I
Dichiarazione: Irzia a suo figlio Quinto,
Velletri (2 a.C.)
Sono Irzia. Un tempo mia madre, Crispia, fu schiava nella casa di Attia, moglie di Gaio Ottaviano il Vecchio, nipote del divo Giulio Cesare, e madre di quell’Ottaviano che il mondo conosce come Augusto. Non so scrivere e dunque faccio verbalmente questa dichiarazione a mio figlio Quinto, che amministra le proprietà di Attio Sabino a Velletri. Quinto scrive queste parole perché i posteri possano conoscere i tempi passati e la parte che in questi tempi ebbero i loro antenati. Ho settantadue anni, e la fine della mia vita si sta avvicinando. Desidero pronunciare queste parole prima che gli dèi mi chiudano gli occhi per sempre.
Tre giorni fa, mio figlio mi ha condotto a Roma perché, prima che gli occhi mi si offuscassero e non ci vedessi più, potessi contemplare una volta ancora la città della mia giovinezza. Là mi è accaduto qualcosa, che ha risvegliato i ricordi di un passato tanto lontano che lo credevo scordato per sempre. Dopo oltre cinquant’anni, ho rivisto colui che ora è il padrone del mondo e che ha più titoli di quanti la mia povera mente possa ricordare. Eppure, una volta, lo chiamavo «Tavio mio», e lo tenevo tra le braccia come fosse mio figlio. Ma di questo parlerò in seguito. Ora devo riferire i miei ricordi di un tempo precedente.
Mia madre nacque schiava nella famiglia Giulia. Fu data dapprima ad Attia come compagna di giochi, poi come serva. Ma sin da giovane le venne concessa la libertà per i suoi fedeli servigi, affinché potesse unirsi legalmente in matrimonio con il liberto Irzio, che divenne poi mio padre. Mio padre era sovrintendente di tutti gli uliveti della tenuta di Ottaviano a Velletri. Io nacqui in una piccola casa adiacente alla villa, sul colle che domina gli uliveti, e trascorsi là, nella generosità di quella famiglia, i miei primi diciannove anni. Ora sono tornata a Velletri e, gli dèi volendo, morirò nella stessa casetta dove trascorsi felice la fanciullezza.
La mia padrona e suo marito non si trattenevano spesso alla villa: risiedevano a Roma, perché Gaio Ottaviano il Vecchio era una personalità importante del governo di quei tempi. Quando avevo dieci anni, mia madre mi comunicò che Attia aveva dato alla luce un figlio. Siccome il bambino era malaticcio, avrebbe trascorso l’infanzia in campagna, lontano dai cattivi odori e dal fumo della città. Mia madre aveva partorito di recente un bambino nato morto e avrebbe potuto allattare il figlio della sua padrona. Appena accostò al suo seno il bambino quasi fosse stato suo, altrettanto fece il mio giovane cuore, che cominciava a palpitare sognando la maternità.
Piccola com’ero, lavavo il bambino, lo fasciavo. Gli tenni la manina quando cominciò a muovere i primi passi. Lo vidi crescere. In quel gioco di maternità della fanciullezza, divenne il mio Tavio.
Quando il bambino che io chiamavo Tavio ebbe cinque anni, suo padre tornò da un lungo soggiorno in Macedonia e si trattenne per qualche giorno con la famiglia. Voleva andare al Sud, in un’altra delle sue tenute, a Nola, dove avremmo dovuto raggiungerlo per trascorrere l’inverno. Ma si ammalò all’improvviso e morì prima di aver potuto compiere il viaggio. Così il mio Tavio perse il padre che non aveva mai conosciuto. Lo strinsi tra le braccia per confortarlo. Ricordo che il suo corpicino tremava tutto, ma non pianse.
Ancora per quattro anni rimase affidato a noi, nonostante fosse arrivato un maestro da Roma per occuparsi di lui. Di tanto in tanto la madre veniva a trovarlo. Quando avevo diciannove anni, mia madre morì. La mia padrona, Attia, che dopo il periodo di lutto si era rimaritata, decise di far tornare a Roma il figlio, in modo che potesse cominciare a prepararsi alla virilità. E, generosa com’era, per la sicurezza del mio avvenire, mi donò terre bastanti a impedirmi per sempre di vivere nel bisogno. Inoltre mi diede in sposa a un liberto della sua famiglia, che godeva di una modesta ma sicura prosperità grazie a un gregge di pecore che conduceva al pascolo nella regione montuosa vicino a Mutina, a nord di Roma.
Così mi lasciai alle spalle la gioventù, divenni donna, e dovetti dire addio al bambino che avevo considerato mio. I giorni dei divertimenti erano finiti per me. Eppure fui io a piangere quando dovetti congedarmi da Tavio. Quasi fossi stata io la bambina bisognosa, Tavio mi abbracciò e mi disse che non mi avrebbe dimenticata. Ci giurammo che ci saremmo rivisti, ma non lo credevamo. E così il bambino che era stato il mio Tavio se ne andò per divenire il governatore del mondo, e io trovai quella felicità e quello scopo cui gli dèi mi avevano destinata.
Come potrebbe, una vecchia ignorante, capire la grandezza di colui che ha conosciuto come un poppante, un bimbetto barcollante, un fanciullo che correva e gridava con i suoi compagni di giochi? Ora, ovunque fuori di Roma, nei villaggi e nelle cittadine delle campagne, lui è un dio. C’è un tempio dedicato a lui nella mia stessa cittadina di Mutina, e ho saputo che ce ne sono altri altrove. La sua immagine si trova sopra il focolare della gente di campagna in tutto il paese.
Io non conosco le abitudini del mondo e degli dèi. Ricordo un bambino che era quasi mio, anche se non nato da me. E devo dire quello che ricordo. Era un bambino dai capelli più chiari del grano in autunno, con una pelle bianca che non si abbronzava al sole. A volte era vivace e allegro, altre taciturno e chiuso in se stesso. Bastava un nonnulla per farlo arrabbiare, ma la sua ira si spegneva altrettanto facilmente. Anche se gli volevo bene, lui era un bambino come tutti gli altri.
Si vede che già da allora gli dèi gli avevano dato la grandezza di cui tutto il mondo ha dovuto rendersi conto. Ma, se è così, io non me ne accorsi, giuro. I suoi compagni di giochi erano come lui, anche i figli degli schiavi più umili. Tavio dava quanto riceveva, nei doveri come nei giochi. Sì, gli dèi dovettero toccarlo, ma impedendogli, nella loro saggezza, di rendersene conto. Seppi infatti, anni dopo, che c’erano stati numerosi portenti alla sua nascita. Sua madre sognò, si dice, che un dio sotto forma di serpente entrava in lei, e in seguito a questo sogno concepì il bambino. Suo padre sognò che il sole sorgeva dai lombi della moglie. Miracoli al di là di ogni comprensione avvennero in tutta Italia al momento della sua nascita. Io mi limito a riferire quel che ho saputo, e a parlare dei ricordi di quei tempi.
E ora devo raccontare l’incontro che accese questi pensieri nella mia mente.
Mio figlio Quinto volle che vedessi il grande Foro, dove andava spesso a sbrigare affari per conto del padrone. Quindi mi svegliò nella prima ora della giornata, in modo che potessimo percorrere le vie prima dell’affollamento quotidiano. Avevamo visto il nuovo edificio del Senato, e stavamo percorrendo la via Sacra verso il tempio di Giulio Cesare, bianco come una montagna coperta di neve nel sole del mattino. Ricordai che una volta, da bambina, avevo visto l’uomo ora divenuto un dio e mi meravigliai della grandezza del mondo in cui vivevo.
Ci fermammo un momento a riposare accanto al tempio. Vecchia come sono, mi stanco facilmente. Mentre riposavamo, vidi venire verso di noi un gruppo di uomini in cui riconobbi dei senatori, poiché indossavano delle toghe dagli orli purpurei. Tra di loro c’era una figura esile, curva come me, con un cappello a larga tesa e un bastone del comando in mano. Gli altri sembravano rivolgere la parola soltanto a lui. Non ci vedo troppo bene e non riuscivo a distinguere le sue fattezze, ma non so quale certezza scaturì in me e dissi a Quinto: «È lui».
Quinto mi sorrise e disse: «Lui chi, madre?».
«È lui», e la voce mi tremò. «È lui il padrone di cui ti ho parlato, quello affidato un tempo alle mie cure».
Quinto lo fissò di nuovo, mi prese sottobraccio e ci spostammo più vicini alla strada per vederlo passare. Altri cittadini avevano notato il suo avvicinarsi, e noi ci unimmo a loro.
Non avevo intenzione di parlare. Ma, mentre passava, i ricordi della fanciullezza scaturirono in me e la parola fu pronunciata.
«Tavio», dissi.
Fu poco più di un bisbiglio, ma mi sfuggì dalle labbra mentre lui mi passava accanto: l’uomo a cui non avevo avuto intenzione di rivolgermi si fermò e mi fissò, interdetto. Poi fece cenno agli uomini intorno a lui di restare dov’erano e mi si avvicinò.
«Hai parlato, vecchia madre?», chiese.
«Sì, padrone», risposi. «Perdonami».
«Hai pronunciato il nome con cui venivo chiamato da bambino».
«Sono Irzia», dissi. «Mia madre fu la tua nutrice quando eri bambino a Velletri. Forse non te ne ricordi».
«Irzia», disse, e sorrise. Si avvicinò di un passo e mi scrutò. Aveva la faccia rugosa, le gote infossate, eppure io rividi il fanciullo conosciuto un tempo. «Irzia», ripeté, e mi toccò la mano. «Ricordo. Quanti anni…».
«Più di cinquanta», dissi.
Alcuni amici si avvicinarono. Lui li allontanò con un gesto.
«Cinquanta», disse. «Sono stati cortesi con te?».
«Ho allevato cinque figli, tre dei quali vivono e prosperano. Mio marito era un brav’uomo e abbiamo vissuto nel benessere. Gli dèi se lo sono preso e ora non mi importa se sto avvicinandomi al termine della vita».
Mi fissò: «Tra i tuoi figli c’erano femmine?».
Mi sembrò una domanda strana. Risposi: «Sono stata benedetta soltanto con figli maschi».
«E ti hanno onorata?».
«Mi hanno onorata», risposi.
«Allora la tua vita è stata bella», disse. «Forse è stata più bella di quanto tu sappia».
«Sarò contenta di andarmene quando gli dèi mi chiameranno», dissi.
Annuì, e un’espressione malinconica gli affiorò sul viso. Disse, con un’amarezza che non riuscii a capire: «In questo caso, sei più fortunata di me, sorella mia».
«Ma tu…», mormorai, «tu non sei come gli altri uomini. Nelle campagne, la tua immagine protegge i focolari. E così ai bivi e nei templi. Non sei felice di essere onorato dal mondo?».
Mi fissò per un momento e non rispose. Poi si girò verso Quinto, in piedi accanto a me. «Questo è tuo figlio», disse, «ti somiglia».
«È Quinto», dissi io. «Amministra tutte le tenute di Attio Sabino a Velletri. Da quando sono rimasta vedova, ho vissuto laggiù con Quinto e la sua famiglia. Brava gente».
Lui fissò Quinto a lungo, senza parlare. «Io non ho avuto un figlio», disse. «Ho avuto soltanto una figlia, e Roma».
Osservai: «Tutti i cittadini sono tuoi figli».
Sorrise: «Ora credo che avrei preferito avere tre figli ed essere onorato da loro».
Non sapevo che cosa dire. Non parlai.
«Signore», disse mio figlio, con voce malferma. «Siamo persone umili. La nostra esistenza è stata quello che è stata. Ho saputo che oggi parlerai al Senato, per dare saggezza e consigli al mondo. In confronto alla tua, la nostra fortuna non è niente».
«Davvero, Quinto?», disse. Mio figlio annuì. Lui soggiunse: «Quinto, oggi, nella mia saggezza, devo consigliare… devo ordinare al Senato di togliermi ciò che ho più amato in questa vita». Per un momento gli occhi gli balenarono, poi il viso gli si ammorbidì, e lui continuò: «Ho dato a Roma una libertà di cui io solo non posso godere».
«Non hai trovato la felicità», dissi io, «nonostante tu l’abbia data».
«Così è stata la mia vita».
«Spero che tu possa essere felice», dissi.
«Grazie, sorella mia», disse lui. «Non c’è niente che possa fare per te?».
«Sono soddisfatta», risposi. «I miei figli sono soddisfatti».
Annuì. «Ora devo compiere questo dovere», mormorò. Ma poi tacque a lungo, e non si allontanò. «Ci siamo rivisti, come ci eravamo promessi tanto tempo fa».
«Sì, padrone», dissi.
Sorrise. «Un tempo mi chiamavi Tavio».
«Tavio», dissi.
«Arrivederci, Irzia», disse. «Questa volta, forse, noi…».
«Non ci incontreremo più», dissi io. «Vado a Velletri e non tornerò a Roma».
Annuì, mi poggiò le labbra sulla guancia e si allontanò. Si incamminò adagio lungo la via Sacra per raggiungere quelli che lo aspettavano.
Queste parole le ho dette a mio figlio, Quinto, il giorno terzo prima delle Idi di settembre. Le ho pronunciate per i miei figli e per i loro figli, ora e in avvenire, affinché, fino a quando questa famiglia esisterà, possano sapere qualcosa del suo posto nel mondo che era Roma, nei tempi passati.
Il diario di Giulia, Pandataria (4 d.C.)
Fuori dalla mia finestra, le rocce, grigie e tetre nella luminosità del sole pomeridiano, discendono verso il mare. Queste rocce, come ogni roccia dell’isola di Pandataria, sono di origine vulcanica, molto porose e leggere, quindi bisogna camminarci con cautela, per evitare che i piedi vengano feriti da asperità nascoste. Altre persone vivono su quest’isola, ma non mi è consentito vederle. Non accompagnata e non sorvegliata, posso percorrere un tratto di cento metri fino al mare, fino alla sottile striscia di sabbia nera. E passeggiare in ogni direzione, fino alla stessa distanza, partendo da questa casupola di pietre che è la mia dimora da cinque anni. Conosco l’aspetto di questa terra desolata più intimamente di quanto ne abbia conosciuto qualsiasi altra, anche quella della mia Roma natia, con cui vissi in intima amicizia per quasi quarant’anni. È probabile che non debba mai vedere nessun altro luogo.
Nelle giornate limpide, quando il sole o il vento hanno disperso le nebbie che si alzano spesso dal mare, guardo a Oriente. E mi sembra di scorgere a volte la costa italiana, forse anche la città di Napoli, annidata nella sicurezza del suo dolce golfo. Ma non posso esserne sicura. Potrebbe trattarsi soltanto della nuvola scura che a volte appanna l’orizzonte. Non ha importanza. Nuvola o terra, non potrò mai esserci più vicina di quanto lo sono adesso.
Sotto di me, in cucina, mia madre sbraita con l’unica serva che ci sia consentita. Sento l’acciottolio di pentole e tegami, e di nuovo le grida. Ogni pomeriggio si è ripetuto futilmente così, in tutti questi anni. La nostra serva è muta e, nonostante non sia sorda, è improbabile che possa anche soltanto capire la nostra lingua latina. Lo stesso, instancabilmente, mia madre alza la voce con lei, indotta dal suo incrollabile ottimismo. Pensa che la disapprovazione possa essere sentita e giovare a qualcosa. Mia madre, Scribonia, è una donna straordinaria. Ha quasi settantacinque anni, ma possiede più energia e forza di volontà di una giovane, mentre si ostina a disporre in un ordine speciale un mondo che non le è mai piaciuto, e che disapprova. È venuta con me qui a Pandataria non per una parvenza di affetto materno, ne sono sicura, ma alla ricerca disperata di una situazione che confermasse, una volta di più, il suo odio per l’esistenza. E io le ho consentito di accompagnarmi per una sorta di indifferenza.
Quasi non conosco mia madre. La vidi in poche occasioni quando ero bambina, ancor meno di frequente da fanciulla e, quando divenni donna, ci incontrammo soltanto in riunioni più o meno ufficiali. Non le ho mai voluto bene e mi sento in qualche modo più sicura sapendo adesso, dopo questi cinque anni di intimità obbligata, che i miei sentimenti nei suoi riguardi non sono cambiati.
Sono Giulia, figlia di Ottaviano Cesare, l’Augusto. Scrivo queste parole nel quarantatreesimo anno della mia vita. Le scrivo per uno scopo che l’amico di mio padre e mio vecchio tutore, Atenodoro, non avrebbe mai approvato. Le scrivo per me stessa, per poterle meditare. Anche se lo facessi per uno scopo diverso, è improbabile che altri occhi all’infuori dei miei possano leggerle. Ma non lo desidero. Non voglio spiegare me stessa al mondo, e non voglio che il mondo mi capisca. Ormai mi è indifferente. Infatti, per quanto a lungo potrò ancora vivere in questo corpo, che ho servito con tanta cura e arte per tanti anni, la sola parte della mia vita che contava qualcosa è finita. Quindi posso osservare me stessa con l’interesse distaccato dello studioso che, stando a quanto disse una volta Atenodoro, sarei potuta diventare se fossi nata uomo, e non figlia di un Imperatore e di un dio.
…Eppure, quanto è salda la forza delle abitudini! Anche in questo momento, infatti, mentre scrivo le prime parole del mio diario, e mentre so di averle scritte perché siano lette dal più strano dei lettori, me stessa, mi sorprendo a soffermarmi per decidere l’argomento opportuno su cui basare il mio ragionamento, gli elementi del ragionamento, l’efficace disposizione delle sue parti, e persino lo stile con cui tali parti devono essere scritte. Quella che deve essere persuasa – e che allo stesso tempo, invece, vorrebbe essere dissuasa – sono sempre io. È una follia, eppure, penso, non è una follia dannosa. Per lo meno mi occupa le giornate quanto il contare le onde che si frangono sulla costa rocciosa di quest’isola dove devo restare.
Sì, è probabile che la mia vita sia finita, anche se ritengo di non essermi pienamente resa conto di questa realtà fino a ieri, quando mi è stato consentito di ricevere, per la prima volta in quasi due anni, una lettera da Roma. I miei figli Gaio e Lucio sono morti, il primo per una ferita riportata in Armenia, e il secondo per una malattia che nessuno conosce, mentre andava in Iberia, a Marsiglia. Quando ho letto la lettera, sono stata presa da uno stordimento. Ho aspettato il dolore, che immaginavo sarebbe seguito. Ma non c’è stato dolore. Allora ho cominciato a guardare la mia vita e a ricordare i momenti che l’avevano segnata, come se io non fossi interessata alla cosa. E mi sono resa conto che era tutto finito. Non curarsi di se stessi ha poca importanza, ma non curarsi di chi si è amato è tutt’altra cosa. Tutto è divenuto oggetto di una curiosità indifferente, niente è importante. Forse scrivo queste parole, e ricorro agli espedienti che ho imparato, per poter scoprire se riuscirò a strapparmi a questa enorme indifferenza in cui sono affondata. Dubito di poterci riuscire. Non più di quanto riuscirei a spingere queste rocce massicce giù per il pendio, nel tenebroso abbraccio del mare. Resto indifferente persino al mio dubbio.
Sono Giulia, figlia di Gaio Ottaviano Cesare, l’Augusto, e nacqui a Roma il terzo giorno di settembre, nell’anno del consolato di Lucio Marzio e Gaio Sabino. Mia madre è quella Scribonia il cui fratello fu suocero di Sesto Pompeo, il pirata distrutto da mio padre, per la salvezza di Roma, due anni dopo la mia nascita…
È questo un inizio che persino Atenodoro, il mio povero Atenodoro, avrebbe approvato.
Lettera: Lucio Vario Rufo
a Publio Virgilio Marone, da Roma (39 a.C.)
Mio caro Virgilio, confido che la tua malattia non peggiori e che il tepore del sole napoletano abbia effettivamente migliorato le tue condizioni di salute. I tuoi amici ti mandano i migliori auguri e mi hanno incaricato di assicurarti che il nostro benessere dipende dal tuo. Se tu stai bene, stiamo bene anche noi. I tuoi amici mi incaricano inoltre di comunicarti il rincrescimento di tutti perché ieri sera non potesti partecipare al banchetto nella casa di Claudio Nerone, banchetto da cui comincio a riprendermi appena questo pomeriggio. È stata una serata straordinaria e forse riuscirò a distrarti dal male facendotene una descrizione.
Conosci Claudio Nerone, quello che doveva essere il tuo anfitrione? Parla di te con una certa familiarità, per cui presumo che tu lo abbia almeno incontrato. Se lo conosci, ricorderai forse che appena due anni fa era in esilio in Sicilia perché si era opposto al nostro Ottaviano Cesare a Perusia. Ora, a quanto pare, ha rinunciato alla politica e lui e Ottaviano sembrano essere i migliori amici. È molto anziano e sua moglie, Livia, pare più sua figlia che sua moglie… Una circostanza fortunata, come capirai tra poco.
È risultata essere una serata letteraria, nonostante dubito che Claudio l’avesse progettata così. È un brav’uomo, ma non molto colto. Ben presto è apparso chiaro che in realtà dietro l’invito si nascondeva Ottaviano e che Claudio era, per così dire, lo pseudo-anfitrione. Il ricevimento intendeva onorare il nostro amico Pollio, che finalmente darà al popolo romano quella biblioteca promessa da tempo, in modo che la cultura possa fiorire anche tra la gente comune.
Era una riunione mista ma, come risultò, molto riuscita. Quasi tutti i presenti erano nostri amici… Pollio, Ottaviano e (ahimè!) Scribonia. Poi Mecenate, Agrippa, io stesso, Emilio Macer. Il tuo «ammiratore» Mevio, che senza dubbio era riuscito a strappare l’invito a Claudio, che a sua volta aveva avuto la melensaggine di invitarlo. Poi ancora c’era un tale che nessuno di noi conosceva, un bizzarro, piccolo pontino di Amasia di nome Strabone, una sorta di filosofo, ritengo. E, come abbellimento, numerose signore di alta classe, di cui non riesco a ricordare i nomi. Nonché, con mio stupore (ma, presumo, con tuo piacere), quel giovane brusco ma simpatico, la cui opera sei stato così cortese da ammirare, il tuo Orazio. Penso che l’abbia invitato Mecenate, nonostante la villania che Orazio gli ha fatto alcuni mesi fa.
Devo dire che Ottaviano era straordinariamente di buon umore, quasi loquace, nonostante i soliti musi di Scribonia. Era appena tornato dalla Gallia, e forse i tanti mesi primitivi passati laggiù lo avevano reso avido di una compagnia civilizzata. Per giunta, adesso pare che le difficoltà con Marco Antonio e Sesto Pompeo siano state accantonate, se non del tutto risolte. O forse la sua allegria era dovuta alla presenza della moglie di Claudio, Livia, di cui egli sembra essersi parecchio incapricciato.
In ogni modo, Ottaviano volle fare la parte del coppiere, e mescolò il vino assai più generosamente di quanto faccia di solito, in parti quasi uguali con l’acqua, per cui, ancor prima che arrivasse la prima portata eravamo quasi tutti brilli. Ottaviano insistette che fosse Pollio, e non lui, a occupare il posto d’onore accanto a Claudio, e preferì mettersi vicino a Livia.
Devo dire che Ottaviano e Claudio furono estremamente cortesi l’uno con l’altro, tenuto conto delle circostanze. Veniva quasi da pensare che fossero arrivati a un’intesa. Scribonia sedeva all’altro tavolo, spettegolando con le signore e lanciando occhiate torve al tavolo a cui sedevamo noi… neanche gli dèi sanno perché si è innervosita. Odia il suo matrimonio almeno quanto Ottaviano, e non è un segreto che divorzieranno subito dopo la nascita di suo figlio. Quali partite devono giocare, quelli che hanno il potere a questo mondo! E quanto devono sembrare ridicoli alle muse! Si vede che chi è più vicino agli dèi è anche più alla loro mercé. Noi siamo fortunati all’estremo, mio caro Virgilio, in quanto non dobbiamo ammogliarci per garantire la nostra stirpe, ma possiamo far marciare mirabilmente nell’avvenire i rampolli del nostro spirito, che non cambieranno né moriranno.
Claudio offre una buona mensa, devo riconoscerlo… un ottimo vino campano prima della cena, e un buon vino di Falerno dopo. Il banchetto non fu né troppo elaborato né troppo semplice: ostriche, uova e cipolline minuscole per cominciare, capretto arrosto, pollo lesso e pagelli alla griglia, e poi una gran varietà di frutta fresca.
Dopo la cena, Ottaviano propose di brindare alle muse e di chiacchierare dei loro diversi scopi. Si chiese se dovessimo fare brindisi singoli alle antiche tre o alle più recenti nove. Infine, dopo essersi finto molto incerto, optò per quest’ultima soluzione.
«Ma», disse, e sbirciò Claudio sorridendo, «dobbiamo onorare le muse soltanto in questi limiti. Non dobbiamo macchiarle accennando alla politica. È un argomento che potrebbe metterci tutti in imbarazzo».
Si levarono risate generali, anche se un po’ innervosite. E, a un tratto, mi resi conto degli innumerevoli nemici, passati o potenziali, che si trovavano in sala. Claudio, che Ottaviano aveva esiliato dall’Italia meno di due anni prima. Lo stesso Pollio, nostro ospite d’onore, che era un vecchio amico di Marco Antonio. Il nostro giovane Orazio che, appena tre anni fa, si batté dalla parte del traditore Bruto. E Mevio, il povero Mevio, la cui invidia è tanto profonda da non evitare a nessuno il tradimento della sua adulazione, o viceversa.
In quanto ospite d’onore, fu proprio Pollio a cominciare. Dopo un inchino di scusa a Ottaviano, decise di lodare l’antica musa della memoria, Mnene. Paragonando l’intero genere umano a una sola creatura, continuò facendo una similitudine tra l’esperienza collettiva dell’umanità e la mente di questa creatura immaginaria. Quindi parlò della biblioteca che sta creando a Roma e di come incarnasse la più importante capacità della mente, la memoria. Poi concluse dicendo che la musa della memoria governava tutte le altre in un regno benevolo.
Mevio emise un sospiro tremulo e disse a qualcuno, in un bisbiglio che sentimmo tutti: «Meraviglioso! Oh, davvero meraviglioso!». Orazio lo guardò e inarcò un sopracciglio con aria dubbiosa.
Agrippa parlò di Clio, la musa della Storia. Mevio bisbigliò sonoramente qualcosa a proposito della virilità e del coraggio, e Orazio fissò Mevio, corrucciato. Quando fu il mio turno parlai di Calliope, però temo che ne parlai male, perché non potevo accennare alla mia opera sul trucidato Cesare, pur trattandosi di un poema, senza ignorare il divieto di Ottaviano contro la politica.
Era tutto piuttosto noioso, nonostante Ottaviano, chino accanto a Livia nella luce delle torce, sembrasse soddisfatto. Soltanto la sua animazione e la sua allegria rendevano possibile ciò che altrimenti sarebbe stato impossibile.
Ottaviano assegnò a Mevio (era ovvio, nonostante Mevio fosse troppo pieno di sé per accorgersene) quella Thalia che è la musa della commedia. Mevio, felice di essere stato prescelto, si lanciò in una lunga e farsesca descrizione (rubata, credo, ad Antifane di Atene) dei nuovi ricchi dell’antica Atene, schiavi, liberti e mercanti, che volevano porsi sullo stesso piano dei loro superiori, e strappavano inviti nelle dimore dei grandi, e si ingozzavano alle loro mense, abusando della cortesia e della generosità dei nobili anfitrioni. Raccontò di come Thalia, dea dello spirito comico, per punire quegli intrusi gli causò una serie di tormenti, in modo che la loro classe fosse facilmente distinguibile e la nobiltà fosse tutelata. Di alcuni, disse Mevio, fece dei nani, o gli diede capelli simili alla paglia in cui erano nati, o li angosciò con i modi della stalla. E così via e così via.
Ben presto divenne chiaro che Mevio stava attaccando il tuo giovane amico Orazio, anche se nessuno capiva bene perché. Nessuno, inoltre, sapeva come comportarsi. Guardavamo Ottaviano, ma il suo viso era impassibile. Guardavamo Mecenate, ma sembrava indifferente. Nessuno osò guardare Orazio, tranne me, che ero seduto accanto a lui. Aveva la faccia pallida nella luce baluginante.
Mevio finì e si riappoggiò, convinto di aver incensato un protettore e distrutto un possibile rivale. Si levò un mormorio. Ottaviano lo ringraziò e disse: «Chi parlerà ora in lode di Erato, musa della poesia?».
E Mevio, eccitato da quello che riteneva un successo, disse: «Oh, ma Mecenate, naturalmente. Lui ha corteggiato la musa e l’ha conquistata. Deve essere Mecenate».
Mecenate protestò con un gesto languido della mano. «Devo rifiutare», disse. «In questi ultimi mesi, la musa si è allontanata dai miei giardini… Forse ne parlerà il mio giovane amico Orazio».
Ottaviano rise e si girò affabilmente verso Orazio. «Ho conosciuto il nostro ospite solo questa sera, ma abuserò di questa conoscenza superficiale. Vuoi parlare, Orazio?».
«Parlerò», rispose Orazio, ma tacque a lungo. Senza aspettare di essere servito da uno schiavo, si versò una misura di vino puro e lo bevve d’un fiato. Poi parlò. Ti riferisco le sue parole come le ricordo.
«Voi tutti conoscete la storia del greco Orfeo, di cui l’assente Virgilio ha così mirabilmente scritto… Figlio di Apollo e della musa Calliope, onorata dal dio con la presenza della sua virilità, ed erede della lira d’oro da cui promanava luce nel mondo, per cui anche le pietre e gli alberi splendono di una bellezza mai vista prima dall’uomo. E sapete del suo amore per Euridice, da lui cantata con tanta purezza e grazia che Euridice si ritenne parte dell’anima del cantore e gli si unì in matrimonio, dopodiché Imene pianse, come per un destino inimmaginabile da tutti. E sapete anche che Euridice, alla fine, spintasi scioccamente oltre i limiti della magia del marito, fu toccata da un serpente uscito dalle viscere della terra e trascinata dalla luce della vita alle tenebre degli inferi… Orfeo, in preda alla disperazione, la seguì, dopo essersi protetto gli occhi da un’oscurità che nessun uomo può immaginare. Là Orfeo cantò così mirabilmente e irradiò tanta luce nelle tenebre che gli stessi spettri sparsero lacrime, e la ruota su cui Issione girava in preda al terrore si fermò. Allora i demoni della notte si intenerirono e dissero che Euridice poteva tornare con il marito nel mondo della luce, purché Orfeo rimanesse bendato e non si voltasse a guardare la moglie che lo seguiva…
«La leggenda non ci dice perché Orfeo non mantenne la promessa. Ci dice soltanto che la violò, vide dove era stato, vide Euridice risucchiata nelle viscere della terra e vide quest’ultima chiudersi intorno a lei impedendogli di seguirla. La leggenda narra inoltre come in seguito cantò la sua sofferenza, e come le Menadi che, vissute solo nella luce, non potevano immaginare dove fosse stato, gli si presentarono e gli si offrirono per distrarlo da quello che sapeva. Orfeo rifiutò e le Menadi, in preda all’ira, urlarono per impedirgli di cantare. Poi dilaniarono il suo corpo e lo gettarono nel fiume Ebro, dove la sua testa mozzata continuò a cantare il canto senza parole, e le sponde stesse si scostarono, ampliandosi, perché la testa canora potesse essere portata al sicuro nel mare sconfinato. Questa è la storia del greco Orfeo che Virgilio ha raccontato e noi abbiamo ascoltato».
Il silenzio era calato nel triclinio. Orazio immerse la tazza nella giara del vino e di nuovo bevve.
«Gli dèi, nella loro saggezza», disse, «ci dicono tutto della nostra vita, se soltanto vogliamo ascoltarli. Ora vi parlerò di un altro Orfeo. Non il figlio di un dio e di una dea, ma un Orfeo italiano il cui padre era schiavo e la cui madre non aveva nome. Alcuni, senza dubbio, schernirebbero un simile Orfeo. Ma a schernirlo sarebbero quelli che hanno dimenticato che tutti i Romani discendono da un dio e portano il nome di suo figlio. E che, inoltre, discendono da una donna mortale e ne portano l’umanità. Di conseguenza anche il nano che ha sul capo una zazzera di capelli color paglia può essere stato toccato da un dio, se è stato generato dalla terra che Marte amava… Questo Orfeo di cui vi parlo non ricevette nessuna lira d’oro, ma solo una misera torcia dall’umile padre che avrebbe dato la vita perché il figlio potesse essere degno del suo sogno. Così a questo giovane Orfeo durante l’infanzia fu mostrata la luce di Roma, insieme ai figli dei ricchi e dei potenti. E, quando era adolescente, a spese di suo padre gli fu mostrata la fonte di quella che si diceva essere la luce dell’intero genere umano, emessa dalla città madre di ogni conoscenza, Atene. Di conseguenza il giovane Orfeo non amò nessuna donna. La sua Euridice fu la conoscenza, un sogno del mondo: per lei lui cantò. Ma il mondo della luce, il suo sogno di conoscenza, fu eclissato da una guerra civile. E, abbandonata la luce, questo giovane Orfeo discese nelle tenebre per recuperare il proprio sogno. A Filippi, quasi dimenticando il suo canto, si batté contro qualcuno che riteneva rappresentasse le potenze delle tenebre. Allora gli dèi o i demoni, ancora oggi lui non sa chi sia stato, gli fecero il dono della viltà e gli ordinarono di fuggire dal campo di battaglia con il potere del suo sogno e della sua conoscenza intatto, invitandolo a non voltarsi a guardare ciò da cui fuggiva. Ma, come quell’altro Orfeo, proprio quando si era ormai posto in salvo, si voltò. E il suo sogno svanì, come vapore, nelle tenebre dei tempi e delle circostanze. Il nuovo Orfeo vide il mondo e seppe di essere solo, senza padre, senza beni, senza speranza, senza sogni… Allora gli dèi gli diedero la lira d’oro, invitandolo a suonarla non come volevano loro, ma come lui desiderava. Gli dèi sono saggi pur nella crudeltà. Poiché lui, che prima non volle mai cantare, ora canta. Non ci sono vergini della Tracia a carezzarlo. Lui se la fa con una onesta baldracca e per un giusto prezzo. Sono i cani del mondo ad abbaiare contro di lui quando canta, cercando di soffocarne la voce. Crescono di numero man mano che lui continua a cantare. E senza dubbio anche il nuovo Orfeo subirà il tormento delle membra strappate dal corpo, anche se canta nonostante i latrati e continuerà a cantare mentre verrà portato verso il mare dell’oblio che ci accoglierà tutti… Sicché, miei padroni e miei ottimi, vi ho raccontato una storia noiosa dell’Orfeo locale. E vi auguro ogni bene».
Mio caro Virgilio, non so dirti per quanto tempo si protrasse il silenzio. Né so dirti la causa di quel silenzio, se fosse scandalo o paura, o se tutti (come me) fossero rimasti incantati, quasi avessero ascoltato una vera lira orfica. Le torce, ormai consumate, baluginavano. E per un momento provai una sensazione bizzarra: come se davvero fossimo stati tutti quanti in quegli inferi di cui aveva parlato Orazio, e ora ne stessimo uscendo, e non osassimo voltarci a guardare. Mevio si mosse e bisbigliò con ferocia, sapendo che sarebbe stato sentito da chi voleva.
«Filippi», disse. «La potenza delle tenebre, davvero! Non è, questo, tradimento contro il triumviro? Non è, questo, tradimento?».
Durante il discorso di Orazio, Ottaviano non si era mosso. Ora si sollevò dal divano e sedette accanto a Livia. «Tradimento?», disse con dolcezza. «Non è tradimento, Mevio. Non ti esprimerai più in questi termini alla mia presenza». Si alzò dal divano e si diresse là dove sedeva Orazio. «Orazio, vuoi consentirmi di mettermi accanto a te?», chiese.
Il nostro giovane amico annuì silenzioso. Ottaviano gli sedette accanto e parlarono insieme sommessamente… Mevio non aprì più bocca quella sera.
Così, mio caro Virgilio, il nostro Orazio, già caro a noi, ha trovato l’amicizia di Ottaviano Cesare. Tutto sommato, è stata una serata riuscita.
Lettera: Mevio a Furio Bibacolo,
da Roma (gennaio, 38 a.C.)
Mio caro Furio, davvero non ho il coraggio di scriverti a lungo di quella serata disastrosa in casa di Claudio Nerone, lo scorso settembre, il cui solo aspetto piacevole fu l’assenza del nostro «amico» Virgilio. Ma forse è meglio così. Infatti dopo quella sera sono accaduti eventi tali da rendere l’intera faccenda ancor più ridicola di quanto sembrasse allora.
Non ricordo in realtà tutti i presenti… Ottaviano, naturalmente, e quei suoi bizzarri amici: Mecenate l’etrusco, ingioiellato e profumato, e Agrippa, che sapeva di sudore e cuoio. Apparentemente era una serata letteraria ma, mio caro, quanto sono cadute in basso le nostre lettere! In confronto a loro anche Catullo, quel piccolo impostore piagnucoloso, sarebbe sembrato quasi un poeta. C’era Pollio, il somaro pomposo, con cui occorre essere affabili a causa della sua ricchezza e del suo potere politico, e le cui opere si è costretti ad ascoltare a non finire se si è così sciocchi da andare ai suoi ricevimenti, soffocando le risa causate dalle sue tragedie e fingendosi commossi dai suoi versi. E, come ti ho già detto, Mecenate, che scrive lugubri poesie in un latino simile a una lingua straniera. Macer, che ha scoperto una decima musa, quella della noia. E quello straordinario, piccolo venuto su dal niente, Orazio, a cui, sarai lieto di saperlo, diedi un’efficace lezione nel corso della serata. Garruli politicanti, sontuosi pettegoli e contadini analfabeti sfigurano il giardino delle muse. È un miracolo se tu e io riusciamo a trovare il coraggio di persistere!
Ma gli intrighi sociali, quella sera, furono assai più interessanti di quelli letterari, ed è di questo in realtà che voglio scriverti.
Tutti abbiamo sentito parlare della propensione di Ottaviano per le donne. In realtà, prima di quella sera, non avevo prestato molta fede a tali voci… È un ometto così pallido e anemico da far pensare che un bicchiere di vino puro e un amplesso appassionato possano mandarlo esanime a raggiungere i suoi antenati (chiunque siano), ma ora comincio a sospettare che ci sia qualcosa di vero.
La moglie del nostro anfitrione è una certa Livia, di antica e conservatrice famiglia repubblicana (ho saputo che suo padre fu ucciso dall’esercito di Ottaviano a Filippi). Una donna straordinariamente bella, se ti piace il tipo. Una creatura modesta e corretta, bionda, fattezze regolarissime, labbra piuttosto sottili, voce morbida, e così via: senz’altro la «patrizia ideale», come dicono. È giovanissima, avrà forse diciotto anni, eppure ha già dato al marito, che deve avere tre volte la sua età, un figlio. Ed era di nuovo visibilmente incinta.
Devo dire che avevamo tutti bevuto parecchio. Ciononostante, il comportamento di Ottaviano fu davvero straordinario. Fece lo sdolcinato con lei come un Catullo ammalato d’amore, accarezzandole la mano, bisbigliandole all’orecchio, ridendo come un ragazzo (come in realtà è, malgrado l’importanza che si è attribuito), e facendo ogni altro genere di sciocchezze. Tutto ciò sotto gli occhi di sua moglie (non che avesse importanza, in realtà, nonostante anche lei sia incinta), nonché del marito di Livia, che sembrava o non accorgersene, o sorridere benevolo, come un padre ambizioso più che come un marito il cui onore si sarebbe dovuto sentire offeso. In ogni modo, sul momento attribuii scarsa importanza alla cosa. Mi sembrò un comportamento piuttosto volgare, ma (mi chiesi) cosa ci si poteva aspettare dal nipote di un comune usuraio di provincia? Se, dopo aver riempito un carro, voleva viaggiare su un altro carro, anch’esso già pieno, era affar suo.
Ma ora, quattro mesi dopo, sta dilagando a Roma uno scandalo talmente straordinario che, ne sono certo, non mi perdoneresti se non te ne informassi.
Meno di due settimane fa, l’ex moglie di Ottaviano, Scribonia, ha dato alla luce una bambina, nonostante verrebbe da pensare che il figlio, sia pure adottivo, di un dio, dovrebbe essere in grado di generare un maschio. Il giorno stesso della nascita, Ottaviano fece avere a Scribonia una lettera di divorzio: la cosa di per sé non fu sorprendente, poiché si dice che l’intera faccenda fosse già stata concertata prima.
Ma, ed ecco lo scandalo, la settimana successiva Tiberio Claudio Nerone divorziò da Livia. E il giorno dopo, nonostante fosse ancora incinta, la diede in moglie a Ottaviano con una dote sostanziosa. La faccenda fu sanzionata dal Senato, i sacerdoti celebrarono sacrifici, la solita buffa commedia.
Come può un uomo simile essere preso sul serio da chicchessia? Eppure è quello che accade.
Il diario di Giulia, Pandataria (4 d.C.)
Le circostanze della mia nascita furono note al mondo intero molto prima di essere note a me. E quando io fui abbastanza cresciuta per capirle, mio padre era il governatore del mondo, e un dio. Il mondo ha capito da un pezzo che il comportamento di un dio, per quanto bizzarro possa sembrare ai mortali, è naturale ai suoi occhi e finisce col sembrare inevitabile a chi deve adorarlo.
Di conseguenza, non mi sembrò affatto strano che Livia dovesse essere mia madre e Scribonia si limitasse ad essere una rara visitatrice in casa mia, una parente lontana ma inevitabile, che tutti sopportavano per un oscuro senso d’obbligo. I miei ricordi di quel periodo sono pallidi e incerti. Ma ora mi sembra che quegli anni siano stati normalmente piacevoli. Livia era ferma, maestosa e freddamente affettuosa. Si trattava di ciò che, crescendo, avevo finito con l’aspettarmi.
A differenza di quasi tutti gli uomini del suo rango, Ottaviano insistette che io venissi allevata alla maniera antica, in casa sua, affidata a Livia anziché a una nutrice. Volle che imparassi le arti casalinghe, a tessere, a cucire e a cucinare. Ma allo stesso tempo che fossi educata in modo confacente alla figlia di un Imperatore. Così, nei miei primi anni mi dedicai alla tessitura con le schiave della famiglia, ma imparai anche le lettere, il latino e il greco dallo schiavo di mio padre, Fedro. E dopo studiai la saggezza con il suo vecchio amico e tutore Atenodoro. Nonostante allora non lo sapessi, la circostanza più significativa della mia vita consisteva nel fatto che Ottaviano non aveva avuto altri figli. Era un difetto della stirpe Julia.
Anche se dovetti vederlo di rado, in quegli anni, la sua presenza dominava più di ogni altra la mia vita. Imparai la geografia dalle sue lettere, che mi venivano lette ogni giorno. Arrivavano in plichi, dovunque lui fosse costretto a trovarsi: in Gallia, Sicilia, Iberia, Dalmazia, Grecia, Asia o in Egitto.
Come ho detto, dovetti vederlo di rado. Eppure anche adesso mi sembra che fosse sempre presente. Se chiudo gli occhi quasi posso sentirmi lanciata in aria, e sentire le risate estatiche del sicuro timore di una bimba, le mani che mi afferrano nel nulla dove sono stata lanciata. Sento la voce profonda, consolante e calda. Sento le carezze sul mio capo. Ricordo quando giocavo insieme a lui con la palla e con i sassolini. E sento le mie gambe faticare su per le collinette del giardino dietro la nostra casa sul Palatino, mentre ci rechiamo fino a un punto da cui si può vedere la città distesa come un giocattolo gigantesco sotto di noi. Eppure non riesco a ricordare la sua faccia. Lui mi chiamava Roma, la sua «piccola Roma».
Il primo ricordo visivo di mio padre risale a quando avevo nove anni. Fu durante il quinto consolato, in occasione del triplice trionfo per le vittorie in Dalmazia, ad Actium e in Egitto.
Dopo di allora, non ci sono più stati festeggiamenti analoghi di imprese militari a Roma. In seguito mio padre mi spiegò di aver giudicato anche quello cui prese parte volgare e barbaro, ma allora si era trattato di una necessità politica. Così, non so se la grandiosità cui assistetti in quell’occasione mi appare tale per la sua unicità e la sua successiva assenza, o se lo spettacolo inciso nel mio ricordo fu davvero grandioso. Non vedevo mio padre da più di un anno, in quanto non aveva avuto modo di tornare a Roma prima della marcia trionfale in città. Era stato deciso che Livia, io e gli altri fanciulli della famiglia andassimo a incontrarlo alle porte della città, accompagnati dal corteo senatoriale e fatti sedere ai posti d’onore in attesa del suo arrivo. Per me era un gioco. Livia mi aveva detto che saremmo andati ad assistere a una sfilata e che dovevo restare calma. Ma non riuscii a non saltellare sulla sedia e a non aguzzare lo sguardo per sorprendere l’arrivo di mio padre. Quando infine lo vidi, risi e battei le mani, e avrei voluto corrergli incontro. Ma Livia mi trattenne. Appena fu abbastanza vicino per poterci riconoscere, mio padre spronò il cavallo precedendo i soldati, mi prese tra le braccia ridendo e poi abbracciò Livia. Ed era mio padre. Forse fu l’ultima volta in cui riuscii a pensare a lui come fosse stato un padre simile ad ogni altro. Infatti, rapidamente, fu condotto via dai pretori del Senato, che lo avvolsero in un mantello di porpora e oro e lo fecero salire sul cocchio trionfale, e portarono Livia e me in piedi accanto a lui su quel cocchio. Poi cominciò il lento corteo verso il Foro. Ricordo la paura e la delusione che provai. Mio padre, accanto a me, nonostante mi sostenesse con dolcezza tenendomi una mano sulla spalla, era un estraneo. I corni e le trombe in testa al corteo lanciavano i loro squilli di battaglia. I littori, con le scuri inghirlandate di alloro, procedevano adagio. Così entrammo in città. La popolazione gremiva le piazze in cui passavamo e urlava così forte che anche il suono dei corni veniva soffocato. Il Foro dove ci fermammo alla fine era brulicante di Romani, a tal punto che non si riusciva a distinguere nemmeno un sasso dell’acciottolato.
Le cerimonie si protrassero per tre giorni. Parlavo a mio padre quando potevo. E, nonostante Livia e io fossimo al suo fianco quasi continuamente, durante i suoi discorsi, i sacrifici e le presentazioni, lo sentivo trascinato via da me, in quel mondo che stavo cominciando a vedere per la prima volta.
Eppure era sempre molto dolce con me, e quando gli parlavo mi rispondeva come se avessi contato per lui tanto quanto un tempo. Ricordo che una volta, durante uno dei cortei, vidi trainare su un carro splendente d’oro e di bronzo la figura scolpita di una donna, più grande del vero, su un giaciglio d’ebano e avorio, con due fanciulli accanto. Avevano gli occhi chiusi, come se dormissero. Chiesi a mio padre chi era quella signora, e lui mi fissò a lungo prima di rispondere.
«Quella è Cleopatra», disse. «Era Regina di un grande paese. Fu nemica di Roma, ma una donna coraggiosa, e amò la sua patria tanto quanto qualsiasi romano potrebbe amare la propria. Rinunciò alla vita per non dover alzare gli occhi nella sconfitta».
Ancor oggi, dopo tanti anni, ricordo la strana sensazione che mi pervase quando sentii quel nome, in quelle circostanze. Si trattava, naturalmente, di un nome familiare. L’avevo sentito pronunciare molte altre volte. Allora pensai a mia zia Ottavia, che in effetti divideva la responsabilità della casa con Livia e che, a quanto mi risultava, un tempo era stata sposata col marito della defunta Regina, quel Marco Antonio morto a sua volta. E pensai ai ragazzi di cui Ottavia si occupava, e insieme ai quali giocavo, lavoravo e studiavo ogni giorno. Marcello e le sue due sorelle, frutto del suo primo matrimonio. Le due Antonie nate dal suo matrimonio con Marco Antonio. Iullo, figlio di Marco Antonio in un matrimonio precedente. E infine la bimbetta ch’era la nuova cocca della famiglia, la piccola Cleopatra, figlia di Marco Antonio e della sua Regina.
Ma non fu la stranezza di queste cose a me note a farmi balzare il cuore in gola. Anche se allora non conoscevo le parole per esprimermi, mi accadde di pensare, fosse per la prima volta, che anche una donna poteva restare travolta dagli avvenimenti del mondo, ed essere distrutta da quel mondo.