IV


Lettere: Strabone di Amasia

a Nicolao di Damasco, da Roma (43 a.C.)

Mio caro Nicolao, ti invio saluti come fa il nostro vecchio amico e tutore Tyrannion. Ti invio saluti da Roma, dove sono arrivato appena la scorsa settimana, dopo un viaggio lungo e spossante da Alessandria, passando per Corinto. Navigando a vela e a remi, proseguendo su carri. Carri coperti e a cavallo. E talvolta anche a piedi, barcollante sotto il peso dei miei libri. Uno guarda le carte geografiche e non si rende conto davvero della vastità e della varietà del mondo. È un nuovo genere di istruzione, per acquisire la quale non occorre un maestro. Infatti, se viaggia a sufficienza, l’allievo può diventare il maestro. Il nostro Tyrannion, così erudito in ogni cosa, si è dato la pena di interrogarmi per sapere cosa ho visto nel corso dei miei viaggi.

Alloggio con Tyrannion in una piccola casa che fa parte di un gruppo di edifici analoghi su un colle da cui si domina la città. È una sorta di colonia, presumo. Abitano qui numerosi maestri affermati (non li si chiama filosofi, a Roma, dove la filosofia è molto sospetta), insieme ad alcuni studiosi più giovani che, come me, sono stati invitati a vivere e a studiare con i loro maestri di un tempo.

Mi sono stupito quando Tyrannion mi ha condotto qui, così lontano dalla città, e ancor più mi sono stupito quando me ne ha spiegato il motivo. Sembra che la biblioteca pubblica di Roma sia peggio che inservibile: una collezione incredibilmente piccola di manoscritti, spesso mal copiati, e tanti in questa spaventosa lingua latina quanti nel nostro greco! Tyrannion mi assicura, però, che qualsiasi testo possa occorrermi è disponibile in collezioni private. Uno dei suoi amici, che risiede qui con noi, è quell’Atenodoro di Tarso di cui abbiamo sentito tanto parlare ad Alessandria. Tyrannion mi ha assicurato che lui ha libero accesso alle migliori biblioteche private della città e che noi studiosi vagabondi siamo sempre i benvenuti.

Devo dirti qualche parola di questo Atenodoro. È un uomo davvero imponente. È poco più grande di Tyrannion, forse sui cinquantacinque anni, ma dà l’impressione di possedere e dominare la saggezza di tutte le epoche. Si tratta di un uomo solitario e duro, ma non scortese. Parla di rado e non si lascia mai coinvolgere in quei dibattiti scherzosi che ci divertono tanto. Sembra che lo seguiamo tutti, nonostante non abbia nessuna intenzione di guidarci. Si dice che abbia amici potenti, anche se non fa mai nomi. La sua personalità è tale che difficilmente osiamo parlare di queste cose, sia pure quando lui non c’è. Eppure, nonostante tutto il suo potere nel mondo della mente, in lui c’è una tristezza di cui non riesco a individuare la causa. Ho deciso di parlargli, malgrado sia ansioso, e di accertare tutto il possibile.

Infatti riceverai queste lettere grazie ai suoi auspici: può servirsi di tutti i corrieri diplomatici che partono settimanalmente per Damasco, e mi ha fatto sapere che includerà tra la sua corrispondenza anche queste missive.

Così, mio caro Nicolao, comincia la mia avventura nel mondo. Mantenendo la promessa che ti feci, scriverò con regolarità, condividendo con te ogni nuova nozione. Mi dispiace che tu non abbia potuto accompagnarmi e spero che le questioni di famiglia che ti hanno trattenuto a Damasco possano essere risolte al più presto, così potrai raggiungermi in questo strano, nuovo mondo.

***

Devi giudicarmi un pessimo amico e un filosofo anche peggiore. Non sono un pessimo amico, ma può darsi che stia diventando un filosofo criticabile. Avevo deciso di scriverti ogni settimana, invece è passato quasi un mese da quando ho accostato l’ultima volta la penna alla carta.

Ma questa è la più straordinaria delle città e minaccia di inghiottire anche le menti più salde. I giorni si susseguono l’uno all’altro, incalzandosi con una frenesia che né io né tu avremmo potuto immaginare durante i tranquilli anni di studio nella calma di Alessandria. Mi domando se, nella serenità e nella sonnolenza della tua cara Damasco, tu possa anche soltanto concepire l’atmosfera che sto cercando di evocare.

Con una certa frequenza mi colpisce il sospetto (forse è solo una sensazione) che cediamo un po’ troppo al nostro orgoglio di Greci per la Storia e per la lingua, e che troppo facilmente presupponiamo una superiorità rispetto ai «barbari» dell’Occidente, che si compiacciono di definirsi nostri maestri (sto diventando, come vedi, un po’ meno filosofo e un po’ più uomo di mondo). Senza dubbio le nostre province hanno fascino e cultura. Ma qui a Roma esiste una sorta di vitalità che appena un anno fa non mi sarebbe sembrata attraente nella maniera più assoluta. Ma un anno fa avevo soltanto sentito parlare di Roma. Ora l’ho vista. E in questo momento non so se tornerò mai in Oriente o nella mia natia Pontus.

Immagina, se vuoi, una città la cui estensione è forse la metà di quella di Alessandria, in cui studiammo da ragazzi. E poi pensa che nelle mura di questa stessa città c’è più del doppio di persone che affollavano Alessandria. Questa è la Roma in cui vivo adesso: una città di quasi un milione di abitanti, mi hanno detto. È diversa da qualsiasi altra cosa abbia mai visto. La gente arriva qui da ogni parte del mondo: negri provenienti dalle sabbie arroventate dell’Africa, biondi pallidi dal gelido Nord, e ogni sfumatura intermedia. E una tale Babele di lingue! Eppure tutti parlano un po’ di latino o un po’ di greco, per cui nessuno può sentirsi un estraneo.

E come si accalcano tutti insieme, questi Romani! Oltre le mura della città si stendono le più belle campagne che tu possa immaginare, eppure la gente si affolla qui come pesci catturati nella rete, e si apre un varco a fatica attraverso viuzze strette e tortuose che serpeggiano in modo insensato, un miglio dopo l’altro. Durante il giorno tutte queste viuzze sono letteralmente gremite di gente, e il frastuono e il puzzo sembrano incredibili. Pochi mesi prima di morire, il grande Giulio Cesare decretò che soltanto nelle ore dell’oscurità, tra il crepuscolo e l’alba, carri, carretti e animali da soma potessero circolare in città. Viene da domandarsi quale potesse essere la situazione prima di questo decreto, quando cavalli, buoi e carri carichi di merci di ogni genere si mescolavano alla folla in queste vie impossibili.

Secondo me il comune romano che abita nella città vera e propria non riesce mai a dormire. Infatti il frastuono del giorno diviene il fracasso della notte, mentre i conducenti imprecano contro cavalli e buoi, e i grossi carri di legno cigolano e sobbalzano rumorosi sull’acciottolato.

Una volta calata la notte nessuno si azzarda a uscire da solo, tranne i mercanti che non possono farne a meno e i ricchissimi che possono permettersi una guardia del corpo. Anche nelle notti di luna le viuzze sono tenebrose, perché i traballanti edifici raggiungono un’altezza tale da rendere impossibile, anche a un vagabondo raggio di luna, di aprirsi un varco fino ai vicoli. E questi ultimi sono pieni di miserabili ridotti alla disperazione, pronti ad assalirti e tagliarti la gola per impadronirsi dei vestiti che indossi e del po’ di argento che potresti avere.

Eppure, gli abitanti di questi edifici giganteschi e cadenti sono poco più al sicuro di chi si aggira di notte per le vie: infatti vivono costantemente minacciati dal pericolo di incendi. Di notte, nella sicurezza della mia casetta sul colle, vedo in lontananza gli incendi divampare come fiori sbocciati nell’oscurità, e sento le grida lontane di paura o di strazio. Esistono brigate di vigili del fuoco, certo, ma sono tutte ugualmente corrotte e troppo poco numerose per poter giovare molto.

Eppure al centro di questo caos, di questa città, esiste, come se si trattasse di un altro mondo, il grande Foro. È simile a quello che abbiamo visto nelle città di provincia, ma molto più vasto. Grandi colonne di marmo sostengono il peso degli edifici ufficiali, ci sono decine di statue e altrettanti templi eretti agli dèi romani presi in prestito, nonché molti edifici più piccoli che ospitano i vari uffici del governo. Si trova spazio aperto in abbondanza e, in qualche modo, il chiasso, il puzzo e il fumo della città sembrano non potervi penetrare. Là la gente passeggia alla luce del sole chiacchierando piacevolmente, si scambia dicerie e legge le notizie esposte sui vari rostra intorno al palazzo del Senato. Io vado nel Foro quasi ogni giorno e sento di trovarmi al centro del mondo.


Comincio a capire questo disprezzo romano per la filosofia. Il loro è un mondo immediato, di cause e conseguenze, dicerie e verità, vantaggi e privazioni. Io stesso, che ho dedicato la vita al perseguimento della conoscenza e della verità, riesco a provare una certa comprensione per la condizione del mondo da cui ha avuto origine questo disprezzo. I Romani considerano la cultura il mezzo per raggiungere un fine, e la verità un mero oggetto da utilizzare. Persino i loro dèi servono lo Stato, invece di essere tutto l’opposto.

***

Ecco la copia di una poesia che ho visto affissa ieri mattina su ogni porta attraverso cui si entra in città. Non tenterò di tradurla, mi limiterò a trascriverla:

Sosta, o viaggiatore, prima d’entrare in questa fattoria,

e guarda te stesso. Abita qui un ragazzo

che ha il nome di un uomo. Pranzerai con lui

a tuo rischio e pericolo. Oh, ti inviterà, non temere.

Invita tutti. Lo scorso mese è morto suo padre.

Ora il ragazzo gozzoviglia con il vino maleodorante

della sua libertà e lascia il bestiame inselvatichirsi

al di là delle recinzioni sfondate… Tranne una bestia,

figliata da una scrofa prediletta che egli ha accolto

nella sua casa. Hai tu forse una figlia?

Bada anche a lei. A questo ragazzo piacevano un tempo

le fanciulle altrettanto belle. Potrebbe cambiare ancora.

Ti offro un’interpretazione alla maniera dei nostri vecchi maestri. Il «ragazzo che ha il nome di un uomo» è, naturalmente, Gaio Ottaviano Cesare. Il «padre» che gli ha dato il nome è Giulio Cesare. La «bestia» è una certa Clodia, figlia della «scrofa» (questo è il soprannome appioppatole dai suoi nemici), Fulvia, moglie di Marco Antonio, con cui Ottaviano ora fa la guerra, ora si riconcilia. Una delle «fanciulle» cui si accenna nell’ultimo verso è una certa Servilia, figlia di un ex console, con cui si dice Ottaviano fosse fidanzato prima di accettare, a causa delle pressioni esercitate dalle sue truppe e da quelle di Antonio, un accordo che lo impegnava al matrimonio con la figliastra di Antonio. Questo contratto è, naturalmente, più formale che sostanziale: a quanto mi risulta, la fanciulla ha appena tredici anni. Ma sembra che comunque quest’accordo abbia placato le forze che vogliono vedere Ottaviano e Antonio in rapporti amichevoli. La poesia, senza dubbio, contiene altre allusioni che non capisco: quasi sicuramente l’ha commissionata qualcuno del partito senatoriale che non vuole una riconciliazione tra Ottaviano e Antonio. È volgare, eppure ha in sé una certa vibrazione, non ti sembra?

Non faccio che sorprendermi. Il nome di Ottaviano Cesare è sulle labbra di tutti. Si trova a Roma, ha lasciato Roma. È il salvatore della nazione, la distruggerà. Punirà gli assassini di Giulio Cesare, li premierà. Quale che possa essere la verità, questo giovane misterioso ha affascinato l’immaginazione di Roma, e io stesso non sono esente da questo fascino.

Per cui, sapendo che il nostro Atenodoro ha vissuto a lungo a Roma e nei dintorni, ho approfittato dell’occasione ieri sera, dopo che avevamo cenato insieme, per porgli alcune domande (a poco a poco, si è sciolto, e ora riusciamo a scambiare anche una mezza dozzina di parole di seguito).

Gli ho chiesto che tipo di uomo fosse questo Ottaviano Cesare, come si fa chiamare. E gli ho mostrato una copia della poesia.

Atenodoro l’ha letta, sfiorando quasi il foglio con il naso sottile e a becco, le gote smunte risucchiate in dentro, le labbra increspate. Poi mi ha restituito la poesia, con lo stesso gesto che gli è tipico quando mi restituisce un saggio che gli ho dato perché lo corregga.

«Il metro è incerto», ha detto, «l’argomento volgare».

Ho imparato ad essere paziente con Atenodoro. Gli ho posto di nuovo la domanda su Ottaviano.

«È un uomo come ogni altro», ha risposto. «Diventerà quello che diventerà, per la forza della sua personalità e per il capriccio del suo fato».

Ho domandato ad Atenodoro se avesse mai visto questo giovane, o parlato con lui. Atenodoro si è accigliato, ringhiando: «Sono stato il suo maestro. Ero con lui ad Apollonia quando suo zio fu ucciso e lui si incamminò lungo la strada che l’ha condotto dove si trova oggi».

Per un momento ho creduto che si trattasse di una metafora, poi l’ho guardato negli occhi e mi sono reso conto che diceva la verità. Ho balbettato: «Lo… lo conosci?».

Atenodoro ha quasi sorriso. «Ho pranzato con lui la scorsa settimana».

Ma non ha voluto dire altro, né rispondere alle mie domande. Sembrava che per lui fossero prive di importanza. Si è limitato a dire che il suo ex allievo sarebbe potuto diventare uno studioso capace, se l’avesse voluto.

Sicché, mi trovo al centro del mondo ancor più di quanto immaginassi.

***

Sono andato a un funerale.

Attia, la madre di Ottaviano Cesare, è morta. Un araldo ha percorso le vie annunciando che i riti funebri sarebbero stati celebrati la mattina dopo, nel Foro. Così ho finalmente visto con i miei occhi quello che, in questo momento, è l’uomo più potente di Roma, e quindi (presumo) del mondo.

Sono andato presto al Foro, per poter trovare un buon posto, e ho aspettato davanti al rostrum da cui Ottaviano Cesare doveva pronunciare l’orazione funebre. Alle cinque del mattino il Foro era quasi gremito.

E poi è arrivato il corteo… Gli uomini che lo precedevano con le torce fiammeggianti, i suonatori di oboe, trombe e flauti, che intonavano una marcia lenta, il feretro su cui era disteso il cadavere, le prefiche… Dietro il corteo, sola, camminava una sagoma esile: all’inizio l’ho scambiata per un giovane, poiché aveva la toga orlata di viola. Non mi è venuto in mente che poteva trattarsi di un senatore. Ma ben presto ho capito che si trattava dello stesso Ottaviano, in quanto al suo passaggio la folla si agitava, cercando di vederlo meglio. I portatori hanno deposto il feretro davanti al rostrum, i parenti stretti hanno occupato piccole sedie lì davanti, e Ottaviano Cesare si è avvicinato adagio e ha contemplato per un momento il cadavere di sua madre. Poi è salito sul rostrum e ha guardato la gente, un migliaio o più di persone, che si era riunita lì per l’occasione.

Io mi trovavo in piedi, vicinissimo, a non più di quindici metri di distanza. Ottaviano sembrava molto pallido, molto rigido, quasi fosse stato lui il cadavere. Soltanto gli occhi erano vivi: sono dell’azzurro più stupefacente. Sulla folla è calato un gran silenzio. Da lontano giungeva il fioco e noncurante strepito della città che continuava a vivere come una bestia ottusa.

Poi lui ha cominciato a parlare. Parlava molto piano, ma con una voce così limpida e chiara che tutti i presenti riuscivano a sentirla.

Ti mando le sue parole. Gli scrivani erano presenti con le loro tavolette e, il giorno dopo, copie dell’orazione si trovavano su ogni banco di manoscritti della città.

Ottaviano ha detto: «Roma non ti vedrà più, Attia, tu che fosti Roma. È una perdita resa sopportabile soltanto dall’esempio della tua virtù. Tale esempio ci dice che il nostro dolore, se mantenuto troppo profondamente e troppo a lungo, offende lo scopo stesso della tua vita.

«Tu fosti una consorte fedele del padre del mio sangue, quel Gaio Ottaviano, pretore e governatore della Macedonia, la cui immatura morte si frappose tra la sua persona e il consolato a Roma. Fosti una madre severa e affettuosa con tua figlia, Ottavia, che piange ora davanti al tuo feretro, e con tuo figlio, che si trova ora davanti a te per l’ultima volta e pronuncia queste misere parole. Fosti la nipote rispettosa e dignitosa dell’uomo che diede a tuo figlio il padre di cui era stato defraudato dal destino, quel Giulio Cesare scelleratamente assassinato così vicino a questo stesso luogo dove tu così nobilmente giaci.

«Con un onorato nome romano, tu possedevi pienamente quelle antiche virtù del mondo che hanno nutrito e sostenuto la nostra nazione nel corso della sua storia. Filasti e tessesti le stoffe destinate a vestire la tua famiglia, i servi furono per te come tuoi figli, onorasti gli dèi della tua casa e della tua città. Grazie alla tua dolcezza non avesti nemici, tranne il tempo, che ora si impadronisce di te.

«Oh, Roma, guarda colei che giace qui ora e vedrai il meglio della tua natura e del tuo retaggio. Presto porteremo queste spoglie mortali oltre le mura della città e là la pira funebre consumerà il ricovero di tutto ciò che era Attia. Ma io vi esorto, cittadini: non lasciate che le sue virtù scendano nella tomba insieme alle sue ceneri. Fate in modo, piuttosto, che queste virtù improntino le vostre vite di Romani, per cui, anche se la persona di Attia sarà soltanto cenere, la parte migliore di lei potrà continuare a vivere nello spirito di tutti i Romani che la seguiranno.

«Attia, possano le anime dei morti custodire il tuo riposo».

Sulla folla calò un lungo silenzio. Ottaviano rimase ancora per un momento ritto sul rostrum. Poi scese, e la salma fu portata fuori dal Foro, e al di là delle mura della città.

***

Non riesco a credere a quello che ho visto o sentito. In questo caos non c’è nessuna notizia ufficiale. Sulle mura del palazzo del Senato non c’è niente. Ottaviano Cesare si è associato con Antonio e Lepido in quella che equivale a una dittatura militare, e i nemici di Giulio Cesare sono proscritti. Più di cento senatori, senatori, sono stati giustiziati, con la confisca delle loro proprietà e ricchezze. Parecchie centinaia di cittadini romani, spesso nobili, sono stati assassinati o posti in fuga dalla città, mentre le loro proprietà e ricchezze finivano nelle mani dei triumviri. Una reazione spietata. Tra i proscritti: Paullo, fratello di sangue di Lepido, Lucio Cesare, zio di Antonio. E persino il celebre Cicerone figura sulla lista resa pubblica. Questi tre e altri, immagino, sono fuggiti da Roma, e forse riusciranno a salvarsi la vita.

Le rappresaglie più sanguinose sembrano essere state affidate ai soldati di Antonio. Ho visto i cadaveri decapitati dei senatori romani sparsi in quello stesso Foro che una settimana fa era la loro massima gloria. E, al sicuro sul mio colle, ho sentito le grida disperate dei ricchi che hanno aspettato troppo prima di fuggire da Roma e abbandonare i loro beni. Tutti, tranne i poveri, quelli che possiedono un patrimonio modesto, e gli amici di Cesare, vivono nell’ansia di ciò che potrebbe portare il domani, indipendentemente dai nomi sulle liste.

Si dice che Ottaviano Cesare se ne stia in casa sua e non voglia mostrare la faccia né vedere i cadaveri dei suoi colleghi di un tempo. Si dice, inoltre, che sia lo stesso Ottaviano a insistere che le proscrizioni siano attuate spietatamente, subito, e alla lettera. Impossibile sapere a chi credere.

È questa la Roma che credevo di cominciare a conoscere, dopo gli ultimi mesi tanto pieni? Sono riuscito a capire questa gente? Atenodoro non vuole parlare della situazione con me, Tyrannion scuote la testa malinconicamente.

Forse sono meno uomo e più giovane e immaturo di quanto credessi.

***

Cicerone non è riuscito a fuggire.

Ieri, in un freddo e luminoso pomeriggio di dicembre, mentre mi aggiravo tra i banchi di manoscritti nel quartiere delle botteghe dietro il Foro (ormai si può circolare sicuri), ho notato un grande scompiglio. Non ascoltando il mio buon senso, spronato da quella curiosità che un giorno mi porterà alla fama o alla morte, mi sono diretto oltre le porte del Foro. Una gran folla si agitava intorno al rostrum vicino al palazzo del Senato.

«È Cicerone», disse qualcuno, e il nome si diffuse come un sospiro bisbigliante tra la gente.

Là, sul rostrum del Senato, geometricamente disposta tra due mani mozzate, si trovava la testa incartapecorita e raggrinzita di Marco Tullio Cicerone. Qualcuno disse che era stata messa lì per ordine dello stesso Antonio.

Si trattava dello stesso rostrum da cui, appena tre settimane prima, Ottaviano Cesare aveva parlato con tanta dolcezza di sua madre defunta. Ora là c’era una morte diversa, e io non potei fare a meno di sentirmi felice che la madre fosse morta prima di assistere a cosa aveva causato il figlio.

Lettera: Marco Giunio Bruto

a Ottaviano Cesare, da Smyrna (42 a.C.)

Non credo che tu ti renda realmente conto della gravità della tua situazione. Non provi per me nessun affetto, lo so, e sarei sciocco se fingessi di provarne di più io per te. Quindi non ti scrivo perché mi preoccupo per te, ma per la nazione. Non posso scrivere ad Antonio, in quanto è un pazzo. Non posso scrivere a Lepido, in quanto è uno sciocco. Spero di poter essere ascoltato da te, che non sei né una cosa né l’altra.

So che Cassio e io siamo stati dichiarati fuorilegge e condannati all’esilio per opera tua, ma nessuno di noi due può credere che questa condanna abbia una forza giuridica più permanente di quella che può essere sostenuta da un Senato confuso e demoralizzato. Nessuno di noi due può sostenere che questo editto abbia una qualsiasi sorta di permanenza o di validità. Parliamo da un punto di vista pratico.

Tutta la Siria, tutta la Macedonia, tutto l’Epiro, tutta la Grecia, l’intera Asia appartengono a noi. L’intero Oriente è contro di te, e la potenza e la ricchezza dell’Oriente non sono trascurabili. Noi dominiamo nel modo più assoluto il Mediterraneo orientale: quindi non puoi aspettarti nessun aiuto dall’amante egiziana del tuo defunto zio, che altrimenti potrebbe fornire ricchezze e uomini alla tua causa. E, nonostante io non lo ami, so che il pirata Sesto Pompeo ti si sta aizzando contro da Occidente. Dunque non temo, né per me, né per le mie forze armate, la guerra che ormai sembra imminente.

Ma temo per Roma, e per l’avvenire dello Stato. Le proscrizioni che tu e i tuoi amici avete ordinato giustificano questo timore, a cui deve essere subordinata la mia sofferenza personale.

Quindi: dimentichiamo le proscrizioni e gli omicidi. Se tu potrai perdonarmi la morte di Cesare, forse io potrò perdonarti la morte di Cicerone. Non è possibile che diventiamo amici, nessuno di noi due ne ha bisogno. Ma forse possiamo essere amici di Roma.

Ti imploro, non marciare con Marco Antonio. Un’altra battaglia tra Romani distruggerebbe, temo, quella poca virtù che rimane nello Stato. E Antonio non marcerà senza di te.

Se non ti metterai in marcia, ti assicuro che avrai il mio rispetto e la mia gratitudine, e che il tuo avvenire sarà certo. Se non potremo collaborare per reciproca amicizia, potremo collaborare per il bene di Roma.

Ma se respingerai questa offerta d’amicizia, resisterò con tutte le mie forze, e tu sarai distrutto. Lo dico con tristezza, ma lo dico.

Le memorie di Marco Agrippa: Frammenti (13 a.C.)

Una volta formato il triumvirato e dispersi i nemici romani di Giulio Cesare e di Cesare Augusto, rimanevano ancora le forze del pirata Sesto Pompeo in Occidente, e gli assassini esiliati del divino Giulio in Oriente, quel Bruto e quel Cassio che minacciavano la sicurezza e l’ordine di Roma. Tenendo fede al giuramento, Cesare Augusto decise di punire gli assassini di suo padre e riportare ordine nello Stato, e rinviò a un altro momento la questione di Sesto Pompeo, adottando contro di lui soltanto i provvedimenti necessari alla sicurezza immediata.

Allora dedicai le mie energie all’arruolamento e all’equipaggiamento in Italia delle legioni che dovevano cingere d’assedio Bruto e Cassio in Oriente, e all’organizzazione delle linee di rifornimento che ci avrebbero consentito di combattere su quel terreno lontano. Antonio doveva mandare otto legioni ad Amphipolis, sulla costa egea della Macedonia, per infastidire le truppe di Bruto e Cassio, in modo che non potessero trovare un terreno vantaggioso su cui battersi. Ma Antonio rinviò la partenza delle sue legioni, per cui queste furono costrette a occupare posizioni svantaggiose sulle pianure a ovest di Filippi, dove l’esercito di Bruto restava al sicuro. Antonio allora dovette inviare altre legioni in appoggio a quelle che si trovavano in Macedonia, ma le flotte di Bruto e Cassio rimanevano in prossimità del porto di Brindisi. Allora Augusto mi ordinò di aprire un passaggio sicuro ad Antonio. Con le navi e con le truppe che avevo approntato in Italia, passammo attraverso la flotta di Marco Giunio Bruto e sbarcammo dodici legioni sulla costa macedone, a Dyrrachium.

Ma lì Augusto si ammalò gravemente. Temevamo per la sua vita e saremmo rimasti con lui, se lui non ci avesse ordinato di proseguire. Sapeva che tutto sarebbe stato perso se avessimo rimandato l’attacco all’esercito dei fuorilegge. Quindi, otto delle nostre legioni marciarono attraverso il paese per unirsi alle truppe avanzate e assediate di Antonio ad Amphipolis.

La cavalleria di Bruto e di Cassio ci ostacolarono, e, durante il trasferimento, subimmo gravi perdite: quando arrivammo ad Amphipolis gli uomini erano stanchi e demoralizzati. Quando divenne chiaro che gli eserciti di Bruto e Cassio erano saldamente trincerati sulle alture di Filippi, protette a Nord dalle montagne e a Sud da una palude che andava dall’accampamento al mare, decisi di inviare un messaggio urgente a Cesare Augusto. Ai nostri soldati il compito sembrava disperato, e io sapevo che occorreva risollevarne il morale.

E così, nonostante fosse gravemente malato, Augusto si aprì a forza un varco attraverso la regione per venire in nostro appoggio. Era troppo debole per camminare, e viaggiò tra i suoi uomini su una lettiga. Ma quando arrivò, nonostante avesse il volto di un cadavere, i suoi occhi fieri e duri, e la sua voce forte fecero sì che gli uomini si sentissero incoraggiati e ritrovassero il coraggio grazie alla sua presenza.

Decidemmo di colpire con audacia e subito, poiché ogni giorno di attesa ci costava grandi quantità di vettovaglie, mentre Bruto e Cassio disponevano di tutte le vie del mare per rifornirsi. Perciò organizzammo un tranello. Tre legioni di Augusto ai miei ordini si finsero intente alla costruzione di una strada rialzata attraverso la vasta palude che proteggeva il fianco sud del nemico, distogliendo così un gran numero di truppe repubblicane inviate ad attaccarle. Intanto, le legioni di Marco Antonio colpirono con ardimento, sfondarono le sguarnite linee di Cassio e saccheggiarono l’accampamento prima che lui stesso potesse riaversi dallo stupore. Si dice che, da un monticello dove si trovava insieme ad alcuni dei suoi ufficiali, girò lo sguardo a Nord e vide le truppe di Bruto in quella che ritenne essere una fuga. Pensò che ormai il suo esercito fosse sconfitto e che tutto fosse perso, quindi si abbandonò alla disperazione e si gettò sulla propria spada, uccidendosi là, nella polvere e nel sangue, a Filippi. Si sarebbe detto che avesse voluto vendicarsi di se stesso per l’omicidio del divino Giulio, due anni e sette mesi dopo.

Cassio non sapeva che l’esercito di Bruto non era in fuga. Indovinato il nostro piano, e sapendo che l’esercito di Augusto era disperso a causa della tattica diversiva, Bruto si affrettò a investire il nostro accampamento e vinse le difese, facendo molti prigionieri tra i soldati e ancora più morti. Lo stesso Augusto, quasi privo di sensi a causa della malattia e incapace di muoversi, fu portato fuori della tenda dal suo medico e nascosto nella palude fino alla fine della battaglia e al cader della notte, quando, di nascosto, fu condotto dove si era ritirato ciò che restava dell’esercito, uniti alle truppe di Marco Antonio. Il medico giurò di aver fatto un sogno in cui gli si ordinava di portare altrove Augusto infermo, affinché la sua vita potesse essere salva…

Lettera: Quinto Orazio Flacco a suo padre,

da una località a ovest di Filippi (42 a.C.)

Mio caro padre, se riceverai questa lettera saprai che il tuo Orazio, appena un giorno fa orgoglioso soldato nell’esercito di Marco Giunio Bruto, ora, in questa gelida notte d’autunno, siede nella sua tenda e scrive le parole che tu leggi alla luce baluginante di una lanterna, disonorato agli occhi di se stesso, se non degli amici. Eppure si sente stranamente libero dall’ossessione che lo ha afferrato in questi ultimi mesi. E, se non è felice, sta incominciando per lo meno a capire chi lo è. Oggi ho preso parte alla mia prima battaglia, e devo dirti subito che al primo momento di serio pericolo ho lasciato cadere lo scudo e la spada e sono fuggito.

Perché mai mi sono imbarcato in questa avventura, non lo so. E senza dubbio anche tu sei troppo intelligente per poterlo sapere. Quando, due anni fa – data la tua grande bontà che spesso, sbagliando, ormai do per scontata – mi mandasti a studiare ad Atene, non pensavo minimamente di dedicarmi a qualcosa di così folle come la politica. Forse mi schierai con Bruto e accettai il grado di tribuno nel suo esercito per compiere lo spregevole tentativo di innalzarmi al di sopra del mio rango, nell’aristocrazia? Si vergognava forse, Orazio, di essere figlio di un semplice liberto? Non posso credere che sia vero. Nonostante fossi giovane e arrogante, ho sempre saputo che sei il migliore degli uomini e che non avrei potuto augurarmi un padre più nobile, generoso e affettuoso.

Accadde, ritengo, perché nei miei studi avevo dimenticato il mondo, cominciando quasi a credere che la filosofia fosse reale. Libertà. Mi unii alla causa di Bruto per una parola. E non so cosa questa parola significhi. Un uomo può vivere da sciocco per un anno, e rinsavire in un giorno.

Devo dirti che non ho lasciato cadere lo scudo e non sono fuggito dal campo di battaglia per mera viltà, anche se è stato senza dubbio anche per questo. Ma quando, a un tratto, ho visto uno dei soldati di Ottaviano Cesare (o forse di Antonio, non lo so) avanzare verso di me con la spada nuda, risplendente tra le mani, e con una strana luce negli occhi, è stato come se il tempo si fosse fermato di colpo. Mi sono tornate in mente tutte le speranze che riponevi nel mio avvenire. Mi sono ricordato che sei nato schiavo e sei riuscito a comprare la tua libertà. Che hai dedicato tutta la tua vita e i tuoi sforzi a tuo figlio, in modo che potesse vivere in quell’agiatezza che tu non hai mai conosciuto. E ho visto questo tuo figlio inutilmente massacrato su un suolo che non amava, per una causa che non capiva. Ho intuito quelli che sarebbero potuti essere i tuoi anni nel ricordo della vita gettata via da tuo figlio… E sono fuggito. Ho scavalcato correndo i cadaveri di soldati caduti, ho visto i loro occhi vuoti fissare quel cielo che non avrebbero potuto scorgere mai più. E non mi è importato se fossero amici o nemici. Sono fuggito.

Se il fato sarà cortese con me, tornerò da te in Italia. Non mi batterò più. Domani ti invierò questa lettera e farò i miei preparativi. Se non saremo attaccati, non correrò alcun pericolo. Se ci attaccheranno fuggirò di nuovo. In ogni caso non rimarrò in questo massacro che porta a un fine per me inesistente.

Non so chi vincerà, se il partito di Cesare o quello della Repubblica. Non conosco il futuro del nostro paese, o il mio. Forse dovrò deluderti e diventare un esattore di imposte come te. È una posizione, per quanto umile ai tuoi occhi, a cui tu dai decoro e onore con la tua presenza.

Orazio, tuo figlio, che si sente orgoglioso di esserlo.

Le memorie di Marco Agrippa:

Frammenti (13 a.C.)

E Bruto si ritirò, una volta di più, sulle alture e i trinceramenti di Filippi, da dove, divenne chiaro, non intendeva ripiegare. Sapevamo, forse meglio di lui, che ogni giorno d’attesa ci costava caro, perché le nostre riserve di viveri andavano riducendosi. Attraverso il mare, dominato dalla flotta di Bruto, non si poteva trasportare niente. Alle spalle avevamo le pianure della Macedonia, piatte e aride, e davanti le montagne ostili e desolate della Grecia. Così, facemmo copiare lettere di rimproveri agli ufficiali dell’esercito di Bruto, accusandoli di essere pavidi e codardi, e la notte urlammo frasi di sfida al di là dei fuochi da campo. Volevamo che i soldati non potessero dormire sonni onorati, ma che riposassero solo a intermittenza, in preda alla vergogna.

Per tre settimane Bruto aspettò, finché alla fine i suoi uomini, esasperati dall’inazione, non vollero più rimandare. Allora, temendo che il suo esercito disertasse, Bruto ordinò ai soldati di uscire dai trinceramenti che avrebbero potuto salvarli, e di attaccare il nostro accampamento.

Nel tardo pomeriggio discesero dalla collina come una tempesta del Nord: né invettive né grida, solo il tambureggiare degli zoccoli e i tonfi dei piedi sulla polvere che avanzava con loro come una nuvola. Davanti all’attacco iniziale ordinai al nostro schieramento di arretrare. Mentre il nemico si precipitava su di noi, chiudemmo le linee da ogni lato, per cui lui dovette battersi sui due fianchi contemporaneamente. Intanto noi dividemmo l’esercito in due, e ognuna di queste parti ancora in due, in modo che il nemico non potesse rimettersi in formazione per resistere ai nostri attacchi. Al cader della notte la battaglia era finita. Le stelle ascoltavano i gemiti dei feriti e contemplavano impassibili i corpi immobili.

Bruto fuggì con quanto restava delle sue legioni e si diresse verso le località deserte al di là dei trinceramenti di Filippi che avevamo investito. Avrebbe attaccato ancora con gli uomini rimasti, ma i suoi ufficiali si rifiutarono di esporsi a quel rischio e, all’alba del giorno successivo alle Idi di novembre, su un poggio solitario che dominava la carneficina voluta dalla sua ostinazione e dalla sua risolutezza, insieme a pochi fedeli ufficiali, si gettò sulla propria spada. E l’esercito della Repubblica non esistette più.

Così fu vendicato l’omicidio di Giulio Cesare. Così il caos del tradimento cedette il posto agli anni di ordine e pace, sotto l’Imperatore del nostro Stato, Gaio Ottaviano Cesare, ora Augusto.

Lettera: Gaio Cilnio Mecenate a Tito Livio (13 a.C.)

Dopo Filippi, adagio, con molte tappe, più morto che vivo, Ottaviano tornò a Roma. Aveva salvato l’Italia dai suoi nemici in terre straniere e ora doveva sanare le ferite della nazione, devastata dall’interno.

Mio caro Livio, non so descriverti il colpo che provai vedendolo per la prima volta dopo molti mesi quando, in segreto, lo portarono nella sua casa sul Palatino. Io, naturalmente, ero rimasto a Roma come da ordini di Ottaviano, per tenere d’occhio la situazione e tentare di impedire a Lepido di mandare completamente in sfacelo, con le sue cospirazioni e la sua incompetenza, l’organizzazione dello Stato in Italia.

Ottaviano non aveva ancora ventidue anni quell’inverno, quando tornò dalla guerra, ma ti giuro che dimostrava il doppio, il triplo della sua età. Il viso era cereo e, già esile per costituzione, la malattia lo aveva fatto dimagrire a tal punto che la pelle gli pendeva sulle ossa. Gli restava appena la forza per parlare con un bisbiglio rauco. Lo guardai e disperai della sua salvezza.

«Non farlo sapere», disse, e s’interruppe a lungo, come se aver pronunciato quella frase fosse bastato a spossarlo. «Non far sapere agli altri della mia malattia. Né al popolo, né a Lepido».

«Non ne parlerò, amico mio», gli dissi.

In effetti la malattia era incominciata l’anno prima, durante le proscrizioni, e non aveva fatto che aggravarsi. E nonostante i medici che lo curavano fossero stati compensati splendidamente e minacciati della perdita di ogni bene, se non della stessa vita, qualora avessero violato il segreto, voci sul suo male erano filtrate ugualmente. I medici (una genia spaventosa, allora come adesso) avrebbero anche potuto non fare nulla: prescrivevano erbe nocive e terapie a base di caldo e freddo, e niente altro. Ottaviano non riusciva a mangiare quasi nulla e più di una volta aveva vomitato sangue. Ciononostante, man mano che il corpo si indeboliva, la sua volontà sembrava indurirsi: di conseguenza lui si impegnava ancor più ferocemente nel male, di quanto avesse fatto quando godeva di buona salute.

«Antonio», disse con quella voce terribile, «non tornerà a Roma per il momento. Si è recato in Oriente ad accumulare bottino e rafforzare la sua posizione. Ho approvato. Preferivo che derubasse Asiatici ed Egizi, piuttosto che Romani… Si aspetta che io muoia, credo, e, nonostante lo speri, penso che non voglia trovarsi in Italia quando accadrà».

Si distese sul letto, il respiro corto e affrettato, gli occhi chiusi. Infine, recuperò un po’ di forza e disse: «Dammi notizie della città».

«Riposa», dissi. «Avremo tutto il tempo quando sarai più forte».

«Le notizie», ripeté. «Il mio corpo non può agire, è vero, ma la mia mente sì».

Avevo cose amare da dirgli, ma sapevo che se avessi tentato di addolcire la pillola non mi avrebbe perdonato.

Dissi: «Lepido tratta in segreto con il pirata Sesto Pompeo. Penso che abbia in mente di allearsi con Pompeo contro di te o Antonio, quello di voi che risulterà il più debole. Ne ho le prove. Ma, se gliele mostreremo, giurerà di trattare solo per la pace di Roma… Dopo Filippi, Antonio è l’eroe e tu sei il codardo. Quella troia della consorte di Antonio e quell’avvoltoio di suo fratello hanno sparso la voce… Mentre tu te ne saresti rimasto acquattato, tremante, nella palude salata, Antonio avrebbe coraggiosamente punito i nemici di Cesare. Fulvia tiene discorsi ai soldati, avvertendoli che non pagherai i premi promessi da Antonio. Lucio si aggira per le campagne aizzando proprietari terrieri e contadini dicendogli che confischerai le loro terre per sistemare i veterani. Vuoi sapere altro?».

Sorrise persino un poco. «Se devo», rispose.

«Lo Stato è molto vicino alla bancarotta. Delle poche imposte che Lepido riesce a riscuotere, solo un rivoletto va alla tesoreria. Il resto finisce nei forzieri dello stesso Lepido e, si dice, di Fulvia, che si sta preparando ad arruolare legioni indipendenti in aggiunta a quelle che toccano ad Antonio di diritto. Non ne ho le prove, ma immagino che sia vero… Dunque, sembrerebbe che sia tu a trovarti più a mal partito a Roma».

«Preferisco la debolezza di Roma a tutto il potere dell’Oriente», disse lui, «nonostante sono certo che non fosse questo il piano di Antonio. Lui si aspetta che, se non morirò, colerò a picco sommerso dalle difficoltà qui in Italia. Ma non morirò e non colerò a picco». Si sollevò un poco. «Abbiamo molto da fare».

E il giorno dopo, nonostante la grande debolezza, si alzò dal letto e ignorò la malattia, come se si fosse trattato di cosa da poco e priva d’importanza.

C’era molto da fare, aveva detto… Mio caro Livio, quella tua mirabile Storia come potrebbe rievocare i disordini e le attese, i trionfi e le sconfitte, le gioie e le disperazioni degli anni successivi a Filippi? Non può riuscirci, e senza dubbio non dovrebbe. Ma non devo fare digressioni, nemmeno per lodarti, altrimenti mi rimprovererai di nuovo.

Mi hai chiesto di essere più particolareggiato per quanto concerne i compiti cui mi dedicai in nome dell’Imperatore… Devo confessare che alcuni di essi ora mi sembrano ridicoli, anche se, naturalmente, allora non mi sembravano così. I matrimoni, per esempio. Grazie all’ascendente e agli editti del nostro Imperatore, ora un uomo facoltoso e ambizioso può contrarre matrimonio su basi razionali, ammesso che razionale non sia un termine troppo contraddittorio per definire una relazione tanto bizzarra e (mi accade talvolta di pensare) innaturale. Questo non era possibile ai tempi di cui parlo, almeno a Roma, e per quanti avevano pubbliche responsabilità. Ci si sposava per conseguire vantaggi politici e per necessità politiche. Come feci io stesso, nonostante la mia Terenzia sia stata a volte una compagna divertente.

Devo dire che ero piuttosto abile in quegli accordi. E devo confessare che, come poi risultò, nessuno di quei matrimoni fu vantaggioso, o anche soltanto necessario. Ho sempre sospettato che fu questa consapevolezza a indurre Ottaviano, alcuni anni dopo, a varare quelle leggi non del tutto riuscite sul matrimonio, anziché la «moralità» che solitamente si attribuisce ad esse. Più volte Ottaviano si è burlato di me per i consigli che gli diedi in quei primi tempi. Infatti erano sempre sbagliati.

Un esempio: il primo matrimonio che conclusi per lui fu nei primissimi tempi, quelli precedenti la formazione del triumvirato. La giovane era Servilia, figlia di quel P. Servilio Isaurico che, quando Cicerone si era opposto a Ottaviano, dopo Mutina, aveva accettato di essere console anziano con Ottaviano contro Cicerone. Il matrimonio con sua figlia doveva essere garanzia del fatto che, se si fosse reso necessario, lui sarebbe stato appoggiato con la forza delle nostre armi. Come poi risultò, Servilio fu impotente nei suoi rapporti con Cicerone e non ci aiutò in nessun modo. Il matrimonio non ebbe mai luogo.

Le seconde nozze furono ancor più ridicole delle prime. Vennero celebrate con Clodia, figlia di Fulvia e figliastra di Marco Antonio, e facevano parte degli accordi che portarono al triumvirato. I soldati le volevano, e noi non vedemmo ragione per opporre un rifiuto al loro capriccio, per quanto insignificante potesse essere quell’unione. La ragazza aveva tredici anni ed era brutta quanto la madre. Ottaviano la vide due volte, credo, e lei non mise mai piede in casa sua. Come sai, il matrimonio non servì affatto a tranquillizzare Fulvia o Antonio, che continuarono con gli intrighi e i tradimenti. Per cui, dopo Filippi, quando Antonio si trovava in Oriente e Fulvia minacciava apertamente una nuova guerra civile contro Ottaviano, dovemmo chiarire la nostra posizione procedendo al divorzio.

La responsabilità del terzo contratto nuziale, quello che, credo, più esasperò Ottaviano, fu mia. Le nozze ebbero luogo con Scribonia e furono celebrate neanche un anno dopo il divorzio da Clodia, durante i mesi più disperati per noi, quando sembrava che saremmo stati schiacciati o dalle rivolte a favore di Antonio in Italia, o dall’invasione di Sesto Pompeo da Sud. Compiendo quello che sembra adesso un tentativo troppo disperato di riconciliazione, andai in Sicilia a trattare con Sesto Pompeo: un compito impossibile, in quanto Pompeo era un uomo impossibile. Un po’ matto, credo… Più simile a una bestia che a un essere umano. Era davvero un fuorilegge, non soltanto nell’accezione legale del termine: è uno dei pochi uomini con cui abbia dovuto conversare e che mi ripugnasse tanto da rendermi difficile trattare con lui. So, mio caro Livio, che tu ammiravi suo padre. Ma non ti incontrasti mai con nessuno dei due, e senza dubbio non conoscesti il figlio… In ogni modo parlai con Pompeo, riuscii a strappargli quello che mi sembrava un accordo e suggellai il patto concludendo un matrimonio con Scribonia, sorella minore del suocero di Pompeo. Scribonia, Scribonia… Mi ha sempre dato l’impressione di essere l’epitome della femminilità: gelidamente sospettosa, educatamente irascibile e meticolosamente egoista. È un miracolo se il mio amico riuscì davvero a perdonarmi quell’accordo. Mi perdonò, forse, perché il matrimonio con Scribonia gli diede la sola cosa che lui ami tanto quanto Roma. Sua figlia, la sua Giulia. Ottaviano divorziò da Scribonia il giorno stesso della nascita della bambina, ed è miracoloso che si sia riammogliato. Ma si risposò, e fu un’unione in cui io non ebbi alcuna parte. Come poi risultò, il matrimonio con Scribonia era stato un inganno sin dall’inizio, poiché, nello stesso momento in cui io stavo trattando con Pompeo, lui era impegnato in serie trattative con Antonio: quindi il contratto nuziale fu una semplice astuzia per dissipare i nostri sospetti. Tale, mio caro Livio, era la natura della politica a quei tempi. Ma devo dire (anche se non lo ripeterei al nostro Imperatore) che, rievocando gli avvenimenti, queste manovre ebbero anche un aspetto umoristico.

Comunque, mi sono sempre vergognato delle responsabilità che mi assunsi per avere combinato un altro matrimonio. Ancora oggi non riesco a prenderle alla leggera come dovrei. Anche se, presumo, non causai un male troppo grande.

Più o meno nel periodo in cui stavo trattando con Pompeo e combinando il matrimonio con Scribonia, i barbari mori, aizzati da Fulvia e da Lucio Antonio, si ribellarono contro il nostro governatore dell’Iberia occidentale. I generali romani in Africa, sempre istigati da Fulvia e da Lucio, cominciarono a farsi la guerra a vicenda. Lucio sostenne che la sua vita era stata minacciata e marciò con le sue legioni (e quelle di Fulvia) su Roma. Le legioni furono respinte dal nostro amico Agrippa e circondate nella città di Perusia, i cui abitanti (nella grande maggioranza seguaci di Pompeo e repubblicani) le aiutarono con energia ed entusiasmo. In realtà, non sapevamo quanta parte avesse avuto in tutto ciò Marco Antonio, nonostante lo sospettassimo: perciò non osammo distruggere suo fratello, nel timore che Antonio, se era colpevole, potesse avvalersi di questo pretesto per attaccarci da Oriente, o che, se era innocente, fraintendesse le nostre azioni e si vendicasse. Non punimmo Lucio, ma non fummo certo misericordiosi con chi lo aveva aiutato, in quanto mettemmo a morte i più sleali ed esiliammo gli altri, anche se lasciammo liberi i comuni cittadini e addirittura li risarcimmo dei danni subiti. Tra gli esiliati (questo, mio caro Livio, piacerà al tuo, forse troppo spiccato, senso dell’ironia) c’era un certo Tiberio Claudio Nerone, a cui fu consentito di andare in Sicilia con il figlio appena nato, Tiberio, e la giovanissima moglie Livia.

Durante tutti i mesi dei disordini in Italia, avevamo scritto spesso ad Antonio cercando di prospettargli le attività della moglie e del fratello e tentando di accertare quale parte avesse nelle rivolte. Ma, anche se ricevemmo sue lettere, nessuna rispondeva alle nostre, come se non le avesse ricevute. Quando gli scrivemmo con la massima urgenza naturalmente era inverno, e poche delle rotte marittime rimanevano aperte. Quindi è possibile che davvero non avesse ricevuto le lettere. In ogni modo, la primavera e parte dell’estate trascorsero senza una parola chiara da parte sua. E poi ricevemmo un messaggio urgente da Brindisi. Ci annunciava che la flotta di Antonio stava navigando verso il porto e che le navi di Pompeo arrivavano da Nord per unirsi a lui. Inoltre venimmo a sapere che alcuni mesi prima Fulvia era andata ad Atene per raggiungere il marito.

Non sapevamo cosa aspettarci, eppure non avevamo scelta. Deboli come eravamo, con le nostre legioni disperse contro i vari ribelli lungo i confini e nella nazione, marciammo verso Brindisi, temendo che Antonio fosse sbarcato e stesse schierando i suoi soldati contro di noi. Ma venimmo a sapere che la città di Brindisi gli aveva rifiutato l’accesso al porto, perciò ci accampammo in attesa degli eventi. Se Antonio avesse attaccato in forze, senza dubbio non ci saremmo potuti salvare.

Tuttavia lui non attaccò, né lo attaccammo noi. I nostri uomini erano affamati e male equipaggiati, i suoi soldati erano stanchi dopo tanti viaggi e volevano soltanto rivedere le famiglie in Italia. Se l’una o l’altra delle parti fosse stata così sciocca da voler andare fino in fondo, probabilmente ci sarebbe stato un ammutinamento.

E poi un agente inviato da noi di nascosto tra le forze nemiche tornò con certe notizie stupefacenti. Antonio e Fulvia avevano avuto un violento alterco ad Atene. Lui se n’era andato in preda all’ira. Fulvia, all’improvviso e inesplicabilmente, era morta.

Incoraggiammo alcuni dei nostri soldati più fidi a fraternizzare con le truppe di Antonio. Ben presto delegazioni di entrambe le parti avvicinarono i rispettivi comandanti e chiesero che Antonio e Ottaviano appianassero una volta di più le loro divergenze, perché Romani non venissero ancora opposti a Romani.

E così i due capi si incontrarono e una nuova guerra fu evitata. Antonio sostenne che Fulvia e suo fratello avevano agito senza essere autorizzati da lui, e Ottaviano fece rilevare che non si era vendicato in nessun modo delle loro azioni, per rispetto ai suoi rapporti con Antonio. Fu firmato un patto, e concessa un’amnistia generale a tutti i precedenti nemici di Roma. Si concluse persino un matrimonio.

Il matrimonio fu combinato da me: Antonio sposò Ottavia, la sorella maggiore del nostro Imperatore, rimasta vedova appena pochi mesi prima e con un figlio in tenerissima età, Marcello.

Mio caro Livio, tu conosci i miei gusti. Ma sono quasi disposto a credere che sarei riuscito ad amare le donne, se molte di loro fossero state come Ottavia. L’ammiravo allora come l’ammiro adesso. Era una creatura dolcissima e incapace di astuzia, di grande bellezza, e una delle due sole donne che io abbia mai incontrato con una vasta conoscenza e una profonda comprensione della filosofia e della poesia (l’altra è la figlia di Ottaviano, Giulia). Il mio vecchio amico Atenodoro aveva l’abitudine di dire che, se fosse stata un uomo, e meno intelligente, sarebbe potuta diventare un grande filosofo.

Quando Ottaviano spiegò la necessità di quel passo a sua sorella c’ero anch’io. Lui le voleva un gran bene, come sai. Non riuscì a guardarla negli occhi mentre parlava. Ma Ottavia si limitò a sorridergli e disse: «Se la cosa va fatta, fratello mio, bisogna farla. Cercherò di essere una buona moglie per Antonio e di restare una buona sorella per te».

«Lo fai per Roma», disse Ottaviano.

«Lo faccio per tutti noi», disse lei. Era necessario, presumo. Speravamo che quel matrimonio avrebbe portato a una pace duratura. Sapevamo che ci avrebbe dato alcuni anni di respiro. Ma, devo dirlo, sento ancora una fitta di rammarico e dolore. Ottavia andò certamente incontro a un’esistenza molto penosa.

Anche se, come poi risultò, Antonio era un marito piuttosto intermittente. Questo potrebbe averle reso più sopportabile la vita con lui. Eppure non parlò mai male di Marco Antonio, nemmeno negli ultimi anni.