III
Il diario di Giulia, Pandataria (4 d.C.)
Tra tutte le donne che conosco, ho ammirato più di ogni altra Livia. Non le ho mai voluto bene, né lei ne ha voluto a me. Eppure si è sempre comportata nei miei riguardi con onestà e cortesia. Andavamo molto d’accordo, nonostante la mia mera esistenza ostacolasse le sue ambizioni, e nonostante lei non facesse segreto della sua ostilità nei miei confronti. Livia conosceva a fondo se stessa e non si faceva illusioni sulla sua indole. Era bellissima e si avvaleva di quella bellezza senza vanità. Era fredda, e poteva fingersi affettuosa con il più grande successo. Era ambiziosa e impiegava la sua considerevole intelligenza esclusivamente allo scopo di raggiungere le mete dell’ambizione. Se fosse stata un uomo si sarebbe dimostrata, non ne dubito, più spietata di mio padre, e l’avrebbero turbata minori rimorsi. Nell’ambito di tale indole era senz’altro una donna ammirevole.
Nonostante io avessi allora appena quattordici anni e non potessi capirne la ragione, sapevo che Livia si opponeva al matrimonio con Marcello, considerandolo un impedimento quasi assoluto alla successione al potere di suo figlio Tiberio. E quando Marcello morì, così rapidamente dopo il nostro matrimonio, lei dovette sentire in modo incalzante le nuove possibilità aperte alla sua ambizione. Infatti, ancor prima che fossero trascorsi i mesi di lutto prescritti, Livia mi avvicinò. In quel periodo a mio padre era stata offerta la dittatura in Italia sulla scia di una carestia, e lui aveva rifiutato: per questo, alcune settimane prima, si era prudentemente allontanato da Roma, con il pretesto di questioni da risolvere in Siria, in modo da non esacerbare ulteriormente le frustrazioni del Senato e del popolo con la presenza del suo rifiuto. Si trattava di una tattica a cui ricorse spesso nella sua vita.
Come sempre, Livia arrivò subito al dunque: «Il tuo periodo di lutto finirà presto», disse.
«Sì», risposi.
«E sarai libera di risposarti».
«Sì».
«Non è opportuno che una giovane vedova rimanga a lungo nubile», continuò.
Non risposi, credo. Dovevo pensare, già allora, che per me la vedovanza era formale quanto lo era stato il matrimonio.
Livia continuò: «Il tuo dolore è forse così grande che la prospettiva del matrimonio ti offende?».
Ricordai che ero la figlia di mio padre: «Farò quello che devo», dissi.
Livia annuì come se si fosse aspettata quella risposta: «Naturale», disse. «Questo è il modo di comportarsi. Tuo padre ti ha parlato della questione? O ti ha scritto?».
«No».
«Sono certa che ci abbia riflettuto». Si interruppe. «Devi renderti conto che ora parlo per me, non per tuo padre. Ma se lui fosse qui, avrei il suo consenso».
«Sì».
«Ti ho sempre trattata come se fossi mia figlia», aggiunse. «Per quanto è stato possibile, non ho mai agito contro il tuo interesse».
Aspettai.
Continuò, adagio: «Trovi in qualche modo di tuo gusto mio figlio?».
Continuai a non capire: «Tuo figlio?».
Ebbe un breve gesto spazientito: «Tiberio, naturalmente». Non trovavo di mio gusto Tiberio, né mai lo avevo trovato tale. Non sapevo perché. In seguito capii che era così perché lui vedeva in tutti gli altri quei vizi che non voleva vedere in sé. Dissi: «Non mi è mai stato affezionato. Mi giudica volubile e instabile».
«Questo non ha importanza, nonostante sia vero».
«Ed è fidanzato con Vipsania». Vipsania era la figlia di Marco Agrippa. Nonostante fosse più giovane di me, la consideravo quasi mia amica.
«Nemmeno questo importa», disse Livia, sempre spazientita. «Tu capisci queste cose?».
«Sì», dissi, e non aggiunsi altro. Non sapevo che cosa dire.
«Sai che tuo padre ti vuol bene», disse Livia. «Qualcuno ha ritenuto che te ne volesse troppo, ma adesso non ha importanza. L’importante è il fatto, e tu lo sai, che lui ti ascolterà più attentamente di quanto quasi tutti i padri siano disposti ad ascoltare le loro figlie, e che esiterebbe a contrastare i tuoi desideri. Quanto tu desideri ha un gran peso per lui. Perciò, se l’idea del matrimonio con Tiberio non ti disgusta, sarebbe opportuno che lo facessi sapere a tuo padre».
Non parlai.
«D’altro canto», aggiunse Livia, «se trovi l’idea del tutto disgustosa, mi renderesti un servigio facendomelo sapere. Non ho mai simulato con te».
La testa mi girava. Non sapevo che cosa dire. Dissi: «Devo ubbidire a mio padre. Non voglio dispiacerti. Non lo so».
Livia annuì. «Capisco la tua situazione. Ti sono grata. Non ti infastidirò più con questo argomento».
Povera Livia. Pensava, credo, che tutto fosse stato deciso, e che la sua volontà sarebbe riuscita a prevalere. Ma non fu così, quella volta. Si trattò forse del colpo più amaro della sua vita.
Lettera: Livia a Ottaviano Cesare, a Samos (21 a.C.)
In ogni cosa ho ubbidito alla tua volontà. Sono stata la tua sposa, e fedele al dovere. Sono stata la tua amica, e fedele ai tuoi interessi. A quanto mi risulta, ti ho deluso sotto un solo aspetto, e ammetto che è una cosa importante.
Non sono riuscita a darti un figlio maschio, o anche semplicemente figli. Seppure è una colpa, non dipende dalla mia volontà. Ti ho offerto il divorzio che, ritengo a causa dell’affetto che nutri per me, hai rifiutato spesso. Ora non posso più essere sicura di tale affetto, e ciò mi turba amaramente.
Nonostante avessi motivi ragionevoli per pensare che tu considerassi Tiberio maggiormente tuo figlio di Marcello, che era soltanto tuo nipote, perdonai la tua scelta a causa della tua malattia e anche perché sostenevi che Marcello aveva il sangue delle stirpi Claudia, Ottavia e Julia, mentre Tiberio non aveva che quello della stirpe Claudia. Perdonai persino quelli che devo ora considerare insulti a mio figlio. Se nell’età estremamente giovanile in cui tu lo giudicasti dava prova di una certa instabilità di carattere e di eccessi, potrei farti notare che il carattere di un ragazzo non è il carattere di un uomo.
Ma ormai la tua linea d’azione è chiara e io non posso nasconderti la mia amarezza. Hai rifiutato mio figlio, e così facendo hai rifiutato una parte di me. E hai dato a tua figlia un padre anziché un marito.
Marco Agrippa è un brav’uomo, so che è stato tuo amico. Non serbo rancore contro di lui. Ma non ha nome, e tutte le virtù che può possedere sono soltanto sue. Può essere stato divertente per il mondo il fatto che un uomo così privo di antenati illustri detenesse tanto potere quale subordinato dell’Imperatore. Non sarà divertente per il mondo il fatto che ora sia il successore designato, e per conseguenza quasi pari, dell’Imperatore stesso.
Spero ti renderai conto che la mia situazione è diventata quasi impossibile. Tutta Roma si aspettava che Tiberio si fidanzasse con tua figlia e che, secondo il normale andamento delle cose, avesse qualche parte nella tua vita. Ma tu glielo hai rifiutato.
E ora rimani all’estero in occasione del nuovo matrimonio di tua figlia, come facesti in occasione del primo, non so se per necessità o per deliberata volontà. Né me ne importa.
Continuerò a fare il mio dovere con te. La mia casa rimarrà la tua casa, aperta a te e ai tuoi amici. Siamo stati troppo vicini nelle nostre comuni fatiche perché possa essere altrimenti. Cercherò, in effetti, di continuare a restarti amica. Non sono mai stata falsa con te, nei pensieri, nelle parole o nei fatti, e non lo sarò in avvenire. Ma devi renderti conto della distanza che ciò ha frapposto tra noi. Più grande ancora di quella che mi separa da Samos, dove ora stai soggiornando. E tale rimarrà.
Tua figlia ha sposato Marco Agrippa e si è trasferita in casa sua. Ora è la madre di quella Vipsania Agrippa che un tempo era la sua compagna di giochi. Tua nipote Marcella, privata del marito, si trova con tua sorella a Velletri. Tua figlia sembra soddisfatta del matrimonio. Confido sia così anche per te.
Manifesto: Timagene di Atene (22 a.C.)
Chi è ora più potente nella casa di Cesare,
colui chiamato da tutti Imperatore e l’Augusto,
o colei che, in base alle costumanze, sarebbe dovuta
essergli compagna affettuosa, sottomessa sia a letto
che nella sala del banchetto? Vedete invece come è governato
il governante: le torce baluginano, allegra è la brigata,
e le risate scorrono più abbondanti del vino. Lui parla
alla sua Livia, e non viene ascoltato. Ancora
le parla, e viene raggelato da un sorriso.
Si dice che una bazzecola le abbia rifiutato.
Si direbbe che il Tevere sia nella morsa dei ghiacci invernali!
Ma, governante o governato, la cosa non riveste grande
importanza.
Là, da un angolino, qualche Lesbia scocca un’occhiata
che oscura le torce. Allegre Delie languiscono
sui divani, nude le spalle nella luce fioca.
Ma lui le disdegna tutte. Poiché audace ecco venire
a lui la moglie di un amico (che non vede,
poiché i suoi occhi sono colmati dalla visione di un fanciullo
che danza alla luce delle torce). Perché no? pensa
questo governante di uomini. Il suo tempo, Mecenate
generosamente lo ha dato. Quest’altra piccola creatura
di cui non si occupa mai, senz’altro non la lesinerebbe.
Lettera: Quinto Orazio Flacco
a Gaio Cilnio Mecenate, ad Arezzo (21 a.C.)
L’autore del libello è effettivamente, come sospettavi, quello stesso Timagene che incoraggiasti e aiutasti, a cui poco saggiamente offristi la tua amicizia, e che facesti accogliere nella famiglia del nostro amico. Oltre ad essere ingrato come ospite e incerto nel metro, Timagene raggiunge il culmine della stupida indiscrezione. Si è vantato della propria impresa con chi pensa che lo ammirerà, e invece tenta la segretezza tra chi non lo ammirerà. Vorrebbe avere allo stesso tempo le responsabilità della fama e i piaceri dell’anonimato, una situazione ovviamente impossibile.
Ottaviano sa chi è. Non intraprenderà alcuna azione, nonostante (inutile dirlo) Timagene non sia più gradito in casa sua. Mi ha pregato di assicurarti che non ti ritiene in alcun modo responsabile del tradimento. Infatti in questa faccenda si preoccupa tanto dei tuoi sentimenti, quanto dei suoi, e spera che non ti sia trovato in imbarazzo. Prova affetto nei tuoi confronti come sempre. Si dispiace della tua assenza da Roma, ed è benevolmente geloso del tempo che hai deciso di trascorrere ai piedi delle muse.
Anch’io mi rammarico di non vederti più spesso. Ma ritengo di capire, ancor più del nostro amico, la contentezza che devi provare nella tranquillità e nella bellezza della tua Arezzo, lontano dal trambusto e dai fetori di questa straordinaria città. Domani tonerò nella mia piccola casa sopra il Digentia, il cui mormorio mi cullerà le orecchie. Quanto volgari sembreranno laggiù tutte queste cose, come devono sembrarlo a te nel tuo rifugio!
Lettera: Nicolao di Damasco
a Strabone di Amasia, da Roma (21 a.C.)
Mio caro, vecchio amico, hai avuto ragione con le tue descrizioni e con i tuoi entusiasmi nel corso degli anni. Questa è la più straordinaria delle città, nella più straordinaria delle epoche. Trovandomi qui ora, penso che questo è il luogo dove mi ha guidato il destino per tutta la vita, nonostante non posso lamentarmi della lunga serie delle circostanze che hanno ritardato la scoperta.
Come forse saprai, in questi ultimi anni mi sono reso sempre più utile a Erode, che sa di governare la Giudea soltanto grazie alla protezione di Ottaviano Cesare. Ora mi trovo a Roma per rendere a Erode un nuovo servigio, la straordinaria natura del quale ti rivelerò a tempo debito. Per il momento mi limito a dire che ai fini di tale servigio era indispensabile che mi presentassi allo stesso Ottaviano Cesare. E, nonostante tu mi abbia scritto così spesso della tua familiarità con lui, la sua fama e la sua potenza sono tali da travolgere anche le tue assicurazioni. In fin dei conti, un tempo io sono stato il tutore dei figli della sua nemica, Cleopatra d’Egitto.
Ma una volta di più, hai dimostrato di avere ragione anche qui come in ogni altra cosa. Ottaviano mi mise subito a mio agio: mi ha accolto con una cordialità ancora maggiore di quella che mi sarei potuto aspettare come inviato di Erode, ha ricordato la mia amicizia con te, e mi ha detto quanto spesso tu gli facevi il mio nome. Dopo una conoscenza così superficiale, non volevo parlargli della mia missione. Per cui fu particolarmente lieto quando mi invitò la sera dopo a cenare con lui nella sua residenza privata. Naturalmente, mi ero presentato nel suo Palazzo Imperiale di cui, a quanto mi risulta, si serve soltanto per i doveri ufficiali.
In realtà, non ti credetti quando mi scrivesti della modestia della sua casa. Ma mi resi conto che il semplice lusso del mio alloggio a Gerusalemme la farebbe sfigurare. Ho visto mercanti moderatamente ricchi vivere con più eleganza. E non si tratta, ritengo, semplicemente di un’affettazione di quell’austerità a cui esorta gli altri. In questa incantevole e comoda piccola casa, sembra un anfitrione cordiale ansioso di piacere ai suoi ospiti, anziché il governante del mondo.
Consentimi di descriverti la scena e di ricordare l’essenza di quella serata come fa il nostro maestro Aristotele nelle meravigliose Conversazioni che studiammo un tempo.
La cena, tre portate eccellenti servite in uno stile tra l’austero e l’elegante, è terminata. Si mesce il vino, i servi vanno e vengono silenziosi tra gli ospiti. È una riunione poco numerosa, di parenti e amici di Giulio Cesare. Distesa accanto a Ottaviano c’è Terenzia, la moglie di Mecenate che (con mio rammarico, poiché mi avrebbe fatto piacere conoscerlo) è fuori città in questa stagione, e si dedica agli studi letterari nel Nord. Su un altro divano ci sono Giulia, la giovane, bellissima e vivace figlia dell’Imperatore, con il secondo marito Marco Agrippa, un uomo robusto e tarchiato che, nonostante la sua distinzione e la sua importanza, sembra stranamente fuori posto. Il grande Orazio, basso e massiccio, con i capelli brizzolati intorno alla faccia giovanile, ha fatto sdraiare accanto a sé la danzatrice siriana da cui siamo stati intrattenuti prima della cena e (con suo innervosito ma esultante piacere) la stuzzica facendola ridere. Il giovane Tibullo (che langue in assenza dell’amante) siede davanti alla coppa del vino e osserva la compagnia con benevola tristezza. Accanto a lui ci sono il suo protettore Messalla (che un tempo fu esiliato dai triumviri, si batté con Marco Antonio contro Ottaviano Cesare, e ora ha disinvolti rapporti d’amicizia con il suo anfitrione ed ex nemico!), e quel Tito Livio a cui accennavi così di frequente e i cui primi volumi della lunga Storia di Roma hanno cominciato ad apparire con regolarità sui banchi dei manoscritti. Messalla propone un brindisi a Ottaviano Cesare. Questo, a sua volta, propone un brindisi a Terenzia, di cui si occupa con cortesia e considerazione. Beviamo e la conversazione ha inizio. Il nostro anfitrione parla per primo.
Ottaviano Cesare: «Miei cari e vecchi amici, colgo questa occasione per presentarvi il nostro ospite. Dall’amico e alleato di Roma in Oriente, quell’Erode che governa la Giudea, giunge l’emissario Nicolao di Damasco, anche studioso e filosofo di grande fama, e perciò due volte più gradito alla compagnia che onora la mia casa in questa lieta occasione. Sono sicuro che vorrà rivolgervi lui stesso i saluti di Erode».
Nicolao: «Grande Cesare, sono commosso dalla tua ospitalità e onorato al di sopra dei miei meriti per essere stato accolto nella compagnia dei tuoi celebri e intimi amici. Effettivamente Erode desidera che io comunichi, a te e ai tuoi colleghi nel destino di Roma, i suoi saluti rispettosi. La cortesia e il reciproco affetto mi persuadono che mi sarà consentito di parlarti apertamente della missione che sono venuto a compiere dall’antica terra di Giudea. In pegno del rispetto sconfinato che nutre per Ottaviano Cesare, il mio amico e padrone Erode mi ha consentito di venire a Roma per parlare all’uomo che ha portato questa capitale alla luce dell’ordine e della prosperità, e che ha unito il mondo. In onore di quel Cesare di cui sono ospite, mi propongo di scrivere una Vita che celebrerà la sua fama in tutto il mondo».
Ottaviano Cesare: «Per quanto sia lusingato dal gesto del mio buon amico Erode, devo protestare, in quanto i miei conseguimenti non meritano tanta attenzione. Non posso persuadermi del fatto che i considerevoli talenti da te posseduti, o nostro nuovo amico Nicolao, debbano applicarsi a un compito così privo di importanza. Perciò, nell’interesse di quelle più significative missioni culturali che tu potresti compiere, nell’interesse del mio senso del decoro e, ciononostante, con tutta la mia gratitudine e la mia amicizia, devo tentare di dissuaderti da questo compito indegno».
Nicolao: «La tua modestia, grande Cesare, ti onora. Ma il mio padrone Erode vuole che io protesti contro di essa, ricordandoti come, per quanto grande possa essere la tua fama, esistano ancora persone in paesi lontani che sono state informate soltanto oralmente delle tue grandi imprese. Persino in Giudea, dove la lingua latina è parlata soltanto dai pochi colti, ci sono persone che non sanno della tua grandezza. Di conseguenza, se una narrazione delle tue imprese venisse scritta nella lingua greca che tutti conosciamo, allora la Giudea e gran parte del mondo orientale potrebbero rendersi conto ancor più profondamente di quanto tutto dipenda dal tuo benefico potere. Così, inoltre, Erode potrebbe governare più saldamente, sotto i tuoi auspici e la tua saggezza».
Agrippa: «Grande Cesare e caro amico, tu hai ascoltato altre volte i miei consigli. Ti esorto ad ascoltarmi ancora. Lasciati persuadere dall’eloquente richiesta di Nicolao, e dimentica la modestia nell’interesse di ciò che devi amare più della tua stessa persona… Roma e l’ordine che le hai assicurato. L’ammirazione, di cui ti faranno oggetto uomini in paesi remoti, diverrà amore per la Roma che tu hai edificato».
Livio: «Sarò così audace da aggiungere la mia voce alle persuasioni che hai appena sentito. Conosco la fama di questo Nicolao che si trova adesso alla nostra presenza: non potresti affidare la tua storia a mani più degne di fiducia. Che l’umanità ripaghi, sia pure in modesta misura, quanto le hai donato con tanta abbondanza».
Ottaviano Cesare: «Mi avete convinto. Nicolao, la mia casa ti è aperta, e hai la mia amicizia. Ma vorrei esortarti a limitare le tue fatiche a quegli eventi che hanno a che fare esclusivamente con le mie azioni nell’interesse di Roma, e a non tediare i lettori con particolari privi di importanza sulla mia persona».
Nicolao: «Accolgo i tuoi desideri, grande Cesare, e mi sforzerò con le mie misere capacità di rendere giustizia alla tua guida del mondo romano».
…E così, mio caro Strabone, sono riuscito nell’intento. Erode sarà soddisfatto, e io sono lusingato immaginando che Ottaviano (insiste che mi rivolga a lui in modo così familiare, nell’intimità della sua casa) riponga piena fiducia nella mia capacità di portare a termine quest’opera. Tu capisci, naturalmente, che il resoconto di cui sopra è stato assoggettato alle esigenze formali del dialogo attraverso cui l’ho espresso. La vera conversazione fu molto meno ufficiale e si protrasse più a lungo. Ci furono molte prese in giro, tutte bonarie. Orazio scherzò sui Greci che portano doni, e chiese se intendessi scrivere la mia opera in prosa o in versi. La vivace Giulia, che stuzzicava continuamente il padre, mi informò che potevo scrivere qualsiasi cosa volessi, in quanto la conoscenza del greco da parte di Ottaviano era tale che avrebbe potuto facilmente scambiare un insulto per un complimento. Ma credo di essere riuscito a cogliere l’essenza dell’atmosfera. Poiché, per quanto queste persone scherzino a vicenda, c’è una sorta di serietà nei loro discorsi… o almeno così a me sembra.
Inoltre, per sfruttare ulteriormente il mio soggiorno qui (che promette di essere lungo), ho in progetto un’altra opera oltre alla Vita di Ottaviano Cesare che mi ha commissionato Erode. Si intitolerà Conversazioni con Romani insigni, e presumo che quanto hai letto adesso ne farà parte. Ti sembra un’idea realizzabile? Pensi che il dialogo sia la forma adatta in cui scriverla? Aspetterò il tuo consiglio, a cui attribuisco la grande importanza di sempre.
Lettera: Terenzia a Ottaviano Cesare,
in Asia (20 a.C.)
Tavio, Tavio caro… Pronuncio il tuo nome per chiamarti, ma tu non appari. Puoi mai renderti conto di quanto sia crudele la tua assenza? Me la prendo contro la tua grandezza, che ti chiama lontano e ti trattiene in un paese per me estraneo e detestabile, in quanto ti possiede mentre a me non è consentito. Lo so, mi hai detto che la furia contro la necessità è la furia di un fanciullo, ma la tua saggezza è volata via da me insieme al tuo corpo, e io sarò una bambina irrequieta finché non tornerai.
Come ho potuto lasciarmi persuadere a farti allontanare da me, che non posso essere felice nemmeno per un giorno senza la tua presenza, dopo che mi hai amata? Sarebbe stato lo scandalo, dicesti, se ti avessi seguito… Ma non può esserci scandalo, quando tutti già sanno. I tuoi nemici bisbigliano, i tuoi amici tacciono. Tutti sanno bene come tu sia al di sopra dei costumi ritenuti necessari dagli altri per condurre delle esistenze ordinate. Né avremmo fatto alcun male ad alcuno. Mio marito, che mi è amico quanto lo è per te, non conosce quell’orgoglio del possesso da cui potrebbe essere dominato un uomo di minore statura. Sin dall’inizio sapevamo che io avrei avuto amanti, e che Mecenate sarebbe andato là dove i suoi gusti lo conducono. Mio marito non fu un ipocrita allora, né lo è adesso. E Livia sembra soddisfatta di come stanno le cose. La vedo alle letture di poesie, e mi rivolge la parola cortesemente. Non siamo amiche, ma ci comportiamo piacevolmente l’una con l’altra. Dal canto mio, le voglio quasi bene: decise di rinunciare a te, e così tu potesti divenire soltanto mio.
Ma sei mio? So che lo sei quando ti trovi con me, ma quando sei così lontano… Dove sono le tue carezze, che mi dicono più di quanto abbia saputo fino a ora? Ti fa forse piacere la mia infelicità? Spero di sì. Gli innamorati sono crudeli. Sarei quasi felice se sapessi che sei infelice quanto me. Dimmi che sei infelice, mi darà qualche consolazione.
Perché a Roma non trovo alcun conforto: tutto mi sembra insignificante, ormai. Vado alle cerimonie cui sono obbligata ad assistere a causa della mia posizione, e i riti mi sembrano vuoti. Vado al Circo e non mi importa di sapere chi vincerà le corse. Vado alle letture di poesie, e i miei pensieri vagano lontano dai versi, anche da quelli del nostro amico Orazio. E ti sono stata fedele, in tutte queste settimane… Ti direi la stessa cosa anche se non fosse vera. Ma è vera: ti sono stata fedele. Ha qualche importanza per te?
Tua figlia sta bene ed è contenta della sua nuova vita. Vado a trovare lei e Marco Agrippa una o due volte ogni settimana. Giulia sembra lieta di vedermi, siamo diventate amiche, credo. È molto avanti nella gravidanza, e sembra felice dell’imminente maternità. Vorrei un figlio da te? Non lo so. Che cosa direbbe Mecenate? Sarebbe un nuovo scandalo, ma così divertente! Vedi quanto chiacchiero, proprio come avevo l’abitudine di fare alla tua presenza.
Non ci sono pettegolezzi abbastanza divertenti perché valga la pena di comunicarteli. I matrimoni che favoristi prima di partire da Roma sono stati celebrati. Tiberio, a quanto pare, ha rinunciato alle sue ambizioni e ha sposato Vipsania, e Iullo Antonio ha preso in moglie Marcella. Iullo sembra felice di essere tuo nipote e di far parte ufficialmente della famiglia di Ottaviano, e persino Tiberio ha l’aria di essere contento, sia pure a malincuore. Nonostante sappia che l’unione di Iullo con tua nipote è più vantaggiosa del suo matrimonio con una delle figlie di Agrippa.
Tornerai da me quest’autunno, prima che le tempeste invernali rendano il tuo viaggio impossibile? O aspetterai la primavera? Non riuscirò a sopportare la tua assenza così a lungo. Devi dirmi tu come potrò fare.
Lettera: Quinto Orazio Flacco
a Gaio Cilnio Mecenate, ad Arezzo (19 a.C.)
Il nostro Virgilio è morto.
Ho appena ricevuto la notizia, e ti scrivo prima che il dolore travolga lo stordimento da cui sono preso adesso, uno stordimento simile al preannuncio di quel destino inesorabile da cui è stato raggiunto il nostro amico, e da cui siamo tutti inseguiti. Le sue spoglie mortali si trovano a Brindisi, vegliate da Ottaviano. I particolari sono pochi. Ti comunicherò quello che ho saputo perché, non ne dubito, il dolore di Ottaviano gli impedirà di scriverti per qualche tempo.
A quanto pare, il lavoro di revisione del suo poema, per procedere al quale si era allontanato dall’Italia, aveva incontrato qualche difficoltà. E così quando Ottaviano, di ritorno a Roma dall’Asia, si fermò ad Atene, non stentò a persuadere Virgilio ad accompagnarlo in Italia, di cui il sommo poeta aveva già nostalgia, nonostante mancasse da meno di sei mesi. O forse aveva qualche presentimento della propria morte e non voleva che il suo cadavere si consumasse in terra straniera. In ogni modo, prima di accingersi all’ultimo viaggio convinse Ottaviano a visitare Megara con lui. Forse voleva vedere quella valle di rocce dove si dice che il giovane Teseo abbia ucciso l’assassino Scirone. Quale che fosse il motivo, Virgilio rimase troppo a lungo al sole e si ammalò. Ma volle continuare il viaggio. A bordo della nave, le sue condizioni peggiorarono e fu riassalito da una vecchia malaria. Tre giorni dopo lo sbarco a Brindisi, si spense. Ottaviano si trovava accanto al suo letto di morte, e lo accompagnò sin dove è possibile ad ognuno di noi in quel viaggio da cui non si torna.
Mi risulta che Virgilio fu quasi sempre in delirio negli ultimi giorni… Anche se non dubito che il suo delirio sia stato più ragionevole di quello della maggior parte degli uomini lucidi. In ultimo pronunciò il tuo nome, il mio e quello di Vario. E strappò a Ottaviano la promessa che il manoscritto non completato della sua Eneide sarebbe stato distrutto. Confido che la promessa non sarà mantenuta.
Scrissi una volta che Virgilio era la metà dell’anima mia. Ora sento che quella da me ritenuta un tempo un’esagerazione era invece una sottovalutazione. Infatti, a Brindisi giace una metà dell’anima di Roma. Ci è stato tolto molto più di quanto sappiamo… Eppure i miei pensieri tornano alle cose più insignificanti, a cose che soltanto tu e io, forse, potremo mai capire. A Brindisi, giace. Quand’è che noi tre viaggiammo così felici attraverso l’Italia, da Roma a Brindisi? Vent’anni fa… Sembra ieri. Sento ancora gli occhi bruciarmi per il fumo della legna verde che i proprietari di locande accendevano nei loro caminetti, e sento le tue risate simili a quelle dei fanciulli lasciati liberi dalla scuola. E la contadinella pescata a Trivicus, che promise di venire nella mia stanza e non venne. Sento Virgilio burlarsi di me e ricordo i giochi sfrenati. E le conversazioni pacate. E gli agi lussuosi di Brindisi, dopo la campagna.
Non tornerò mai più a Brindisi. In questo momento il dolore mi sta sopraffacendo e non riesco più a scrivere.
Il diario di Giulia, Pandataria (4 d.C.)
Nella mia gioventù, quando la conobbi, giudicai Terenzia una donna insignificante, sciocca e divertente, e non riuscii a capire la passione di mio padre per lei. Cicalava come una gazza, civettava in modo oltraggioso con tutti, e mi sembrava che non avesse mai fatto un solo pensiero serio. Suo marito, Gaio Mecenate, nonostante fosse amico di mio padre, non mi piaceva. E non riuscivo a capire come Terenzia avesse mai potuto accettare di unirsi a lui. Rievocando il passato, mi rendo conto adesso che il mio matrimonio con Marco Agrippa fu quasi altrettanto strano. Ma allora ero giovane e ingenua, e così piena di me da non riuscire a capire nulla.
Ora credo di aver capito Terenzia. A modo suo, può essere stata più saggia di ognuno di noi. Non so dove sia finita. Cosa accade alle persone che, silenziosamente, scivolano fuori della nostra vita?
Ora penso che amasse mio padre, forse in un modo incomprensibile anche per lui. O forse lui lo capì. Gli fu ragionevolmente fedele, e si prese amanti passeggeri soltanto durante le sue lunghe assenze. E forse, inoltre, la tenerezza che lui aveva per lei era più seria di quanto la sua apparente e divertita tolleranza mi inducesse a credere. Rimasero insieme per più di dieci anni, e parvero esserne felici. Ora capisco, e forse vagamente lo intuivo anche allora, che i miei giudizi erano quelli della gioventù e della posizione sociale. Mio marito, che avrebbe potuto essermi padre, era l’uomo più importante di Roma e delle province in assenza di Ottaviano. Io mi immaginavo come un’altra Livia, fiera e grave quanto lei, al fianco di un uomo che avrebbe potuto benissimo essere il vero Imperatore. Di conseguenza non mi sembrava opportuno che mio padre dovesse amare una Livia improbabile come Terenzia. Ma ora ricordo cose di cui allora non mi rendevo conto.
Ricordo quando mio padre tornò solo dall’Asia, dopo aver tenuto tra le braccia, appena pochi giorni prima, a Brindisi, il suo morente amico Virgilio, vedendo il respiro cessare nel suo corpo. Terenzia fu la sola a consolarlo. Non Livia. Non io. Avevo un’idea della morte, ma non la conoscevo. Livia si limitò a dirgli le parole rituali che dovrebbero consolare: Virgilio aveva fatto il suo dovere nei confronti del paese, sarebbe vissuto nel ricordo dei compatrioti e gli dèi lo avrebbero accolto come uno dei loro figli prediletti. Inoltre gli lasciò capire che un dolore eccessivo non si addiceva alla persona dell’Imperatore.
Mio padre la fissò con gravità e disse: «Allora l’Imperatore dimostrerà il dolore che si addice a un Imperatore. Ma come potrà l’uomo dimostrare il dolore che gli si addice?».
Fu Terenzia a consolarlo. Pianse per la perdita del loro amico, rievocò antichi ricordi, finché mio padre divenne l’uomo e pianse a sua volta, e in ultimo dovette consolare Terenzia e così consolò se stesso.
Non so perché ho pensato a Terenzia proprio oggi, o alla morte di Virgilio. Il mattino è luminoso, il cielo limpido. Lontano, al di là della finestra, a Oriente, vedo il promontorio che sporge sul mare, sopra Napoli. Forse ho ricordato che Virgilio viveva là quando non era a Roma, e che aveva avuto molto affetto per Terenzia, in quel suo modo austero che celava tanto sentimento. E Terenzia è una donna, come lo ero io un tempo.
Come lo ero io un tempo… Forse Terenzia era soddisfatta di essere donna, e io no? Quando vivevo nel mondo, ritenevo che fosse soddisfatta e provavo nei suoi riguardi un segreto disprezzo. Ora non so. Non posso conoscere il cuore di un’altra donna. Non conosco neppure il mio.
Lettera: Nicolao di Damasco a Strabone di Amasia (18 a.C.)
Erode è a Roma. È molto contento della mia Vita di Ottaviano Cesare, diffusa all’estero, e vuole che rimanga in città per un periodo di tempo indeterminato, in modo da avere un collegamento sicuro con l’Imperatore. Si tratta di un incarico molto delicato, come puoi ben immaginare. Ma ho fiducia di poter assolvere i miei compiti. Erode sa che ho la stima e l’amicizia dell’Imperatore e, ritengo, è così saggio da rendersi conto che non tradirò né l’una né l’altra. È un uomo abbastanza pratico per capire che, se facessi una cosa simile, non sarei più di alcuna utilità a nessuno dei due.
Nonostante le tue gentili lodi, sono arrivato alla conclusione che dovrei rinunciare all’opera il cui titolo doveva essere Conversazioni con Romani insigni. Conoscendo queste persone, sono stato costretto a rendermi conto che il modo aristotelico, a cui siamo stati entrambi educati, semplicemente non è quello nei cui termini esse possono essere definite. Si tratta di una decisione difficile da prendere, in quanto può significare due cose: o questi modi in cui siamo stati istruiti sono incompleti, oppure io non sono uno studioso così preparato del maestro come credevo. La prima ipotesi è quasi inconcepibile, la seconda troppo umiliante. E io non ammetterei una cosa simile con nessuno, tranne con te, che mi sei amico sin dalla gioventù.
Permettimi di dimostrarti con un esempio che cosa intendo dire.
Tutta Roma è in agitazione a causa delle notizie relative all’ultimissima legge promulgata dal Senato che, con un recente editto di Ottaviano Cesare, è stato ridotto a circa seicento senatori. Si tratta, in breve, di un tentativo di codificare le costumanze matrimoniali di questo strano paese, costumanze che, in questi ultimi tempi, sono state riconosciute più abbandonandole che rispettandole. Tra le altre cose, la legge concede ai liberti maggiori diritti in fatto di matrimoni e di proprietà di quanti ne abbiano mai avuti. Ciò ha causato qualche malcontento in certi strati sociali, un malcontento soffocato dalle grida contro gli aspetti più stupefacenti della legge, che sono due. Il primo vieta ad ogni uomo, che sia o divenga eleggibile alla carica di senatore per le sue ricchezze, di sposare una liberta, un’attrice, o la figlia di un attore o di un’attrice. Né la figlia o la nipote di un senatore potrà unirsi in matrimonio con un liberto, un attore, o il figlio di chi eserciti questa professione. Nessun uomo nato libero, indipendentemente dal rango, potrà sposare una prostituta, una mezzana, qualsiasi donna incriminata di un reato, una donna che sia stata attrice o qualsiasi donna accusata di adulterio e condannata, indipendentemente dal suo rango.
Ma la seconda parte della legge è ancora più drastica della prima. Stabilisce infatti che ad ogni padre che sorprenda un adultero con la propria figlia in casa sua o nella casa del genero, è consentito (anche se non imposto) uccidere l’adultero senza timore di conseguenze penali, e fare altrettanto con la sua stessa figlia. Al marito è consentito uccidere l’uomo da cui sia stato offeso, ma non la moglie. In ogni caso, ha il dovere di denunciare la moglie colpevole e di divorziare da lei, altrimenti può essere processato lui stesso come mezzano.
Come dicevo, tutta Roma è in agitazione. Vengono fatte circolare satire con frenesia. Corrono voci. E ogni cittadino ha un’idea tutta sua di cosa significhi l’intera faccenda. Alcuni la prendono sul serio, altri no. Alcuni dicono che si dovrebbe chiamarla legge Livia e non legge Giulia, e sospettano che in qualche modo Livia sia riuscita a farla approvare alle spalle di Cesare Ottaviano, per vendicarsi della sua relazione con una certa signora che per giunta è la moglie del suo amico. Altri la attribuiscono allo stesso Ottaviano. Tra costoro, i nemici si fingono oltraggiati dalla sua ipocrisia. Alcuni si sentono incoraggiati da ciò che considerano il ristabilimento delle «antiche virtù», mentre altri ancora considerano la legge un oscuro complotto da parte o dello stesso Ottaviano Cesare, o dei suoi avversari.
In tutto questo caos, l’Imperatore procede con calma, come inconsapevole di quanto la gente va dicendo o pensando. Ma lo sa bene. Sa sempre tutto.
Questo è un aspetto dell’uomo.
Ma ce n’è un altro. È un aspetto che conosciamo io e pochi dei suoi amici. Un aspetto diverso da quello che ti ho mostrato.
In occasioni ufficiali, sono stato ospite a casa sua sul Palatino, dove Livia regna. Queste occasioni sono risultate piacevoli e del tutto prive di tensione. Ottaviano e Livia si comportano l’uno con l’altra con perfetta cortesia, se non con tenerezza. Altre volte, sono stato ospite nella casa di Marco Agrippa e di Giulia, quando Ottaviano era presente, di solito in compagnia di Terenzia, la moglie di Gaio Mecenate. E in numerose intime e non ufficiali occasioni sono stato ospite in casa dello stesso Mecenate, sempre alla presenza di Ottaviano e Terenzia. Quei tre si comportano tra loro con la disinvoltura di una vecchia amicizia.
Ciononostante, la relazione di lui con Terenzia è nota a tutti e lo è stata per parecchi anni.
E c’è di più. Quasi come un filosofo, lui non crede affatto negli antichi dèi dei suoi compatrioti. Eppure, come un contadino, è straordinariamente superstizioso. Si avvale delle predizioni dei sacerdoti in ogni occasione, e si persuade della loro veridicità perché l’avvalersene gli ha assicurato il successo. Si burla (in modo amichevole) di quella che definisce «la pomposità trascendente» degli dèi dei miei compatrioti, e si meraviglia della pigrizia di una razza che riesce a inventare un solo dio. «È più opportuno», disse una volta, «che gli dèi siano molti e lottino tra loro, come fanno gli uomini… No, io non credo che lo strano dio dei vostri ebrei andrebbe bene per noi Romani». E un giorno che lo avevo biasimato (siamo diventati amici fino a questo punto) per la sua fede nei portenti e nei sogni, rispose: «Più di una volta riuscii a salvarmi la vita credendo a quanto i sogni mi avevano detto. La volta in cui non potrò salvarla, smetterò di credere in loro».
In ogni cosa è l’uomo più prudente e cauto, e non affida al caso niente che possa essere assicurato mediante un’attenta preparazione. Ciononostante, nulla gli piace di più che giocare ai dadi, e si dedica volentieri a questa distrazione per ore e ore di seguito. Varie volte mi ha mandato dei messaggeri, per chiedere se avevo qualche ora libera. E ho giocato con lui, nonostante più dello stupido gioco affidato al caso mi diverta osservare il mio amico. Quando gioca, è serissimo, come se il suo Impero stesso dipendesse dal modo di disporsi di quei cubetti d’osso. E quando, dopo due o tre ore di gioco, ha vinto qualche moneta d’argento, è lieto come se avesse conquistato la Germania.
Una volta mi confessò di avere aspirato in gioventù a diventare un uomo di lettere, e di avere composto poesie per emulare l’amico Mecenate.
«Dove si trovano adesso queste poesie?», gli chiesi.
«Perse», rispose. «Le persi a Filippi». Sembrò quasi rattristato. Poi sorrise. «Scrissi persino una commedia, una volta, alla maniera greca».
Mi burlai un poco di lui: «Su uno dei vostri strani dèi?».
Rise. «Su un uomo», rispose, «soltanto su un uomo sciocco e troppo orgoglioso, quell’Aiace che si tolse la vita con la spada».
«E anche questa commedia è andata persa?».
Annuì. «Spronato dalla modestia, gli tolsi una seconda volta la vita… con il raschietto… Non valeva un gran che come commedia. Me lo assicurò il mio amico Virgilio».
Tacemmo entrambi per un momento. Un’espressione triste era calata sul volto di Ottaviano. Poi, quasi brusco, disse: «Vieni. Giochiamo un’altra partita». Scosse i dadi e li gettò sul tavolo.
Capisci cosa intendo dire, caro Strabone? Sono tante le cose che rimangono non dette. Credo quasi che non sia stata escogitata la forma adatta per consentirmi di dire quanto va detto.
Lettera: Quinto Orazio Flacco
a Ottaviano Cesare (17 a.C.)
Devi perdonarmi se ti ho rimandato il messaggero senza una risposta all’invito. Mi spiegò che gli avevi ordinato di aspettarmi. Te lo rimandai assumendomi la responsabilità.
Mi chiedi di comporre l’inno corale per le feste del centenario che hai voluto nel mese di maggio. Tu sai quanto sia lusingato perché me ne ritieni degno: sappiamo entrambi che l’uomo cui sarebbe dovuto toccare questo onore è morto. E io so fino a che punto ritieni importanti questi festeggiamenti.
Di conseguenza, la mia incertezza nell’accettare l’incarico ti sembrerà strana, un’incertezza che mi ha fatto trascorrere una notte insonne. Alla fine sono arrivato alla conclusione che è mio dovere, e anche un piacere, esaudire il tuo desiderio. Ma credo che tu sia a conoscenza delle considerazioni che hanno causato tante esitazioni.
Mi rendo conto della difficoltà del tuo compito nel dirigere questo paese straordinario che io amo e odio, e questo ancor più straordinario Impero che mi fa inorridire e allo stesso tempo mi colma d’orgoglio. So, meglio di quasi ogni altro, quanta della tua felicità hai dato in cambio della sopravvivenza del nostro paese, e so quanto disprezzo hai sempre avuto per quel potere che ti è stato concesso. Soltanto un uomo che disprezza il potere può servirsene così bene. So tutte queste cose, e molte di più. Di conseguenza, quando mi azzardo a discordare dal tuo parere, lo faccio nella piena consapevolezza del buonsenso cui mi trovo di fronte.
Eppure, non riesco a persuadermi del fatto che le tue nuove leggi non daranno soltanto sofferenza a te stesso e al paese.
Conosco la corruzione della nostra città che tu vorresti arginare, e mi rendo conto delle intenzioni delle leggi. Negli ambienti in cui agisci, e che io osservo, la copula è divenuto un atto mirante a conseguire potere, sia sociale che politico. Un’adultera può essere più pericolosa di un cospiratore, sia per la tua persona sia per il suo paese. E l’atto, il cui fine naturale è un piacere affettuoso, è diventato un pericoloso mezzo dell’ambizione. Lo schiavo può assicurarsi così il potere su un senatore, oltre che sul comune cittadino e, in questo modo, la giustizia ne risulta sovvertita. Conosco queste cose, che le tue leggi sperano di poter impedire.
Eppure tu, tu stesso, non puoi desiderare che queste norme siano applicate universalmente, con la severità che deve accompagnarsi all’applicazione della legge. La legge così applicata sarebbe disastrosa per te e per molti dei tuoi amici più leali. E nonostante chi conosce il tuo scopo capisce che tu intendi definire uno spirito e un ideale, la massa dei tuoi nemici non lo capirà. E tu potresti constatare che le leggi contro l’adulterio possono essere asservite a fini ancora più corrotti di quelli contro cui sono state escogitate.
Nessuna legge, infatti, può dar luogo in modo adeguato a un nuovo spirito, né appagare il desiderio della virtù. Questo è il compito del poeta o del filosofo, che possono persuadere perché non hanno potere. Il potere di cui tu disponi (e che, come ho detto, è stato impiegato così saggiamente in passato) non può legiferare contro le passioni del cuore umano, per quanto distruttrici dell’ordine esse siano.
Ciononostante, scriverò l’inno corale per i festeggiamenti, e sarò orgoglioso del compito che mi è stato affidato. Condivido la tua preoccupazione e la tua speranza, anche se temo i mezzi da te prescelti per eliminare l’una e realizzare l’altra. In passato mi sono sbagliato. Spero di sbagliare anche adesso.
Il diario di Giulia, Pandataria (4 d.C.)
Nella prigione di quest’isola la mia vita è finita e io, con indifferenza, mi pongo interrogativi su cose a cui non mi sarei mai interessata, se la mia esistenza non avesse dovuto finire.
Al pianterreno, mia madre dorme nella piccola camera da letto. La nostra serva non si fa sentire. Persino il mare, che di solito bisbiglia contro la sabbia, tace. Il sole di mezzogiorno arde sulle rocce, che assorbono la calura e la riflettono nell’aria, per cui nulla, nemmeno un gabbiano vagabondo, si muove in questo greve torpore. È un mondo senza forza, e io aspetto.
È strano aspettare in questa inerzia, dove nulla conta. Nel mondo da cui io venni, tutto era potere, e ogni cosa contava. Si finiva addirittura con l’amare il potere. E lo scopo dell’amore diveniva non il piacere, ma le innumerevoli gioie del potere.
Rimasi la moglie di Marco Vipsanio Agrippa per nove anni. E, stando ai criteri del mondo nel valutare tali cose, fui una buona moglie. Finché visse, gli diedi quattro figli. E dopo la sua morte ne generai un altro. Erano tutti figli suoi, e tre di loro, essendo maschi, avrebbero potuto contare per il mondo. Risultò poi che non fu così per nessuno di loro.
Penso che fu la nascita dei miei due figli, Gaio e Lucio, a farmi assaporare per la prima volta la più irresistibile tra le passioni, la passione del potere. Gaio e Lucio, infatti, furono immediatamente adottati da mio padre, rimanendo inteso che nell’eventualità della sua morte, dapprima mio marito, e poi l’uno o l’altro dei suoi figli, gli sarebbero succeduti come Imperatore e primo cittadino dell’Impero di Roma. All’età di ventun anni scoprii di essere, a parte la stessa Livia, la donna più importante del mondo.
Il mondo è vuoto, dicono i filosofi. Ma non hanno conosciuto il potere, così come l’eunuco non può conoscere la donna, ed è di conseguenza in grado di osservarla con imperturbabilità. In vita mia, non sono mai riuscita a capire come mio padre non apprezzasse quella felicità del potere grazie a cui imparai a vivere, e che mi rese lieta con Marco Agrippa, che (come diceva così spesso Livia, nella sua amarezza) avrebbe potuto benissimo essere mio padre.
Più volte mi sono domandata che cosa avrei potuto fare del potere di cui disponevo, se non fossi stata una donna. La costumanza voleva che anche le donne più potenti, come Livia, cancellassero se stesse e fingessero una docilità che, in molti casi, andava contro la loro natura. Mi resi conto ben presto che un atteggiamento del genere non era possibile per me.
Ricordo una volta in cui mio padre mi rimproverò perché mi ero espressa con quello che secondo lui era un tono poco femminile e arrogante con uno dei suoi amici, e io risposi che, nonostante lui riuscisse a dimenticare di essere l’Imperatore, io non dimenticavo di essere la figlia dell’Imperatore. Fu una risposta che divenne piuttosto nota e apprezzata a Roma. Mio padre ne parve divertito, perché soleva ripeterla spesso. Io credo che non capisse quanto avevo voluto dire.
Ero la figlia dell’Imperatore. Avevo sposato Marco Agrippa, amico di mio padre. Ma ancor prima di questo, e dopo questo, ero la figlia dell’Imperatore. Tutti riconoscevano che avevo doveri soltanto nei confronti di Roma.
Eppure esisteva una parte di me che, con il susseguirsi degli anni, finii per conoscere in modo sempre più intimo. Era una parte di me che rifiutava questo dovere, sapendo che si trattava di un dovere senza ricompensa…
Un momento fa ho scritto del potere e della felicità del potere. Ora penso ai modi tortuosi attraverso cui una donna deve scoprire il potere, esercitarlo e goderlo. A differenza dell’uomo, lei non può impadronirsene con la forza materiale o della mente o del desiderio. Né può gloriarsene con l’aperta fierezza dell’uomo, che è la ricompensa e il bastone del potere. Deve contenere in sé personaggi che mascherino la sua conquista e la sua gloria. Così io concepii dentro di me, e mostrai al mondo, una serie di personaggi tali da trarre in inganno chiunque potesse scrutare troppo da vicino. La fanciulla ingenua che non conosceva il mondo, e a cui un padre adorante prodigava l’affetto che non poteva dare ad altri. La moglie virtuosa, il cui solo piacere consisteva nel servire il marito. La giovane matrona imperiosa, il cui capriccio diveniva il desiderio di tutti. La pigra studiosa che sognava una virtù tale da trascendere i doveri romani e sosteneva appassionatamente la possibile verità della filosofia. La donna che, più avanti nella vita, scoprì la voluttà e si servì dei corpi degli uomini come fossero lo squisito balsamo degli dèi. E colei che, in ultimo, fu sfruttata per il piacere più intenso mai conosciuto…
Avevo ventun anni quando mio padre decretò i festeggiamenti del centenario per commemorare la fondazione di Roma, e quando diedi alla luce il mio secondogenito. Mio padre e mio marito furono i massimi celebranti ai riti e offrirono molti sacrifici a quegli dèi i cui discendenti si diceva avessero fondato la nostra città. Toccò a me e a Livia presiedere, come pari, il banchetto delle cento matrone. Io occupai il trono di Diana, e Livia, di fronte a me, quello di Giunone. E fummo adorate nel modo rituale. Vidi i volti delle più ricche e delle più influenti donne di Roma levati verso di me. Sapevo come molte di loro fossero sposate con nemici di mio padre che, se non avessero avuto paura, lo avrebbero assassinato. Mi guardavano con l’espressione bizzarra che si accompagna al riconoscimento del potere. Non si trattava di affetto, né di rispetto, né di odio, e nemmeno di paura. Era qualcosa che non avevo mai visto prima, e per un momento mi sembrò di essere appena nata.
Poche settimane dopo i festeggiamenti, mio marito dovette recarsi in Oriente per tutta una serie di missioni. Nelle province dell’Asia Minore, in Macedonia, dove aveva trascorso la fanciullezza, in Grecia, nel Ponto e in Siria, e ovunque le necessità politiche potessero condurlo. Naturalmente, era contrario a tutti costumi romani che io lo accompagnassi, e fino ai festeggiamenti non mi passò mai per la mente che avrei potuto farlo, sfidando tutte le tradizioni.
Ma lo accompagnai, nonostante l’ira e l’opera di persuasione di mio padre. Ricordo che disse: «Nessuna moglie ha mai seguito il proconsole e i suoi soldati in paesi stranieri. È un compito riservato alle liberte e alle prostitute».
E io risposi: «Vorrei sapere, allora, se preferisci che io appaia una prostituta agli occhi di mio marito, o che sia una prostituta a Roma».
La replica voleva essere scherzosa, e lui la interpretò come tale. Ma in seguito, ricordo, mi accadde di pensare che avrebbe potuto non essere uno scherzo. In ogni caso, cedette. Mi unii al seguito di mio marito e, per la prima volta in vita mia, varcai i confini del paese in cui ero nata con i miei figli e i servi.
Da Brindisi ad Apollonia, attraversammo il breve tratto di mare in cui l’Adriatico si apre sul Mediterraneo. Sbarcai ad Apollonia, visitammo i luoghi dove mio marito e mio padre erano stati compagni da ragazzi. Furono escursioni comode e piacevoli, ma ero impaziente di proseguire, verso regioni meno note e non calpestate da piedi romani. Da Apollonia viaggiammo a Nord attraverso la Macedonia, avendo come meta i nuovi territori della Moesia, sino al fiume Danubio. Vidi persone strane che, quando i nostri carri e cavalli si avvicinavano, fuggivano come animali nella foresta e non tornavano più indietro. Si esprimevano in lingue mai udite e si coprivano con pellicce di animali selvatici. Osservai la squallida esistenza dei soldati che avevano avuto la mala sorte di essere assegnati a quell’avamposto dell’Impero. Sembravano stranamente contenti, e mio marito parlava con loro come se quello fosse il modo di vivere più naturale che lui potesse immaginare. Stentavo a ricordare che gran parte della sua esistenza era trascorsa così, prima della mia nascita.
Dopo l’ispezione alle basi militari del Danubio, ci dirigemmo a Sud, molto in fretta, in quanto l’autunno ci era piombato addosso e volevamo sottrarci ai rigori di un inverno nordico. Incominciavo a pentirmi della decisione di accompagnare Marco Agrippa, e ad anelare agli agi di Roma.
Ma potemmo riposarci a Filippi e il mio morale si risollevò. Marco Agrippa mi fece visitare i luoghi in cui aveva combattuto contro le forze di Bruto e Cassio, e mi raccontò le imprese di quei tempi. Poi ci dirigemmo senza fretta verso le sponde del mar Egeo, e navigammo su quelle acque turchine tra le isole. Inoltre, man mano che ci avvicinavamo al Sud, la temperatura diveniva più mite.
Allora cominciai a capire perché gli dèi mi avessero inviato a compiere quel viaggio, lontano dalla città dove ero nata.