VI


Lettere: Nicolao di Damasco a Strabone di Amasia,

da Antiochia e da Alessandria (36 a.C.)

Mio caro Strabone, ho assistito a un evento della cui importanza soltanto tu, il più diletto dei miei amici, potrai renderti conto. Oggi, infatti, Marco Antonio, triumviro di Roma, è divenuto Imperatore d’Egitto… Re in effetti, nonostante non si faccia chiamare così. Si è unito in matrimonio con quella Cleopatra che è Iside incarnata, Regina d’Egitto e Imperatrice di tutte le terre del Nilo.

Ti do notizie che, presumo, nessuno a Roma ha ancora avuto, forse nemmeno quel giovane governante del mondo romano di cui mi hai scritto così spesso e che tanto ammiri. Infatti il matrimonio è stato improvviso, e reso noto anche qui in Oriente soltanto pochi giorni prima che avesse effettivamente luogo. Oh, mio vecchio amico, sarei quasi disposto a rinunciare a un parte della saggezza che io e te ci siamo impegnati tanto a ottenere, pur di poter vedere l’espressione della tua faccia in questo momento. Deve essere un’espressione di stupore…. O forse anche un pochino afflitta? Vorrai perdonarmi se mi burlo di te e ti stuzzico. Non so resistere alla tentazione di provocare quella che spero sia un’invidia bonaria, in colui la cui fortuna nel mondo ha fatto nascere in me lo stesso sentimento. Devi esserti reso conto, infatti, che le tue lettere da Roma mi hanno reso bonariamente invidioso. Quante volte, a Damasco, mi sono augurato di essere con te, nel «centro del mondo» come tu hai definito Roma, intento a conversare con i grandi uomini di cui parli con tanta frequenza e tanta intimità. Ora anch’io sono riuscito a farmi largo nel mondo: grazie a un colpo di fortuna cui ancora stento a credere, mi sono assicurato una posizione importantissima. Ora sono uno dei tutori dei figli di Cleopatra, maestro della biblioteca reale e direttore delle scuole della famiglia reale.

Tutto ciò è accaduto così in fretta che quasi non riesco a crederlo, e ancora non capisco del tutto le ragioni dell’incarico. Forse perché sono nominalmente ebreo, e ciononostante un filosofo, se pure non fanatico. E forse anche perché mio padre ha avuto qualche modesto rapporto d’affari con la corte di re Erode, che Marco Antonio ha riconosciuto di recente re di tutta la Giudea e con cui vuole vivere in pace. Può la politica gratificare un uomo così lontano da lei come sono io? Spero di essere troppo modesto. Mi piacerebbe poter pensare che la mia fama di studioso abbia avuto un peso decisivo nella faccenda.

In ogni modo, fui avvicinato da un emissario della Regina ad Alessandria, dove mi ero recato per certi affari di mio padre, approfittandone anche per servirmi della biblioteca reale. Fui avvicinato, e accettai subito. A parte i vantaggi materiali della posizione (che sono ragguardevoli), la biblioteca reale è la più importante che io abbia mai visto. Ora, potrò consultare continuamente manoscritti di cui pochi uomini si sono serviti, o che addirittura hanno mai visto.

Inoltre, ora che faccio parte della casa reale, mi reco dovunque vada la Regina. Così sono arrivato ad Antiochia tre giorni fa, nonostante i suoi figli siano rimasti nel palazzo di Alessandria. Non capisco bene perché le cerimonie siano state celebrate qui. Forse Antonio non vuole irridere troppo apertamente la legge romana, nonostante sembri aver legato le sue fortune all’Oriente (qual è, mi domando, la legalità romana in questa situazione dato che, a quanto si dice, Antonio non si è preoccupato di ottenere legalmente il divorzio dalla sua ex consorte?). O forse vuole soltanto far capire chiaramente agli Egiziani che non sta usurpando l’autorità della loro Regina Cleopatra. Oppure la cosa non riveste alcun significato.

Comunque sia, le cerimonie hanno avuto luogo. E, per tutto il mondo orientale, la Regina e Marco Antonio sono marito e moglie. Qualsiasi cosa possa pensare Roma, ora governano insieme questa parte del mondo. Marco Antonio ha annunciato pubblicamente che Cesarione (figlio, come è noto, del suo ex amico Giulio Cesare) erediterà il trono di Cleopatra, e che i gemelli della Regina devono essere considerati i suoi figli legittimi. Inoltre ha ampliato di parecchie volte l’estensione dei possedimenti dell’Egitto: ora la Regina governa sull’intera Arabia, comprese Petra e la penisola del Sinai. Sulla parte della Giordania che si estende tra il mar Morto e Gerico. Su alcune regioni della Galilea e della Samaria. Sull’intera costa fenicia. Sulle regioni più ricche del Libano, della Siria e della Cilicia. Sull’intera isola di Cipro e su una parte di Creta. Così io, che fui un tempo un siriano romano, ora potrei considerarmi un siriano egiziano. Ma non sono né una cosa né l’altra. Come te, mio vecchio amico, sono uno studioso che vorrebbe essere filosofo. E non sono più romano o egiziano di quanto Aristotele fosse greco, un greco che continuò sempre ad amare la sua natia Ionia e ad esserne fiero. Io emulerò il più grande degli uomini, e mi accontenterò di essere un figlio di Damasco.

Eppure, come tu stesso hai detto tante volte, il mondo degli affari è straordinariamente interessante. Forse nessuno di noi due, anche nell’arroganza della gioventù, avrebbe dovuto allontanarsene tanto per dedicarsi agli studi. Il viaggio per la via della conoscenza è lungo, e la meta lontana. Occorre visitare molti luoghi durante il tragitto, se si vuol riconoscere la meta, una volta raggiunta. Nonostante io abbia visto la Regina da lontano, ancora non mi è stata concessa un’udienza. Marco Antonio è onnipresente… Gioviale, alla buona, e per nulla scostante. È un po’ come un bambino, credo… Nonostante i capelli gli stiano diventando brizzolati e lui stia tendendo a ingrassare.

Credo che sarò di nuovo felice ad Alessandria, come lo fui ai tempi dei nostri studi.


Come mi sembra di averti accennato nell’ultima lettera, avevo visto la Regina soltanto da lontano… Alla cerimonia nuziale che la unì a Marco Antonio e alla potenza di Roma, una cerimonia cui poterono assistere soltanto coloro che facevano parte della casa reale.

Il palazzo di Antiochia non è imponente come quello di Alessandria, ma è abbastanza grande. Durante le nozze mi trovai pigiato nella ressa in fondo alla lunga sala, e potei vedere molto poco, nonostante fosse stata costruita una piattaforma d’ebano su cui si trovavano Cleopatra e Antonio. Tutto quello che riuscii a vedere della Regina fu la sua veste ingioiellata, che scintillava alla luce delle torce, e il grande disco d’oro, simbolo del sole, posto sulla sua corona. Cleopatra si muoveva adagio e con modi gravi, quasi fosse stata davvero la dea che proclama il suo titolo. Fu una cerimonia straordinariamente complessa (nonostante alcuni dei miei nuovi amici l’abbiano definita, in realtà, molto semplice), di cui non riesco a capire il significato. Sacerdoti sfilarono cantilenando vari incantesimi in quell’antica forma della lingua che sanno parlare soltanto loro. Ci furono unzioni con oli diversi. Furono agitate delle bacchette. Era tutto molto misterioso e (devo confessare che lo pensai) piuttosto incivile, quasi barbaro.

Per cui mi recai alla prima udienza con la Regina in preda a uno stato d’animo bizzarro, come stessi per trovarmi alla presenza di una Medea o di una Circe, né del tutto dea né del tutto donna, ma qualcosa di più innaturale dell’una e dell’altra.

Mio caro Strabone, non so dirti quanto rimasi piacevolmente sorpreso, e quanto fui felice del mio stupore. Mi aspettavo di trovarmi di fronte a una donna bruna di carnagione e piuttosto vigorosa, come quelle che si vedono nella piazza del mercato. Incontrai invece una donna esile, dalla carnagione chiara, i capelli castani e soffici, gli occhi enormi, dotata di un fascino straordinario. Mi mise subito a mio agio e mi invitò a sederle accanto su un divano non meno lussuoso del suo, quasi che io fossi stato ospitato da una famiglia semplice e cordiale. Parlammo a lungo degli argomenti intorno a cui si svolge ogni conversazione civile. Cleopatra ride con facilità e sommessamente, e sembra prestare un’attenzione totale al suo interlocutore. Parla il greco in modo impeccabile, il latino bene almeno quanto me, e si rivolge con noncuranza ai servi in un dialetto che non capisco. Ha letto molto, con intelligenza… Condivide persino la mia ammirazione per il nostro Aristotele, mi assicura di conoscere la mia opera sulla sua filosofia, e dice che leggerla gliel’ha resa più chiara.

Come sai non sono un uomo vanesio. E, anche se lo fossi, credo che la vanità sarebbe stata sopraffatta dalla mia gratitudine e dalla mia ammirazione per una donna così straordinaria. Il fatto che una creatura così incantevole possa governare uno dei paesi più ricchi del mondo è quasi incredibile.

***

Sono tornato ad Alessandria da tre settimane ormai, e ho cominciato a dedicarmi ai miei compiti. Marco Antonio e la Regina rimangono ad Antiochia, dove lui sta facendo i preparativi per marciare contro i Parti. Il mio lavoro non è gravoso. Dispongo di tutti gli schiavi che mi occorrono per la gestione della biblioteca della Regina, e i fanciulli impegnano soltanto una piccola parte del mio tempo.

I gemelli, Alessandro del Sole e Cleopatra della Luna, hanno tre anni e pochi mesi e di conseguenza non si può ancora insegnargli niente. Ma sono stato pregato di parlare con loro ogni giorno almeno per qualche momento, in greco e (ha insistito la Regina) anche in latino, in modo tale che, quando cresceranno, i suoni di queste lingue non gli siano troppo nuovi.

Ma Tolomeo Cesare, chiamato Cesarione dal popolo, cha ha quasi dodici anni, è tutt’altra cosa. Anche se non lo avessi saputo, credo che avrei potuto supporre fosse il figlio del grande Giulio Cesare. Si rende conto del proprio destino, ed è preparato. Giura di ricordare il padre nella casa di sua madre a Roma, subito prima dell’omicidio, nonostante ai tempi della tragedia non avesse nemmeno quattro anni. È un ragazzo serio, del tutto incapace di allegria e stranamente concentrato, qualsiasi cosa faccia. È come se non avesse mai avuto una fanciullezza e non volesse averla. Parla della Regina quasi non si trattasse di sua madre, ma solo di una potente sovrana. Aspetta il giorno della sua assunzione al trono non con impazienza, ma con la stessa certezza con cui può aspettarsi lo spuntar del sole al mattino. Mi spaventerebbe un po’, credo, se dovesse detenere gli enormi poteri di cui dispone adesso sua madre.

Ma è uno studente zelante, ed è un piacere insegnargli.

***

Per quelli che attribuiscono importanza a queste cose, l’inverno è stato infausto… Non ha piovuto quasi mai, quindi i raccolti saranno scarsi quest’anno. E una serie di cicloni ha spazzato i territori della Siria e dell’Egitto da Est, distruggendo interi villaggi prima di esaurire il suo impeto sul mare. Antonio ha marciato da Antiochia contro i Parti con quello che si dice il più grande corpo di spedizione dai tempi del macedone Alessandro il Grande, il cui sangue (dicono) scorre nelle vene di Cleopatra. Più di sessantamila provati veterani, diecimila cavalleggeri venuti dalla Gallia e dall’Iberia e trentamila uomini dei reparti ausiliari, reclutati nei regni delle province orientali, in appoggio alle truppe regolari. Il mio giovane Cesarione, con l’innocente crudeltà dei fanciulli (di recente ha cominciato a interessarsi all’arte della guerra), dice che un esercito simile è sprecato contro i barbari dell’Oriente. Dice che se il re fosse lui – come la guerra fosse davvero quel gioco che gli appare adesso – dirigerebbe l’esercito a Occidente, dove ci sono più ricchezze da saccheggiare.

La Regina ha fatto ritorno da Antiochia passando per Damasco, e rimarrà ad Alessandria fino a quando Antonio non avrà portato a termine la campagna contro i Parti. Sapendo che Damasco è la città dove sono nato, è stata così cortese da chiamarmi nel suo appartamento per riferirmi le notizie. È straordinario fino a che punto i grandi possano essere premurosi e umani. A Damasco, infatti, si era incontrata con re Erode per certi affari a proposito dei redditi di alcuni campi di balsamo. Ricordando una precedente conversazione con me, si è informata sulla salute di mio padre, e ha pregato Erode di fargli avere i saluti di suo figlio e della Regina.

Non ho più avuto sue notizie da quando gli sono stati mandati questi saluti, ma sono certo che ne sarà soddisfatto. Sta invecchiando, e si indebolisce. Presumo che nella vecchiaia si contempli il proprio passato domandandosi se valga qualcosa, e si senta il bisogno della bontà di una qualche assicurazione.

Lettera: Marco Antonio a Cleopatra,

dall’Armenia (novembre, 36 a.C.)

Mia cara moglie, ringrazio i miei dèi romani e i tuoi dèi egiziani se non ho ceduto ai miei desideri e alla tua determinazione di accompagnarmi in questa campagna. È risultata ancor più difficoltosa di quanto prevedessi. E sembra chiaro che quanto avevo sperato potesse concludersi entro l’autunno dovrà inevitabilmente aspettare fino alla primavera.

I Parti sono un avversario astuto e ricco di risorse e hanno sfruttato il terreno in modo più intelligente di quanto io potessi prevedere. Le carte disegnate da Crasso e Ventidio nel corso delle loro campagne si sono dimostrate peggio che inutili. Tradimenti in alcune legioni delle province hanno danneggiato la nostra causa. E queste regioni abominevoli non forniscono viveri a sufficienza per poter mantenere in buona salute le mie legioni durante l’inverno.

Ho interrotto così l’assedio di Phraaspa, dove non avremmo potuto resistere al freddo, e per ventisette giorni abbiamo marciato attraverso il paese, sin quasi al mar Caspio. Ora riposiamo nella relativa sicurezza dell’Armenia, nonostante siamo sfiniti e le malattie dilaghino nell’accampamento.

Eppure, nonostante tutto, credo che la campagna sia stata un successo, anche se temo che molti dei miei stanchi soldati non concorderebbero con me. Ormai conosco le astuzie dei Parti. E abbiamo tracciato carte del territorio abbastanza precise perché possano esserci utili l’anno prossimo. Ho mandato a Roma le notizie della nostra vittoria.

Ma tu devi capire che, nonostante i successi tattici della campagna, adesso mi trovo nelle più disperate difficoltà. Non possiamo restare in Armenia. Non mi fido appieno del mio anfitrione, il re Artavasde, che mi abbandonò in un momento cruciale nella Parthia, nonostante io non possa rimproverarlo, in quanto siamo suoi ospiti. Di conseguenza, andrò in Siria con alcune legioni, mentre il resto dell’esercito mi raggiungerà quando si sarà ripreso.

Per resistere all’inverno, anche in Siria ci occorreranno rifornimenti: adesso siamo come accattoni. Avremo bisogno di viveri, vestiario e di tutto il materiale necessario per riparare le nostre macchine da guerra danneggiate. Inoltre avremo bisogno di cavalli per sostituire quelli persi in battaglia o uccisi dalle intemperie, così da poter continuare l’addestramento in vista della campagna della prossima primavera. E devo avere denaro. I miei soldati non sono stati pagati per mesi, e alcuni minacciano una rivolta. Tutto ciò ci occorrerà al più presto. Allego a questa lettera un elenco particolareggiato delle cose che devo assolutamente avere, e un elenco supplementare di quanto può rendersi necessario più avanti nell’inverno. Non posso esagerare lo stato di bisogno in cui ci troviamo.

Sverneremo nel piccolo villaggio di Leuke Kome, subito a sud di Beirut. Forse non ne avrai mai sentito parlare. Gli approdi qui sono sufficienti per le navi che manderai. Sii prudente. Per quello che ne so io, i folli Parti potrebbero già presidiare le coste quando riceverai questa lettera. Ma non dovrebbe esserci pericolo di un blocco a Leuke Kome. Confido che questa lettera ti giungerà presto, per quanto tempestosi possano essere i mari invernali. Senza rifornimenti, non riusciremo a resistere ancora per molte settimane.

Fuori della tenda sta nevicando, per cui la piana su cui siamo accampati è invisibile. Non riesco a vedere nessun’altra tenda. Non riesco a udire alcun suono. Ho freddo, e nel silenzio sono ancor più consapevole della solitudine di quanto tu possa immaginare. Anelo al tepore delle tue braccia e all’intimità della tua voce. Vieni da me in Siria con le tue navi. Io devo restare qui con le truppe, altrimenti si disperderebbero prima della primavera, e tutti i nostri sacrifici sarebbero stati vani. Pure, non posso sopportare un altro mese senza te. Vieni da me e faremo di Beirut un’altra Antiochia, o una Tebe o un’Alessandria.

Rapporto: Epimachos, Alto Sacerdote di Eliopoli,

a Cleopatra, dall’Armenia (novembre, 36 a.C.)

Venerabile Regina: nessun uomo è più coraggioso di quel Marco Antonio che tu hai onorato con la tua presenza e innalzato al tuo fianco così da dominare il mondo. Si batte con più prodezza di quanta la prudenza dovrebbe consentire, e sopporta privazioni e stenti tali da distruggere il più incallito dei soldati semplici. Ma non ha le doti di un generale, e la campagna è stata un disastro.

Se quanto ti riferisco contraddice ciò che puoi aver saputo da altre fonti, devi sapere che scrivo con amicizia per tuo marito, con rispetto per te, e con ansia per l’Egitto e le sue sorti future.

In primavera avanzammo da Antiochia su Zeugma lungo il fiume Eufrate, e di là a Nord, sempre seguendo quel fiume, dove i viveri abbondavano, fino allo spartiacque tra l’Eufrate e il fiume Araxes, e poi in direzione Sud verso la cittadella parta di Phraaspa. Ma, prima di giungere a Phraaspa, per guadagnare tempo Marco Antonio divise il suo esercito, facendo proseguire la colonna dei rifornimenti, con i viveri e i bagagli, gli arieti e i carri d’assedio, lungo un itinerario più pianeggiante, mentre il grosso dell’esercito si portava rapidamente verso la sua meta.

Mentre l’esercito avanzava in sicurezza, però, i Parti calarono dalla montagna sulla colonna più lenta che avevamo diviso da noi. Ci giunsero notizie dell’attacco, ma quando arrivammo lì era troppo tardi per salvare qualsiasi cosa. La scorta era stata massacrata, i nostri rifornimenti bruciati, i carri d’assedio e le macchine di guerra… Tutto distrutto, e soltanto alcuni soldati rimanevano illesi dietro fortificazioni approntate in gran fretta. Allora disperdemmo i Parti che, una volta arrecato il danno, si ritirarono prudentemente tra i monti ben noti, dove noi non osammo seguirli.

Questa fu la «vittoria» che Marco Antonio riferì a Roma. Contammo i cadaveri di ottanta Parti.

Nonostante la distruzione di tutte le nostre macchine d’assedio, di tutti i nostri rifornimenti e dei viveri, Marco Antonio si ostinò ad assediare la città di Phraaspa. Anche se quest’ultima non fosse stata preparata a difendersi, il compito sarebbe risultato quasi impossibile, in quanto disponevamo soltanto delle armi che portavamo al fianco. Non riuscimmo a indurre il nemico ad affrontarci in campo aperto. Quando andavamo a fare incetta di viveri, i distaccamenti venivano attaccati dagli arcieri parti, che apparivano dal nulla per uccidere e poi di nuovo scomparivano. L’inverno intanto si avvicinava. Ci ostinammo per due mesi. Infine Antonio ottenne dal re Phraates la promessa che ci sarebbe stato consentito di ritirarci dal suo paese senza essere ostacolati. Così, a metà ottobre, affamati e spossati, iniziammo la ritirata per tornare nel posto da cui eravamo partiti cinque mesi prima.

Per ventisette giorni, in un gelo tagliente, tra tormente di neve e venti turbinosi, arrancammo oltre le montagne e su pianure non protette, e per ben diciotto volte fummo attaccati dagli arcieri a cavallo del perfido Phraates. Ci piombavano addosso da ogni lato, sulle nostre retroguardie, sui fianchi, sulle avanguardie. Scoccavano le frecce prima che potessimo prepararci alla difesa, e poi tornavano indietro, nelle loro barbare tenebre, mentre il povero animale cieco che era stato la loro vittima proseguiva barcollante.

Proprio nei giorni spaventosi della ritirata, il tuo Marco Antonio diede la prova di essere l’uomo che è. Sopportò le stesse privazioni dei suoi uomini. Non accettò altro cibo che quello distribuito ai suoi compagni d’arme, ridotti a rosicchiare radici e a cercare insetti nel legno putrido. Né volle indossare indumenti più caldi di quelli che indossassero loro stessi.

Ora siamo in Armenia, ma non possiamo restarci. Il sovrano di questo paese, nominalmente nostro alleato ma ancor più infido dell’avversario, ci ha dato un po’ di viveri. Partiremo presto per la Siria. Ma ho fatto un resoconto delle nostre perdite e te lo comunico.

In questi cinque mesi abbiamo perso quasi quarantamila uomini, molti dei quali colpiti dalle frecce dei Parti ma molti di più uccisi dal freddo e dalle malattie. Di questi, ventiduemila erano veterani romani di Antonio, i migliori guerrieri del mondo, si dice. E non possono essere sostituiti se Ottaviano Cesare non lo consentirà: ma è improbabile. In pratica tutti i cavalli sono persi. Non abbiamo riserve di materiale. Non abbiamo vestiario, tranne gli stracci che indossiamo. Non abbiamo viveri, tranne quanto si trova nei nostri ventri.

Per cui, venerabile Regina, se vuoi salvare anche soltanto una parte dell’esercito, devi accogliere la richiesta di rifornimenti fatta da tuo marito. Per orgoglio, lui può non volerti far sapere, temo, quanto la nostra situazione sia disperata.

Memorandum:

Cleopatra al ministro dei rifornimenti (36 a.C.)

Con la presente sei autorizzato a procurare e a preparare per la spedizione via mare all’Imperatore Marco Antonio nel porto di Leuke Kome, in Siria, quanto segue:

• Aglio, 3 tonnellate

• Frumento o grano farro, a seconda delle disponibilità, 30 tonnellate

• Pesce salato, 10 tonnellate

• Formaggio (di capra), 45 tonnellate

• Miele, 600 barili

• Sale, 7 tonnellate

• Pecore, pronte per la macellazione, 600

• Vino acido, 600 botti.

Oltre a quanto sopra: se esistono quantitativi rilevanti di eccedenze di legumi secchi nei silos, dovrai comprenderle nella spedizione. Se non esistono, ti limiterai a quanto scritto sopra.

Dovrai inoltre procurare:

• un quantitativo sufficiente di stoffa di lana pesante di seconda qualità (240mils metri di tessuto doppia altezza) per ricavarne 60mila mantelli invernali;

• un quantitativo sufficiente di tessuto di lino ruvido (120mila metri, di altezza media) per un ugual numero di tuniche militari;

• un quantitativo sufficiente di cuoio (morbido) di cavallo o vitello (duemila pelli) per la lavorazione di altrettante paia di calzature.

La rapidità è importantissima. Dovrai assegnare un numero sufficiente di sarti e di calzolai alle navi adatte affinché la lavorazione del vestiario e delle calzature possa essere iniziata qui e completata durante una traversata di otto-dieci giorni.

Le navi (dodici, in attesa nel porto reale) saranno pronte a salpare fra tre giorni: entro allora tutti i rifornimenti dovranno essere reperiti e il carico completato. Un tuo insuccesso attirerà su di te il corruccio della Regina.

Memorandum:

Cleopatra al ministro delle finanze (36 a.C.)

Nonostante Marco Antonio o il suo rappresentante potrebbero farti ordini o richieste in questo senso, non verserai denaro della tesoreria reale senza l’esplicita approvazione e autorizzazione della tua Regina. Approvazione e autorizzazione dovranno essere onorate soltanto se consegnate personalmente da un rappresentante a te noto della Regina stessa, e soltanto se vi figurerà il sigillo reale.

Memorandum: Cleopatra

ai generali dell’esercito egiziano (36 a.C.)

Nonostante Marco Antonio o il suo rappresentante potrebbero farvi ordini o richieste in questo senso, non dovrete né assegnare né promettere truppe dell’esercito egiziano senza l’esplicita approvazione e autorizzazione della vostra Regina. Autorizzazione e approvazione dovranno essere onorate soltanto se consegnate personalmente da un rappresentante a voi noto della Regina stessa, e soltanto se vi figurerà il sigillo reale.

Lettera: Cleopatra a Marco Antonio,

da Alessandria (inverno, 35 a.C.)

Mio caro marito, la Regina ha ordinato che le necessità del tuo coraggioso esercito siano evase. E tua moglie, come una fanciulla tremante, vola incontro a te, con tutta la rapidità con cui potrà portarla l’incerto mare invernale. Infatti, nel momento stesso in cui leggerai questa lettera, lei si troverà senza dubbio sulla prua della nave in testa al convoglio dei rifornimenti, aguzzando invano gli occhi per scorgere la costa siriana dove colui che l’ama l’aspetta, infreddolita a causa dell’inverno, ma ardente nell’aspettativa delle braccia del suo amore.

Come Regina esulto per il tuo successo, come donna deploro la necessità che ci ha tenuto lontani. Eppure in questi giorni frenetici da quando ho ricevuto la tua lettera, sono giunta alla conclusione (posso mai sbagliarmi?) che finalmente donna e Regina possano divenire una cosa sola.

Ti persuaderò a tornare con me nel tepore e negli agi di Alessandria e a rimandare il completamento del tuo trionfo in Parthia. Sarà mio piacere persuaderti come donna. È mio dovere persuaderti come Regina.

I tradimenti a cui hai assistito in Oriente hanno avuto origine in Occidente. Ottaviano continua a complottare contro di te, e ti diffama con coloro la cui salvezza consiste nell’amarti. So che ha tentato di indurre alla rivolta Erode. E sono certa, in base a tutte le informazioni che ho, che il responsabile della diserzione delle legioni provinciali che ha ostacolato il tuo successo in Parthia sia lui. Devo convincerti che ci sono barbari a Roma oltre che in Parthia. Il loro abuso della tua lealtà e del tuo buon carattere è più pericoloso di qualsiasi freccia dei Parti. In Oriente c’è soltanto bottino, in Occidente c’è il mondo e un potere tale che soltanto i grandi possono concepirlo.

Ma anche in questo momento la mia mente si distrae da quanto dico. Penso a te, il più potente degli uomini… E sono di nuovo donna, non mi curo di regni, guerre, potere. Vengo da te, finalmente, conto le ore come fossero giorni.

Lettera: Gaio Cilnio Mecenate a Tito Livio (12 a.C.)

Con quale delicatezza esprimi le cose, mio caro Livio. Eppure, sotto questa delicatezza, quanto sono chiare le tue alternative brutali! Fummo «ingannati» (e di conseguenza sciocchi), oppure «nascondemmo» qualche informazione (e fummo di conseguenza bugiardi)? Risponderò assai meno delicatamente della tua domanda.

No, mio vecchio amico, non fummo tratti in inganno per quanto concerneva la Parthia. Come avremmo potuto esserlo? Ancor prima di ricevere la relazione di Antonio sulla campagna, conoscevamo la verità. Mentimmo al popolo romano.

Devo dire che la tua domanda mi offende assai meno di quanto vedo nascondersi dietro di essa. Hai dimenticato che anch’io sono un artista, e quindi conosco la necessità di domandare quelle cose che alle persone comuni sembrerebbero le più offensive e presuntuose. Come potrei offendermi per quello che io stesso farei, senza la benché minima esitazione, per amore della mia arte? No, è quanto intuisco nel tenore della tua domanda a offendermi. Mi sembra infatti (spero di sbagliare) di percepire l’odore di un moralista. E mi sembra che il moralista sia la più inutile e la più spregevole delle creature. È inutile, poiché sperpera le sue energie emettendo giudizi anziché acquisendo conoscenze. Infatti giudicare è facile, conoscere è difficile. È spregevole poiché i suoi giudizi rispecchiano una visione di se stesso che, nella sua ignoranza e nel suo orgoglio, vorrebbe imporre al mondo. Ti imploro, non diventarmi un moralista: distruggerai la tua arte e la tua intelligenza. E sarebbe un pesante fardello da sopportare, anche per la più profonda delle amicizie.

Come ho detto, mentimmo. Se ti espongo le ragioni della menzogna, non lo faccio per difenderla. Lo faccio per ampliare la tua comprensione e la tua conoscenza del mondo.

Dopo la disfatta nella Parthia, Antonio inviò al Senato un dispaccio descrivendo la propria «vittoria» nei termini più entusiastici e generici, e chiese, nonostante in absentia, la cerimonia del trionfo. Accettammo la menzogna, la prendemmo per buona, e gli concedemmo il trionfo.

L’Italia era stata devastata da guerre civili per due generazioni. La storia immediata di un popolo forte e fiero era una storia di sconfitte, poiché nessuno è vittorioso in una guerra civile. Dopo la sconfitta di Sesto Pompeo la pace sembrava possibile: la notizia di un disastro così schiacciante poteva essere semplicemente catastrofica, sia per la stabilità del nostro governo, sia per il morale della popolazione. Un popolo, infatti, può sopportare una serie quasi incredibile di insuccessi senza cedere. Ma, se gli si dà respiro e gli si lascia intravedere qualche speranza per il futuro, può non sopportare un inaspettato rifiuto di tale speranza.

C’erano anche ragioni più particolari per giustificare la menzogna. La sconfitta di Sesto Pompeo era accaduta solo poco tempo prima che ricevessimo le notizie dalla Parthia. Le legioni ausiliarie erano state sciolte e gli uomini si erano stabiliti nelle terre promesse. La prospettiva di un loro possibile richiamo avrebbe fatto crollare completamente il valore dei terreni fuori Roma, e si sarebbe dimostrata disastrosa per un’economia già tanto precaria.

Infine, e soprattutto, nutrivamo ancora qualche speranza che Antonio potesse distogliersi dal suo sogno di un Impero orientale e divenire nuovamente romano. Si trattava di una speranza vana, ma allora sembrava ragionevole. Rifiutargli il trionfo, dire la «tua» verità a tutta Roma, gli avrebbe reso impossibile per sempre il ritorno con onore o in pace.

Nel mio resoconto ho sempre parlato al plurale. Ma devi capire che, per quasi tre anni dopo la disfatta di Sesto Pompeo, Ottaviano e Agrippa si trovarono a Roma solo occasionalmente. Trascorsero quasi tutto il loro tempo in Illiria, rendendo sicuri i nostri confini e soggiogando le tribù barbare che sino ad allora avevano liberamente vagabondato nelle regioni costiere della Dalmazia e persino saccheggiato villaggi sulla stessa costa adriatica dell’Italia. In quel periodo mi era stato affidato il sigillo imperiale di Ottaviano. Queste decisioni, dunque, furono mie, anche se, e sono orgoglioso di dirlo, vennero approvate in tutti i casi dall’Imperatore, sia pure in seguito. Ricordo che una volta Ottaviano tornò a Roma per breve tempo, per rimettersi da una ferita riportata in battaglia contro una delle tribù illiriche: mi disse, secondo me scherzando soltanto a metà, che con Agrippa alla testa del suo esercito, e con me a capo del governo (se pure non ufficialmente), pensava che il suo dovere per la sicurezza della nazione fosse di rinunciare ad ogni finzione di ricoprire entrambe le cariche, e divenire, per il proprio piacere, il capo della mia scuderia di poeti.

Marco Antonio… Le accuse e le controaccuse che sono state mosse nel corso degli anni! Ma nascondevano una verità, anche se il mondo può non averla mai capita del tutto. Non ordimmo alcuna manovra: non era necessario. Sapevamo che molti senatori a Roma appartenevano al partito di un tempo ed erano irrazionalmente desiderosi di capovolgere le alleanze, in quanto vedevano in Antonio la sola speranza di far rivivere il passato. Sapevamo che erano contro di noi e favorevoli a lui. Eppure, sapevamo anche di avere il popolo dalla nostra parte. Disponevamo dell’esercito. E avevamo una tale maggioranza in Senato da consentirci di varare almeno i più importanti dei nostri editti.

Avremmo potuto tollerare Marco Antonio in Oriente come un satrapo autonomo, o un Imperatore, o comunque decidesse di farsi chiamare, purché restasse romano, sia pure un romano dedito ai saccheggi. Avremmo potuto tollerarlo a Roma, anche con la sua avventatezza e la sua ambizione. Ma ci rendemmo conto che era stato contagiato dal sogno del greco Alessandro, e che era malato di questo sogno.

Gli concedemmo il trionfo: ciò accrebbe l’appoggio dei senatori nei suoi riguardi, ma non lo ricondusse a Roma. Gli offrimmo il consolato: lo rifiutò e non fece ritorno a Roma. Allora, compiendo quello che era in realtà un ultimo disperato tentativo di evitare quanto sapevamo ormai imminente, gli restituimmo le settanta navi della sua flotta che ci avevano aiutati a sconfiggere Sesto Pompeo e gli mandammo duemila uomini per completare gli organici delle decimate legioni romane ai suoi ordini. Ottavia salpò con la flotta e i soldati per Atene, nella speranza di riuscire a distogliere Antonio dalla sua spaventosa ambizione e di convincerlo a compiere il proprio dovere di marito, romano e triumviro.

Antonio accettò le navi, prese al soldo gli uomini e rifiutò di incontrarsi con Ottavia: non le offrì neppure ospitalità ad Atene, ma la rimandò immediatamente a Roma. E, quasi per dissipare ogni dubbio a proposito del suo disprezzo, inscenò un trionfo ad Alessandria, ad Alessandria, e presentò a mo’ di prova alcuni prigionieri, non al Senato ma a Cleopatra, una sovrana straniera che sedeva più in alto persino dello stesso Antonio, e su un trono d’oro. Si dice che al trionfo seguì la più barbara delle cerimonie… Antonio si vestì come Osiride, e sedette accanto a Cleopatra che indossava la veste di Iside, la più singolare tra le dee. Annunciò che la sua amante era Regina dei Re, e che il figlio di lei, Cesarione, occupava allo stesso tempo il trono dell’Egitto e di Cipro. Fece persino coniare delle monete: su una delle due facce fece effigiare le sue sembianze, sull’altra quelle di Cleopatra.

Quasi in seguito a un ripensamento, aveva mandato a Ottavia delle lettere in cui annunciava il divorzio: la fece sfrattare senza cerimonie né preavviso dalla propria abitazione a Roma.

Ormai non potevamo più sottrarci a quanto sarebbe seguito. Ottaviano tornò dall’Illiria, e cominciammo a prepararci a qualunque follia potesse minacciarci dall’Oriente.

Atti del Senato, Roma (33 a.C.)

Oggi Marco Agrippa, console e ammiraglio della flotta romana, edile del Senato di Roma, dichiara, per la prosperità e il benessere del popolo romano, e per la gloria di Roma, quanto segue:

1) Attingendo ai propri fondi e senza toccare la tesoreria pubblica, Marco Agrippa farà riparare e restaurare tutti gli edifici pubblici lasciati in abbandono, e farà ripulire e riparare le fognature pubbliche che portano al Tevere i rifiuti di Roma.

2) Attingendo ai propri fondi, Marco Agrippa metterà a disposizione di tutti gli abitanti di Roma nati liberi quantitativi d’olio d’oliva e di sale sufficienti alle loro necessità per un anno.

3) Le terme pubbliche, per un anno, saranno aperte gratuitamente agli uomini e alle donne, nati liberi o schiavi.

4) Allo scopo di tutelare i creduloni, gli ignoranti e i poveri e di far cessare la diffusione di superstizioni straniere, a tutti gli astrologi, i veggenti e i maghi orientali sarà vietato l’accesso alla città. A chi esercita attualmente queste arti depravate è imposto di lasciare Roma, pena la morte e la confisca di tutti i loro denari e i loro averi.

5) Nel tempio di Serapide e Iside, non potranno più essere venduti né acquistati gingilli relativi alle superstizioni egizie, pena l’esilio sia per il venditore sia per l’acquirente. Il tempio stesso, edificato per ricordare la conquista dell’Egitto da parte di Giulio Cesare, è dichiarato monumento storico, e non un riconoscimento dei falsi dèi dell’Oriente da parte del popolo e del Senato romano.

Petizione:

Il centurione Quinto Appio a Munazio Planco,

comandante delle legioni asiatiche

dell’Imperatore Marco Antonio, da Efeso (32 a.C.)

Io, Appio, figlio di Lucio Appio, appartengo alla tribù Cornelia e sono di origine campana. Mio padre era un contadino e mi lasciò alcuni acri di terra nei dintorni di Velletri. Dai diciotto ai ventitré anni lavorai queste terre per guadagnarmi umilmente da vivere. La mia casupola si trova ancora là, affidata alla donna che sposai in gioventù e che, nonostante liberta, è casta e fedele. La terra viene coltivata dai miei tre figli rimasti in vita. Due figli li ho persi, uno per malattia e il maggiore nella campagna in Iberia contro Sesto Pompeo, agli ordini di Giulio Cesare, molti anni fa.

Nell’interesse dell’Italia e dei posteri, divenni soldato quando avevo ventitré anni, durante il consolato di Tullio Cicerone e Gaio Antonio, zio del Marco Antonio attualmente mio signore. Per due anni fui soldato semplice nell’esercito di Gaio Antonio, che sconfisse in leale battaglia il cospiratore Catilina. Durante il terzo anno di vita militare fui con Giulio Cesare nella sua prima campagna iberica e, nonostante fossi giovane, per premiarmi del mio coraggio in battaglia Giulio Cesare mi nominò centurione della IV legione macedone. Sono soldato da trent’anni, ho preso parte a diciotto campagne, in quattordici delle quali fui centurione e in una facente funzione di tribuno militare. Mi sono battuto agli ordini di sei consoli eletti dal Senato. Ho prestato servizio in Spagna, Gallia, Africa, Grecia, Egitto, Macedonia, Britannia e Germania. Ho partecipato a tre trionfi. Per cinque volte mi è stata conferita la corona di alloro, poiché ho salvato la vita di miei commilitoni. Venti volte sono stato decorato per coraggio in battaglia.

Il giuramento che pronunciai come giovane soldato mi ha sottoposto all’autorità di magistrati, consoli e del Senato per la difesa del mio paese. A questo giuramento ho tenuto fede, e ho servito Roma onorevolmente per quanto ho potuto. Adesso ho cinquantatré anni e chiedo di essere esonerato dal servizio militare per poter fare ritorno a Velletri e trascorrere gli anni che mi restano in serenità e pace.

So che, attenendoti alla legge, puoi rifiutarmi questo congedo nonostante la mia età e il servizio che ho prestato, in quanto mi sono liberamente offerto volontario per una nuova campagna. So anche che quanto dirò adesso potrà mettermi in pericolo. Se così sarà, mi rassegnerò al mio destino.

Quando fui distaccato dall’esercito di Marco Agrippa e inviato ad Atene, ad Alessandria, e infine qui a Efeso nell’esercito di Marco Antonio, non protestai. Questa è la sorte del soldato, e io mi ci sono assuefatto. Mi ero già battuto contro i Parti e non li temevo. Ma gli eventi delle due scorse settimane hanno fatto sì che fossi assillato da profondi dubbi. Devo rivolgermi a te, ai cui ordini combattei in Gallia con Giulio Cesare e il cui onorevole comportamento nei miei riguardi mi lascia sperare di poter essere ascoltato prima di essere giudicato troppo severamente.

È chiaro che noi non ci batteremo contro i Parti, o i Medi, o chiunque altro in Oriente. Ciononostante ci armiamo, e ci addestriamo, e costruiamo macchine da guerra.

Io giurai ai consoli e al Senato del popolo romano. È un giuramento a cui non sono mai venuto meno.

Eppure, dov’è adesso il Senato? E come posso rispettare il mio giuramento? Sappiamo che trecento senatori e i due consoli di quest’anno hanno lasciato Roma e si trovano a Efeso, dove l’Imperatore Marco Antonio li ha convocati contro i settecento senatori rimasti a Roma. E sappiamo che nuovi consoli hanno sostituito a Roma quelli venuti qui.

Con chi devo tener fede al mio giuramento? Dov’è il popolo romano, che il Senato deve rappresentare?

Io non odio Ottaviano Cesare, anche se mi batterei contro di lui, se fosse il mio dovere. Non spetta al soldato pensare alla politica, e non tocca al soldato odiare o amare. Suo dovere è quello di rispettare il giuramento.

Romano, mi sono battuto altre volte contro Romani, se pure a malincuore. Ma non mi sono battuto contro Romani sotto la bandiera di una Regina straniera, e non ho marciato contro la mia nazione e i miei compatrioti come se fossero barbari con il corpo ricoperto di pitture di una provincia straniera, da saccheggiare e soggiogare.

Sono vecchio, e stanco, e chiedo di essere congedato per poter fare ritorno tranquillamente a casa mia. Ma tu sei il mio comandante e non muoverò un passo senza la tua autorizzazione. Se deciderai che non posso avere il congedo, mi comporterò con quell’onore in cui confido di aver vissuto.

Lettera: Munazio Planco,

comandante delle legioni asiatiche,

a Ottaviano Cesare, da Efeso (32 a.C.)

Anche se a volte abbiamo dissentito, io non ti sono stato nemico quanto sono stato amico di Marco Antonio, che conosco dai tempi in cui eravamo entrambi i generali di fiducia del tuo compianto e divino padre, Giulio Cesare. In tutti questi anni ho cercato di essere leale con Roma, ma allo stesso tempo di essere leale nei confronti dell’uomo a cui sono sempre stato legato da rapporti di amicizia.

Ora, tuttavia, non mi è più possibile restare leale all’una e all’altro. Quasi fosse in preda a un incantesimo, Marco Antonio fa ciecamente qualsiasi cosa voglia Cleopatra. E lei lo conduce dove la porta la sua ambizione, che mira, né più né meno, alla conquista del mondo, alla successione della sua progenie nella sovranità del mondo stesso, e a far sì che Alessandria ne divenga la capitale. Non sono riuscito a dissuadere Marco Antonio da questi scopi disastrosi. Anche ora, truppe di tutte le province asiatiche affluiscono a Efeso per unirsi alle sfortunate legioni romane che Antonio lancerà contro Roma. Le porte della tesoreria di Cleopatra sono spalancate per il finanziamento della guerra contro l’Italia. E lei non si allontana dal fianco di Marco Antonio, ma lo incita con insistenza alla vostra distruzione e all’appagamento delle sue brame ambiziose. Si dice che d’ora in avanti Cleopatra marcerà al suo fianco, anche in battaglia. Non solo io, ma tutti i suoi amici lo abbiamo esortato a rimandare Cleopatra ad Alessandria, per evitare che la sua presenza possa provocare l’odio delle truppe romane. Ma lui non vuole, o non può, agire.

Di conseguenza sono stato costretto a scegliere tra l’amicizia in declino nei confronti di un uomo e il costante amore per il mio paese. Torno in Italia e rinuncio all’avventura in Oriente. E non sarò solo. Ho trascorso la mia intera esistenza tra i soldati romani e credo di conoscere il loro cuore. Saranno in molti a non battersi sotto le bandiere di una Regina straniera, e chi, in preda alla confusione, si batterà, lo farà con sofferenza e riluttanza, per cui la sua energia ne sarà diminuita.

Mi rivolgo a te in amicizia e ti offro i miei servigi. Se non puoi accettare la prima, forse troverai utili i secondi.

Le memorie di Marco Agrippa: Frammenti (13 a.C.)

Passo al resoconto degli avvenimenti che sfociarono nella battaglia di Actium e poi nella pace di cui Roma aveva disperato per lungo tempo.

Marco Antonio e la Regina Cleopatra riunirono le loro forze in Oriente, e trasferirono gli eserciti da Efeso all’isola di Samo, e di là ad Atene, dove rimasero minacciando l’Italia e la pace. Durante il secondo consolato di Cesare Augusto, fui edile di Roma. E, allo scadere dell’anno in cui avevamo rivestito queste cariche, ci dedicammo alla ricostruzione degli eserciti d’Italia che avrebbero respinto la minaccia del tradimento in Oriente. Questo compito impose la nostra assenza da Roma per molti mesi. Al ritorno, trovammo il Senato rovesciato dagli amici di Antonio che erano i nemici del popolo romano. Ci opponemmo e, quando gli divenne chiaro che non sarebbero riusciti a prevalere contro l’ordine in Italia, i due consoli di quell’anno e, al seguito, trecento senatori rinnegati e incapaci d’amore per la patria abbandonarono Roma e si allontanarono dall’Italia per unirsi ad Antonio. Poterono andarsene senza essere impediti né minacciati da Cesare Augusto, che li vide partire con dolore, ma senza ira.

In Oriente, soldati romani leali, prima a decine poi a centinaia, rifiutando il giogo di una Regina straniera, tornarono in Italia. Ci dissero che non c’era modo di evitare la guerra, e che, anzi, la guerra sarebbe cominciata presto, poiché Antonio vedeva i suoi eserciti indeboliti dalle diserzioni e capì che, ritardando troppo a lungo, avrebbe finito per dipendere completamente dal capriccio e dall’inesperienza delle legioni barbare e dei loro comandanti asiatici.

Così, nel tardo autunno dell’anno successivo al suo secondo consolato, Cesare Augusto, col consenso del Senato e del popolo romano, dichiarò lo stato di guerra tra il popolo romano e Cleopatra, Regina d’Egitto. Preceduto da Cesare Augusto, il Senato, sfilando solennemente, si recò al Campo Marzio e poi al tempio di Bellona, dove l’araldo lesse la dichiarazione di guerra e i sacerdoti sacrificarono una giovenca bianca alla dea, pregando perché l’esercito di Roma fosse protetto in tutte le battaglie a venire.

Dopo la disfatta di Sesto Pompeo, Augusto aveva assicurato al popolo romano la fine delle guerre civili e che mai più il suolo d’Italia avrebbe accolto il sangue dei suoi figli. Durante l’inverno, addestrammo i nostri soldati sul terreno, riparammo e potenziammo la flotta, addestrandoci anche sul mare quando il tempo lo consentiva. In primavera, sapemmo che Marco Antonio aveva riunito la flotta e l’esercito nella baia di Corinto, e che da lì si proponeva di colpire subito la costa orientale d’Italia al di là del mar Ionio. Allora ci mettemmo in marcia contro di lui per evitare al paese le ferite della guerra.

Contro di noi era schierata la potenza del mondo orientale… Centomila uomini, di cui trentamila Romani, e cinquecento vascelli da guerra, spiegati lungo le coste della Grecia. Inoltre, ottantamila uomini delle truppe di riserva, lasciate in Egitto e in Siria. Noi affrontavamo queste forze con cinquantamila soldati romani, di cui numerosi veterani della campagna marittima contro Pompeo, duecentocinquanta navi da guerra al mio comando, e centocinquanta navi per i rifornimenti.

La costa della Grecia vanta pochi porti che possano essere difesi, quindi non incontrammo difficoltà nello sbarco delle truppe destinate a battersi sulla terraferma contro Antonio. Le navi ai miei ordini bloccavano le rotte marittime dei rifornimenti dalla Siria e dall’Egitto, per cui le forze di Cleopatra e di Marco Antonio avrebbero dovuto dipendere dalle regioni invase per i vettovagliamenti e i rifornimenti di materiale.

Riluttanti a perdere vite romane, durante la primavera ci limitammo a schermaglie, sperando di raggiungere il nostro scopo con un blocco invece che con la guerra. In estate ci dirigemmo in forze verso la baia di Actium, dov’era concentrato il grosso delle forze nemiche, nella speranza di trarre in inganno quelli che volevano impedire la nostra invasione simulata. Ci riuscimmo. Antonio e Cleopatra, infatti, salparono con l’intera flotta per venire in soccorso delle navi e degli uomini che noi non intendevamo attaccare. Ripiegammo davanti all’avanzata delle loro navi e le lasciammo entrare nella baia, da cui sapevamo che sarebbero dovute uscire. Le avremmo costrette, così, a battagliare sul mare, mentre il nemico era forte sulla terraferma.

L’imboccatura della baia di Actium ha un’ampiezza inferiore al mezzo miglio, nonostante la baia stessa si allarghi considerevolmente all’interno, per cui le navi nemiche avevano spazio a sufficienza per mettersi all’ancora; e mentre esse rimanevano nella baia, con i soldati accampati a riva, Cesare Augusto inviò intorno ad esse reparti di fanteria e cavalleria, e fortificò l’accerchiamento, per cui soltanto subendo gravi perdite sarebbero riuscite a ripiegare nell’entroterra. Poi aspettammo. Sapevamo infatti che gli eserciti d’Oriente erano assediati dalla fame e dalle malattie, e non sarebbero stati in grado di ritirarsi via terra. Sarebbero stati costretti a battersi in mare.

Le navi da guerra che avevamo restituito ad Antonio dopo la disfatta di Pompeo erano le più grandi della flotta, e a me risultava che quelle fatte costruire da Antonio per condurre la guerra contro di noi avevano dimensioni ancora maggiori. Alcune avevano addirittura dieci ordini di rematori ed erano protette da fasce di ferro contro gli speronamenti. Navi di questo genere sono pressoché invincibili contro un naviglio più piccolo in un combattimento diretto, quando manca lo spazio per manovrare. Di conseguenza, già da parecchio tempo avevo stabilito di far conto su una maggioranza di navigli più leggeri e manovrabili, muniti di ordini di remi da due a sei e senza nessun vascello più grande. Inoltre avevo deciso di essere paziente, e di adescare le flotte dell’Oriente in mare aperto. A Naulochus, infatti, contro Pompeo eravamo stati costretti a impegnare le navi nemiche sottocosta, dove la rapidità non contava affatto.

Aspettammo. Il primo settembre vedemmo le navi disporsi in linea per la battaglia e vedemmo bruciare i vascelli per i quali non c’erano rematori. Ci preparammo a quanto sarebbe successo l’indomani.

Il mattino spuntò luminoso e limpido. Il porto e il mare più avanti erano lisci come una lastra di pietra traslucida. La flotta d’Oriente alzò le vele, quasi sperasse di poterci inseguire non appena si fosse alzato il vento. I rematori affondarono i remi nell’acqua. La flotta avanzò adagio sul mare, come una muraglia compatta. Antonio in persona comandava la squadra di dritta dei tre gruppi, talmente ravvicinati che spesso i remi cozzavano gli uni contro gli altri, mentre la flotta di Cleopatra seguiva la squadra di centro, a una certa distanza.

La mia squadra affrontò quella di Antonio. Le navi al comando di Cesare Augusto si trovavano a sinistra. Eravamo al di là dell’imboccatura della baia, disposti secondo una linea curva, per cui non avevamo navi dietro di noi.

Mentre il nemico avanzava nella nostra direzione, non ci muovemmo. Le sue navi si fermarono all’imboccatura della baia e non un remo venne immerso nell’acqua per parecchie ore. Antonio voleva che fossimo noi ad andare all’attacco, ma non ci muovemmo e aspettammo.

Infine, per impazienza o per un eccesso d’audacia, il comandante della squadra di sinistra si fece avanti. Cesare Augusto finse di indietreggiare come temesse il pericolo. La squadra lo inseguì senza riflettere e il resto della flotta orientale si mise sulla sua rotta. La nostra squadra di centro indietreggiò, allungammo lo schieramento, la squadra nemica entrò nella trappola come un pesce nella rete e noi la circondammo.

La battaglia infuriò sin quasi al tramonto, nonostante l’esito non fosse mai stato seriamente in dubbio. Non avevamo alzato le vele e potevamo manovrare con maggiore rapidità tra le navi più pesanti. I ponti delle navi nemiche, invece, avevano le vele spiegate, e non offrivano a frombolieri e arcieri spazio a sufficienza per agire con efficacia. Quanto alle vele, presentavano facili bersagli alle palle infuocate che noi catapultavamo. I ponti delle nostre navi erano sgombri, e quindi, quando abbordavamo un vascello nemico con i rampini, i nostri soldati, superiori di numero, potevano andare all’abbordaggio e sgominare l’avversario con una certa facilità.

La flotta nemica tentò di formare un cuneo, in modo da sfondare il nostro schieramento. Ci avventammo contro di essa e ne sgominammo la formazione, per cui ogni nave dovette battersi isolata. Il nostro avversario tentò di serrare nuovamente le file e di nuovo glielo impedimmo, costringendo ogni vascello a combattere per la propria sopravvivenza come meglio poteva. Il mare avvampava a causa delle navi che noi incendiavamo e, più forti del crepitio delle fiamme, si sentivano le grida degli uomini che bruciavano vivi insieme ai vascelli. Il mare era oscurato dal sangue e disseminato di soldati che, liberatisi delle corazze, si dibattevano debolmente per sottrarsi alle spade, ai giavellotti e alle frecce. Nonostante combattessero contro di noi erano soldati romani: la strage ci sconvolgeva.

Durante tutti i combattimenti, la nave di Cleopatra era rimasta indietro nel porto. Quando infine si levò la brezza, la Regina fece mettere tutte le vele al vento, girò intorno alle navi impegnate nella battaglia, e si diresse al largo, dove non avremmo potuto seguirla. Fu uno di quei momenti strani, tipici della confusione della guerra, ben noti a tutti i soldati. Il vascello su cui si trovava Cesare Augusto e la mia nave si erano avvicinati a tal punto che potemmo guardarci negli occhi e addirittura, alzando la voce, udirci a vicenda nonostante il frastuono. A nemmeno trenta metri di distanza, là dove era stata inseguita e poi risparmiata, si profilava la nave di Marco Antonio. Credo che vedemmo tutti e tre contemporaneamente la vela purpurea della nave ammiraglia di Cleopatra sul punto di allontanarsi. Nessuno di noi si mosse. Antonio rimaneva a prua della sua nave come fosse una polena scolpita, lo sguardo rivolto verso la Regina in fuga. Poi si voltò verso di noi, ma non so se ci riconobbe o meno. La sua faccia era inespressiva, come un cadavere. Poi alzò il braccio, lo lasciò ricadere e le vele vennero orientate sul vento. La grande nave virò adagio, guadagnò velocità e Marco Antonio seguì la sua Regina. Osservammo i resti pietosi della sua flotta sopravvissuti alla distruzione e non tentammo di inseguirli. Non rividi mai più Marco Antonio.

Abbandonate dai loro comandanti, le navi rimaste si arresero. Curammo i nemici feriti, che erano anche i nostri fratelli, incendiammo i vascelli superstiti della flotta di Antonio, e Cesare Augusto disse che nessun soldato romano schieratosi tra i nostri nemici doveva soffrire per il proprio coraggio, ma essere restituito all’onore e alla sicurezza di Roma.

Sapevamo di avere conquistato il mondo, eppure non ci furono canti di vittoria, né gioia. Più avanti nella notte i soli suoni erano gli sciabordii e i sibili dell’acqua contro gli scafi in fiamme e i gemiti sommessi dei feriti. Il bagliore degli incendi illuminava il porto, e Cesare Augusto, la faccia irrigidita e rossastra in quei riflessi mutevoli, rimase in piedi a prua della sua nave e contemplò il mare che nascondeva i cadaveri di quei prodi, camerati e avversari, come se non ci fosse alcuna differenza tra loro.

Lettera: Gaio Cilnio Mecenate a Tito Livio (12 a.C.)

Rispondo alle tue domande.

Marco Antonio supplicò che gli si risparmiasse la vita? Sì. È un episodio che sarebbe preferibile dimenticare. Un tempo avevo una copia della lettera, ma ormai l’ho distrutta. Ottaviano non rispose. Antonio non fu assassinato, si tolse la vita, anche se lo fece in modo maldestro e morì adagio. Lasciamolo riposare in pace. Non andiamo troppo a fondo in queste cose.

La questione di Cleopatra: 1) No, Ottaviano non organizzò il suo omicidio. 2) Sì, ebbe un colloquio con lei ad Alessandria, prima che si togliesse la vita. 3) Sì, l’avrebbe risparmiata. Non voleva la sua morte. Cleopatra era un’ottima amministratrice e avrebbe potuto conservare il regno d’Egitto. 4) No, non so che cosa si dissero nel colloquio di Alessandria. Cesare Augusto non ha mai voluto parlarne.

La questione di Cesarione: 1) Sì, aveva appena diciassette anni. 2) Sì, fummo noi a decidere che doveva essere messo a morte. 3) Sì, a parer mio era il figlio di Giulio. 4) No, non fu messo a morte a causa del suo nome, ma a causa della sua ambizione, che era indiscutibile. Feci rilevare a Ottaviano quanto era giovane: mi ricordò che anche lui aveva avuto diciassette anni, un tempo, ed era stato ambizioso.

La questione di Antillo, figlio di Marco Antonio. Ottaviano lo fece mettere a morte. Anche lui aveva diciassette anni. Somigliava molto al padre.

La questione del ritorno di Ottaviano a Roma: 1) Aveva trentatré anni. 2) Sì, venne onorato con il trionfo, all’inizio del suo quinto consolato. 3) Sì, fu lo stesso anno in cui si ammalò e in cui, di nuovo, disperammo della sua possibilità di salvarsi.

Devi, mio caro Livio, perdonare la concisione di queste risposte. Non sono offeso, sono soltanto stanco. Ricordo quei tempi come appartenessero alla vita di qualcun altro, quasi come non fossero reali. A dirti il vero, ricordare mi annoia. Forse domani mi sentirò meglio.