando fui unita in matrimonio a Tiberio Claudio Nerone. Entro un anno avevo compiuto il mio dovere e dato alla luce un figlio che aveva nelle vene il sangue della stirpe Claudia e della stirpe Giulia. Fu un dovere difficile da compiere, sia per Tiberio che per me. Oltretutto, risultò vano. Il bambino, infatti, morì una settimana dopo la nascita. Da allora in poi, Tiberio e io vivemmo separati. Lui rimase quasi sempre in paesi stranieri e io scoprii di nuovo un modo di vivere a Roma.
Lettera: Publio Ovidio Nasone
a Sesto Properzio (10 a.C.)
Perché ti scrivo dandoti notizie di questo luogo in cui hai fatto chiaramente capire di non voler tornare mai più? E per il quale, mi assicuri, non hai più il benché minimo interesse? Forse perché non mi fido della tua fermezza? Oppure perché mi limito a sperare (senza dubbio invano) di poterla scuotere? Nei cinque o sei anni trascorsi da quando te ne andasti dalla nostra città, non hai scritto nulla. E, nonostante tu dica che sei contento degli incanti agresti di Assisi e dei tuoi libri, non posso credere tanto facilmente che tu abbia dimenticato quella musa da te un tempo servita così bene. Ti aspetta a Roma, ne sono sicuro, e spero che vorrai tornare da lei.
È stata una stagione tranquilla. Un’adorabile donna (il cui nome devi conoscere, ma che non ti farò) è rimasta assente dalla nostra cerchia per più di un anno ormai, e tale assenza ha diminuito la nostra felicità e la nostra umanità. Vedova ancor giovanissima, fu persuasa a rimaritarsi. E sappiamo tutti che il nuovo matrimonio è stato per lei causa di grande infelicità. Sebbene importante, suo marito è l’uomo più severo e meno affabile che si possa immaginare. Non apprezza la gioia, e non la sopporta negli altri. È relativamente giovane, ha forse trentadue o trentatré anni, eppure, a parte l’aspetto, si potrebbe scambiarlo per un vecchione, tanto è irascibile e traboccante di astio. È, presumo, il tipo d’uomo molto comune a Roma cinquanta o sessant’anni fa, e molte delle «più antiche famiglie» lo ammirano soltanto per questo. Senza dubbio è un uomo di princìpi. Eppure ho notato che i saldi princìpi, uniti a un’indole astiosa, possono essere una virtù crudele e disumana. Con questi, infatti, è possibile giustificare quasi tutto ciò cui tale indole conduca.
Ma nutriamo speranze per l’avvenire. La donna di cui ti ho parlato ha dato di recente alla luce un figlio che è morto una settimana dopo la nascita. Il marito, a quanto risulta, si assenterà da Roma per certe imprese sulle frontiere settentrionali. E forse, una volta di più, avremo tra noi la donna la cui intelligenza, allegria e umanità possono condurre Roma fuori della buia ipocrisia del passato.
Non ti affliggerò, mio caro Sesto, con una delle mie disquisizioni, ma mi sembra sempre più vero, con il trascorrere degli anni, che quelle «virtù» antiche di cui i Romani si dicono tanto orgogliosi e su cui, insiste quell’uomo, è basata la grandezza dell’Impero… sempre e sempre più mi sembra che queste «virtù» del rango, del prestigio, dell’onore, del dovere e della religiosità, abbiano semplicemente spogliato l’uomo della sua umanità. Grazie alle fatiche del grande Ottaviano Cesare, Roma è adesso la più bella città del mondo. Non è forse vero che, ora, i suoi cittadini hanno modo di incamminarsi, come la città in cui vivono, verso una sorta di bellezza e di grazia mai conosciuta prima?
Lettera: Gneo Calpurnio Pisone
a Tiberio Claudio Nerone, in Pannonia (9 a.C.)
Mio caro amico, ti accludo i rapporti che mi hai chiesto. Provengono da tutta una serie di fonti che per il momento preferisco non nominare, nell’improbabile eventualità che occhi diversi dai tuoi possano leggere la presente. In certi casi, ho trascritto i rapporti alla lettera, in altri li ho riassunti. Ma le informazioni sono pertinenti e, puoi starne certo, i documenti originali si trovano in mio sicuro possesso, qualora tu possa desiderare, in un periodo successivo, avvalertene.
Questi rapporti concernono il periodo di un mese: novembre.
Il tre novembre, tra l’undicesima e la dodicesima ora, una lettiga portata dagli schiavi di Sempronio Gracco arrivò alla dimora della dama. La lettiga era evidentemente attesa, poiché la dama in questione uscì rapidamente dalla casa e fu portata, attraverso la città, alla villa di Sempronio Gracco, dove si era riunito un gruppo numeroso. Durante il banchetto, la dama condivise il divano di Gracco. Li si vide immersi in una lunga e intima conversazione. Non c’è nessun rapporto sul tenore di questa conversazione. I convitati bevvero parecchio vino per cui, al termine del banchetto, molti di loro erano smodatamente allegri. Il poeta Ovidio lesse per divertirli una sua poesia adatta all’occasione: quindi suggestiva e sconveniente. Dopo questa lettura, una compagnia di mimi recitò La moglie adultera, ma in modo molto più sfacciato del solito. Poi ci fu della musica. A un certo punto, durante il concerto, gli invitati cominciarono a uscire dal triclinio: tra di loro c’erano anche la dama in questione e Sempronio Gracco. La dama non si vide più sin quasi all’alba, quando salì sulla lettiga che l’attendeva davanti alla casa di Sempronio Gracco. Di là fu portata a casa sua.
Due giorni prima delle Idi di questo mese, la dama ricevette di sua iniziativa un gruppo di amici. Tra i visitatori di sesso maschile c’erano: Sempronio Gracco, Quinzio Crispino, Appio Claudio Pulcro e Cornelio Scipione. Tra gli ospiti meno importanti c’erano: il poeta Ovidio e il greco Demostene, figlio dell’attore, divenuto di recente cittadino di Roma. Le libagioni con vino cominciarono presto, poco prima dell’ora decima, e continuarono fino a notte alta. Nonostante numerosi ospiti si fossero congedati dopo la prima guardia, molti altri rimasero. Questi ritardatari, guidati dalla dama, lasciarono la casa e i giardini e si diressero in città, facendo fermare le lettighe tra i viali e gli edifici del Foro. Nonostante il posto a quell’ora fosse quasi deserto, alcuni cittadini, mercanti e vigili scorsero la comitiva e, se fosse necessario, potrebbero testimoniare. Le libagioni continuarono, e Demostene, il figlio dell’attore, per divertire gli altri pronunciò un’orazione burlesca dal rostrum di lato all’edificio del Senato. Fu un discorso improvvisato, e non poté essere trascritto. Ma parve mettere in satira il genere di discorsi che l’Imperatore ha pronunciato spesso nello stesso luogo. Dopo il discorso la comitiva si sciolse, e la dama tornò a casa sua accompagnata da Sempronio Gracco. Era quasi l’alba.
Nei sei giorni successivi non ci fu nulla di disdicevole nell’attività della dama. Partecipò a un banchetto ufficiale nella casa dei suoi genitori. Poi andò a teatro con sua madre e quattro anziane vergini Vestali. Quindi assistette ai Giochi Plebei, e rimase con circospezione nel palco insieme al padre e agli amici di lui, tra cui il console di quest’anno, Quinzio Crispino, e il proconsole Iullo Antonio.
Il quarto giorno dopo le Idi, fu ospite d’onore nella villa di Quinzio Crispino, a Tivoli. L’accompagnarono nel viaggio Sempronio Gracco, Appio Claudio Pulcro e un seguito di servi. Il tempo era mite, e il ricevimento ebbe luogo all’aperto e continuò fino a notte inoltrata. Bevvero molto vino, ci furono danzatori maschi e femmine (che non limitarono le loro esibizioni al palcoscenico costruito all’aperto, ma danzarono, quasi nudi, tra gli invitati che si aggiravano nei giardini), e suonatori di musica greca e orientale. A un certo punto molti ospiti (tra cui la dama in questione), sia maschi che femmine, si gettarono nella piscina. E, nonostante la luce delle torce fosse fioca, si poté vedere che si erano spogliati e stavano nuotando liberamente insieme. Dopo la nuotata, la dama fu vista addentrarsi nella parte boscosa dei giardini in compagnia del greco Demostene. Tornarono soltanto dopo parecchie ore. La dama rimase nella villa di Quinzio Crispino per tre giorni, e ogni sera fu molto simile alla precedente.
Confido, mio caro Tiberio, che questi rapporti possano esserti utili. Continuerò a procurarmi le informazioni da te richieste, con la maggior discrezione possibile. Puoi contare su di me in ogni eventualità.
Lettera: Livia a Tiberio Claudio Nerone,
in Pannonia (9 a.C.)
Devi ubbidire a quanto ti dirò adesso, e devi farlo subito. Distruggerai tutte le «prove» che hai raccolto così faticosamente, e farai sapere al tuo amico Calpurnio che non deve più fare niente del genere a tuo nome.
Se mi è lecito domandartelo, cosa ti proponevi di fare con queste «prove» che credi di avere? Vorresti forse avvalertene per un divorzio? E, in tal caso, sostenendo che il tuo «onore» è stato macchiato? O sogni di poter promuovere la tua causa mediante questo divorzio? Con ognuna di queste fantasticherie sei in errore, e in gravissimo errore. Il tuo «onore» non sarà macchiato finché tu rimarrai in terre straniere, poiché apparirà chiaro a tutti che in simili circostanze non puoi controllare tua moglie, tanto più perché stai servendo il tuo paese e il tuo Imperatore. Se, d’altro canto, verrà alla luce che hai raccolto «prove», conservandole fino a un momento propizio, passerai per sciocco, e perderai tutto l’onore che puoi esserti conquistato. Poi, se sogni di favorire la tua carriera insistendo sul divorzio, sbagli anche in questo. Una volta compiuto un simile passo, non sarai più legato a quel potere che abbiamo sognato entrambi. Tua moglie potrà essere «disonorata», ma tu non ne avrai ricavato niente. Anzi, avrai perso i nostri vantaggi iniziali.
In questo momento, è vero, sembra che tu non abbia nessuna possibilità di appagare la nostra comune ambizione. In questo momento persino Iullo Antonio, il figlio dell’antico nemico di mio marito, è stato portato più in alto di te, ed è vicino quanto te alla successione. Ma c’è il tuo nome. Mio marito è vecchio e non possiamo essere certi di ciò che il futuro porterà. La nostra arma deve essere la pazienza.
So che tua moglie è un’adultera. Probabilmente lo sa anche mio marito. Ma se invocherai le leggi che lui ha promulgato e lo costringerai a punire sua figlia, non ti perdonerà mai. Tanto varrebbe che non avessi mai compiuto sacrifici personali.
Dobbiamo aspettare. Se Giulia vuole disonorarsi, deve farlo lei stessa. Tu non dovrai essere implicato in alcun modo, e potrai evitarlo soltanto continuando a restare fuori d’Italia. Ti esorto a protrarre il soggiorno nella Pannonia fino a quando potrai. Fino a quando rimarrai lontano dalla tua casa, e lontano da Roma, la nostra causa vivrà.
Lettera: Marcella a Giulia (8 a.C.)
Giulia, mia cara, ti prego di venire a cena da noi mercoledì prossimo e di essere poi nostra ospite per un semplice intrattenimento. Saranno presenti alcuni dei tuoi amici (che sono anche i nostri)… senza dubbio Quinzio Crispino, e forse altri. E naturalmente potrai portare con te chiunque tu voglia.
Sono così lieta che siamo ridiventate amiche, dopo tanti anni. Ricordo spesso la nostra infanzia, con tanta tenerezza… tutti quei bambini! E i giochi con cui ci divertivamo! Tu, e il povero Marcello, e Druso, e Tiberio (scusami!) e le mie sorelle… non riesco neppur più a ricordarmi di tutti, ormai… Ricordi che persino Iullo Antonio abitò con noi per qualche tempo, dopo la morte di suo padre. Mia madre si prese cura di lui quando era piccolo, nonostante non fosse suo. E ora Iullo è mio marito. Che mondo strano. Abbiamo tante di quelle cose da ricordare insieme…
Oh, mia cara, so di essere stata io a causare il nostro distacco. Ma mi sentii in grande imbarazzo quando lo zio (tuo padre!) costrinse Marco Agrippa a divorziare da me per sposare te. Tu non ci avesti niente a che vedere, lo so, ma ero giovane, e sentivo che non avrei mai avuto un marito importante come lo era Marco. E ce l’avevo con te, nonostante sapessi che la colpa non era tua. Ma tutto finisce bene, l’ho sempre creduto. E forse zio Ottaviano fu più saggio di quanto possiamo sapere. Sono molto soddisfatta di Iullo. Oh, a dirti la verità, Giulia, sono più contenta con lui di quanto lo fossi con Marco Agrippa. È più giovane, più bello, e importante quasi quanto lo era Marco. O lo sarà, ne ho la certezza. Lo zio sembra volergli un gran bene.
Oh, quanto chiacchiero, non è vero? Sono sempre la stessa chiacchierona. Non cambiamo molto nel corso degli anni, ti pare? Spero proprio di non averti offesa con una qualunque delle cose che ho detto. Potrò non essere più assennata di quanto lo fossi in passato, ma sono più avanti negli anni e ho imparato che è stupido da parte delle donne serbare rancore a causa dei loro matrimoni. Non hanno niente a che vedere con noi, in realtà, non ti sembra? O almeno, così sembra a me.
Oh, devi assolutamente venire alla nostra festa. Se non verrai, tutti ne saranno distrutti. Devo mandarti a prendere da alcuni dei miei servi? O preferisci venire con i tuoi mezzi? Fammelo sapere.
E porta chiunque tu voglia… anche se avremo qui alcune persone molto interessanti. Ci rendiamo perfettamente conto della tua situazione.
Lettera: Gneo Calpurnio Pisone
a Tiberio Claudio Nerone, in Germania (8 a.C.)
Mi affretto a scriverti, amico mio, prima che tu riceva la notizia da altri e agisca senza quelle conoscenze che dovrebbero determinare ogni azione. Ho parlato con tua madre e, nonostante il recente disaccordo a causa dei «rapporti» da me inoltrati, ci troviamo, credo, pienamente d’accordo su quanto dovresti fare adesso. Devi capire che lei non può parlare direttamente: non vuole tradire la fiducia del marito, e non ti suggerirà in segreto ciò che non può consigliarti apertamente.
Tra pochi giorni riceverai dal tuo patrigno un messaggio in cui ti offrirà il consolato per il prossimo anno. Potrà farti piacere sapere che a me verrà proposto il consolato insieme a te. In tempi normali, e in circostanze normali, ciò potrebbe considerarsi un trionfo. Ma né i tempi né le circostanze sono normali, ed è essenziale che tu agisca con estrema cautela.
Naturalmente devi accettare il consolato: sarebbe impensabile rifiutarlo, e disastroso ai fini di ogni tua futura ambizione.
Ma non devi rimanere a Roma. Lo scopo del tuo patrigno, naturalmente, è quello di costringerti a ciò. Ma non devi. Prima di partire dalla Germania per l’insediamento in carica qui, dovrai disporre le cose in modo da far sì che divenga assolutamente necessario per te tornarvi al più presto possibile. Se non disponi di nessuno in cui poter riporre fiducia, dovrai volutamente schierare gli eserciti in una posizione pericolosa, tale da costringerti a fare ritorno per eliminare il pericolo. Sono certo che riuscirai a organizzare qualcosa.
Ora tenterò di spiegarti le ragioni che giustificano la linea d’azione in apparenza strana cui dovrai attenerti.
Tua moglie continua a vivere come ha fatto da più di un anno. Disprezza apertamente il vostro contratto di nozze e non si cura della tua reputazione. Ottaviano deve sapere qualcosa del suo comportamento, ma non fa nulla per impedirlo… a causa di considerazioni politiche, o dell’affetto, o della cecità: non lo so. Nonostante le leggi sul matrimonio (o forse proprio perché è stato l’Imperatore stesso a promulgarle), nessuno osa assumersi la parte di pubblico informatore. Tutti sanno che le leggi non vengono applicate, e sanno che sarebbe inopportuno insistere adesso sulla loro applicazione, specie tenendo conto del fatto che verrebbero applicate contro una donna potente e conosciuta come tua moglie.
Infatti lei è potente, e molto nota. Sia volutamente, sia per caso (ma sospetto che l’ipotesi valida sia la prima), ha riunito nella sua cerchia alcuni dei giovani più influenti di Roma. Il pericolo risiede proprio in questo.
Come ben saprai, il potere di cui disponi consiste nel tuo seguito, composto in vasta misura da famiglie come la mia, che rappresentano (per citare le parole del tuo patrigno) i «vecchi repubblicani». Siamo ricchi, abbiamo origini antiche e siamo uniti. Ma la politica, da quasi trent’anni a questa parte, è consistita nel fare in modo che il nostro potere fosse limitato.
Temo che l’Imperatore voglia farti tornare come una sorta di cuscinetto tra le fazioni, la sua e quella delle generazioni più giovani, da cui Giulia è particolarmente prediletta.
Se tornerai e ti lascerai porre tra di loro, verrai, né più né meno, stritolato o masticato. E poi sputato. E il tuo patrigno avrà eliminato un rivale pericoloso, con l’aria di non avere alzato neppure un dito. Quel che più conta, sarà riuscito a screditare un’intera fazione, senza averne mosso un altro. Infatti, fino a quando la fazione dei giovani ammira sua figlia, lui confida che il pericolo sia trascurabile.
Ma tu sarai distrutto.
Prendi in esame le possibilità. Primo: la stirpe Claudia e i suoi seguaci possono, sotto la nostra guida, divenire così potenti da ricondurre l’Impero sulla via seguita un tempo, e ristabilire gli antichi valori e ideali. Ciò è estremamente improbabile, e tuttavia ammetto che sia possibile. Ma se anche riuscissimo a far questo, con ogni probabilità avremmo unito contro di noi sia gli Uomini Nuovi del tuo patrigno, sia i Nuovi Giovani. Credo che dovremmo rabbrividire entrambi pensando alle conseguenze di una simile alleanza.
Secondo: se rimarrai a Roma, tua moglie continuerà ad agire contro i tuoi interessi… Non importa se con premeditazione o per capriccio. Lo farà di certo. Lei ritiene, è chiaro, che il suo potere provenga dall’Imperatore, non dal tuo nome o dalla tua posizione. È la figlia dell’Imperatore. Tu saresti impotente contro la volontà di lei e passeresti per sciocco, se ti ponessi contro di lei e non riuscissi a prevalere.
Terzo: il suo continuo abbandonarsi alle dissolutezze e ai vizi offrirà incessanti occasioni di pettegolezzi sia ai tuoi amici, sia ai tuoi nemici. Se dovessi reagire contro questo suo sistema di vita e insistere per ottenere il divorzio, sarebbe lo scandalo per la famiglia di Ottaviano, è vero. Ma ti assicureresti anche l’eterna avversione dell’Imperatore e di coloro che lo appoggiano. Se tu non reagissi contro il suo comportamento, passeresti per un debole: potresti persino essere accusato di complicità nelle sue trasgressioni della legge.
No, mio caro Tiberio, non devi tornare a Roma con l’intenzione di restarci, finché la situazione è questa. È una fortuna che io sia stato nominato console insieme a te. Durante la tua assenza, puoi star certo che tutelerò i tuoi interessi. È un’ironia che, indegno quale sono, possa farlo con più sicurezza e più efficacia di quanto riusciresti a farlo tu. Dimostra, nel modo più deprimente, quale corso abbiano seguito le nostre esistenze.
Tua madre ti saluta con affetto. Non scriverà fino a quando non avrai ricevuto il messaggio dell’Imperatore. Nonostante non lo dica apertamente, ho motivi validi per ritenere che approvi questo consiglio estremamente urgente che mi permetto di darti.
Lettera: Nicolao di Damasco
a Strabone di Amasia (7 a.C.)
Per quattordici anni sono stato lieto di risiedere a Roma, prima al servizio di Erode e di Ottaviano Cesare, poi del solo Imperatore e con la sua amicizia. Come forse avrai dedotto dalle mie lettere, avevo cominciato a pensare a questa città come al mio luogo di nascita. Ho quasi interrotto ogni rapporto con paesi stranieri e, dopo la morte dei miei genitori, non ho più sentito nessun desiderio o necessità di tornare nel paese dove nacqui.
Ma tra pochi giorni avrò cinquantasette anni e in questi ultimi mesi, o forse da più tempo, mi sono sentito sempre meno nella mia patria. Ho finito per sentirmi un estraneo in questa città che è stata così generosa con me e in cui ho stretto la più intima amicizia con alcuni degli uomini più grandi dei nostri tempi.
Forse mi sbaglio, ma a Roma sembra regnare un’atmosfera minacciosa di irrequietudine. Non si tratta di quell’irrequietezza incerta che devi aver conosciuto nei primi tempi del potere di Ottaviano Cesare, né dell’agitato entusiasmo che mi contagiò quando arrivai qui per la prima volta quattordici anni fa.
Ottaviano Cesare ha portato la pace a questo paese. Dopo Actium, nessun romano ha più alzato la spada contro suoi compatrioti. L’Imperatore ha dato prosperità alla città e alle campagne, nemmeno i più poveri tra la plebe mancano del cibo nella capitale, e chi risiede nelle province prospera grazie alla generosità di Roma e di Ottaviano Cesare. Quest’ultimo ha dato la libertà al popolo. Lo schiavo non deve più vivere nel timore di arbitrarie crudeltà da parte del suo padrone, né il povero ha da temere la venalità del ricco, o chi parli in modo responsabile le conseguenze delle sue parole.
Eppure esiste qualcosa di minaccioso nell’aria che, temo, è di cattivo augurio per l’avvenire della città, dell’Impero e del regno dello stesso Ottaviano Cesare. Fazioni si schierano contro altre fazioni, le dicerie abbondano, e nessuno sembra essere soddisfatto di vivere negli agi e nella dignità che l’Imperatore ha reso possibili. Questo è un popolo straordinario… Si direbbe che non possa sopportare la sicurezza, la pace e la prosperità.
Di conseguenza me ne andrò da Roma, da questa città che è stata la mia dimora per molti anni intensi. Tornerò a Damasco e vivrò gli ultimi giorni che mi restano tra i libri e tra le parole che riuscirò a scrivere. Lascerò Roma con sofferenza e affetto… Senza ira, né recriminazioni, né delusioni. E mi rendo conto, mentre scrivo questo, come in realtà sto dicendo che lascerò il mio amico Ottaviano Cesare, con questi sentimenti nel cuore. Poiché Ottaviano Cesare è Roma: e in ciò sta forse la tragedia della sua vita.
Oh, Strabone, a voler essere sincero sento che la sua vita è finita. In questi ultimi anni ha sopportato più di quanto chiunque possa sopportare. Sul suo volto c’è la compostezza disumana di chi sa che la propria esistenza è conclusa, e aspetta soltanto lo sfacelo della carne, preannuncio della morte.
Non ho mai conosciuto un uomo per cui l’amicizia rivestisse tanta importanza: e mi riferisco a un’amicizia tutta particolare. I suoi veri amici erano quelli che conobbe da giovane, prima di conquistare il potere di cui dispone adesso. Il potente, presumo, può riporre fiducia soltanto in coloro che conobbe, e dei quali poté fidarsi, prima di conquistare il potere. O forse la ragione è un’altra… Comunque, lui ora è solo. Non ha nessuno.
Cinque anni fa il suo amico Marco Agrippa, che aveva reso suo genero, morì solo dopo il ritorno in Italia da un paese straniero. Ottaviano Cesare non poté neppure dirgli addio. L’anno seguente, quella buona signora, sua sorella Ottavia, morì nell’amaro isolamento che aveva prescelto, lontano dalla città e dal fratello, in una semplice fattoria a Velletri. E ora anche l’ultimo dei suoi amici, Mecenate, è morto, e Ottaviano Cesare è solo. Nessun compagno di gioventù rimane in vita, e quindi non c’è nessuno di cui senta di potersi fidare. Nessuno con cui possa parlare delle cose che più gli stanno a cuore.
Incontrai l’Imperatore una settimana dopo la morte di Mecenate. Mi trovavo in campagna durante il deplorevole evento e mi affrettai a tornare non appena ne fui informato. Tentai di porgergli le mie condoglianze.
Mi fissò con quei limpidi occhi azzurri, così straordinariamente giovani nella faccia rugosa. Aveva un sorrisetto sulle labbra.
«Bene, la nostra commedia è quasi finita», disse. «Ma può esserci molta tristezza anche in una commedia».
Non sapevo che cosa dire. «Mecenate», cominciai, «Mecenate…».
«Lo conoscevi bene?», chiese Ottaviano.
«Lo conoscevo», risposi, «ma non troppo bene, credo».
«Pochi lo conoscevano a fondo», disse lui. «Non molti lo amavano. Ma ci fu un tempo in cui eravamo giovani, anche Marco Agrippa era giovane allora, ci fu un tempo in cui divenimmo amici, e io seppi che saremmo rimasti amici fino all’ultimo. Agrippa, Mecenate, io, Salvidieno Rufo. Anche Salvidieno è morto, ma morì molto tempo fa. Forse morimmo tutti allora, quando eravamo giovani».
Mi allarmai, perché non avevo mai sentito il mio amico parlare in modo incoerente, prima di allora. Dissi: «Sei disperato. È una grave perdita».
Continuò: «Ero con lui quando è morto. E c’era il nostro amico Orazio. Si è spento con molta serenità, ed è rimasto in sé fino all’ultimo. Abbiamo parlato dei vecchi tempi vissuti insieme. Mi ha pregato di occuparmi del benessere di Orazio. I poeti, ha detto, hanno cose più importanti cui pensare che badare a loro stessi. Orazio si è messo a singhiozzare, se non sbaglio, e si è allontanato. Mecenate ha detto di essere stanco, ed è morto».
«Forse era davvero stanco».
Ottaviano disse: «Sì, era stanco».
Tra noi discese il silenzio. Poi lui aggiunse: «E ci sarà qualcun altro, presto. Qualcun altro che è stanco».
«Amico mio…», mormorai.
Scosse la testa, sempre sorridendo. «Non mi riferisco a me. Gli dèi non saranno così generosi. Si tratta di Orazio. Ho visto l’espressione sulla sua faccia. “Virgilio e poi Mecenate”, ha detto. E qualche tempo dopo mi ha ricordato come una volta, molti anni fa, in una poesia (si stava burlando di una delle malattie di Mecenate), in una poesia avesse detto a Mecenate… chissà se riuscirò a ricordarmene?… “Nello stesso giorno verrà la terra ammonticchiata su di noi. Pronuncio il giuramento del soldato… Tu mi precederai e andremo insieme, pronti entrambi ad avanzare sulla strada che pone termine ad ogni strada, amici inseparabili…”. Non credo che Orazio gli sopravvivrà di molti mesi. Non lo desidera».
«Orazio», dissi io.
«Mecenate scriveva male», disse Ottaviano. «Glielo dicevo sempre che scriveva male».
Non riuscii a confortarlo. Due mesi dopo, Orazio era morto. Lo trovò un mattino il suo servo, nella piccola casa sopra il Digentia. Aveva il volto sereno, come fosse semplicemente assopito. Ottaviano fece sotterrare le sue ceneri accanto a quelle di Mecenate, all’estremità del colle Esquilino.
La sola creatura viva che ami, adesso, è sua figlia. E io temo per questo affetto, temo nel modo più disperato. Sua figlia, infatti, mese dopo mese sembra divenire sempre più noncurante della propria posizione. Il marito non vuole vivere con lei, e rimane in paesi stranieri nonostante sia console per quest’anno. Non credo che Roma possa sopportare la morte di Ottaviano Cesare, e non credo che Ottaviano Cesare possa sopportare la morte del proprio spirito.
Il diario di Giulia, Pandataria (4 d.C.)
Il modo di vivere che avevo a Roma, allora, era improntato alla più assoluta libertà. Tiberio si trovava fuori Italia e trascorse anche l’anno del consolato in Germania, organizzando laggiù gli avamposti contro le invasioni delle tribù barbare. Le poche volte in cui dovette tornare a Roma, mi fece una visita, e subito trovò il suo da fare altrove.
L’anno successivo al suo consolato, mio padre, di sua iniziativa, ordinò che venisse sostituito sul confine della Germania, e gli impose di fare ritorno ai propri doveri a Roma. Ma Tiberio rifiutò. Era, pensai, la cosa più ammirevole che avesse mai fatto. E quasi lo rispettai per il suo coraggio.
Scrisse a Ottaviano, spiegandogli che non intendeva dedicarsi alla vita pubblica, ed esprimendo il desiderio di ritirarsi nell’isola di Rodi, dove la sua famiglia possedeva vaste tenute, per impiegare il resto della sua vita studiando letteratura e filosofia. Mio padre si finse furente. Ma credo che fosse soddisfatto. Immaginava che Tiberio Claudio Nerone si fosse ormai reso utile ai suoi scopi.
Più volte mi sono domandata che cosa sarebbe stata la mia esistenza se mio marito avesse realmente pensato quanto scrisse a Ottaviano.