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Casa Bianca, Situation Room, Washington dc, 29 settembre

 

«Abbiamo la conferma, signor presidente».

Bill McDermott consegnò la stampa di un messaggio che avevano appena ricevuto dal quartier generale della cia. Il Gulfstream era decollato. Il Corvo era a bordo. L’agenzia aveva la chiavetta usb e il contenuto era stato caricato sui server della cia. Gli analisti erano già al lavoro.

Il presidente mosse la testa in segno di approvazione. Era la prima buona notizia da qualche giorno a quella parte. Ma era ancora furioso con la squadra del Consiglio di Sicurezza. «Perché la linea con Luganov non è stata ancora aperta?», domandò.

McDermott disse che non conosceva il motivo del ritardo. Gli agenti al comando militare nazionale, al Pentagono, avevano riferito che il problema non era loro. A Mosca la stavano tirando per le lunghe e non era ancora chiaro il perché.

 

Marcus sganciò la cintura di sicurezza e si diresse verso l’abitacolo.

La sua priorità era assicurarsi che Morris stesse bene. Era stata colpita alla spalla destra, disse Oleg, e la ferita era abbastanza grave. Oleg stava facendo del suo meglio per fasciarla. L’aveva messa sul suo sedile, completamente reclinato. Aveva cercato di tamponare il sangue con tutto quello che aveva trovato a bordo, dagli asciugamani ai poggiatesta. Le aveva somministrato diverse dosi di morfina per alleviarle il dolore. Poi l’aveva coperta con un plaid e le stava raccontando storie della sua infanzia per distrarla dalla sofferenza.

«Non male per un lacchè del governo», disse Marcus mentre le asciugava il sudore dal viso con una salvietta e le toglieva i capelli dagli occhi.

Le si avvicinò alla guancia e sussurrò: «Starai bene. Te lo posso assicurare».

Morris cercò di sorridere. Non riuscì a fare più di un ghigno, ma l’intenzione era chiara.

Marcus si scusò e si recò al bagno. Non aveva più indosso il camuffamento. Se ne era liberato quando si era messo l’uniforme da copilota. Ma, osservando il suo volto non rasato nello specchio, non era contento di quello che vedeva. Non c’erano più i baffi e il pizzetto finti, ma il dolore era rimasto.

Fu colto da una improvvisa ondata di disperazione. Elena gli mancava terribilmente. Chiudendo gli occhi, la poteva ancora vedere seduta in classe, durante l’ora di inglese con la signora Grantham, in prima media. Avevano solo undici anni. Si erano sposati quando ne avevano poco più di venti. E ora si stava avvicinando ai quaranta da solo. I suoi capelli si stavano ingrigendo sulle tempie, e aveva un dedalo di piccole rughe intorno agli occhi stanchi e arrossati. Graffi e ferite gli segnavano gran parte del corpo e, nonostante le sue corse mattutine e le sedute serali in palestra, era sorpreso dall’enorme stanchezza che si sentiva addosso, quella notte.

Eppure la sua piccola squadra era riuscita ad arrivare dove non credeva sarebbe stato possibile. Ed era stato solo per grazia di Dio, lo sapeva, non per i suoi meriti. E adesso? Che cosa lo aspettava? Il signore li aveva fatti arrivare così lontano solo per essere abbattuti in volo? Si mise una mano in tasca e tirò fuori la chiavetta usb che Oleg gli aveva consegnato. La fissò, chiedendosi quali tesori contenesse. Si chiese se davvero valeva tutto quello che avevano fatto. Solo il tempo ne avrebbe stabilito il valore per il governo americano, e forse per la nato, se la squadra di Clarke avesse deciso di condividere i frutti delle loro analisi. Ma questa missione gli era costata più di quanto Marcus era disposto a pagare. Non aveva riserve morali a uccidere i “cattivi”, soprattutto per proteggere le persone e il Paese che amava. Ma uccidere portava comunque delle conseguenze.

La guerra si sarebbe fermata? Pregò che accadesse. Poi però si rese conto che se il coinvolgimento suo e di Jenny con Oleg fosse stato scoperto, quella sola informazione avrebbe potuto scatenare una guerra con la Russia. E cosa sarebbe successo se fossero morti quella notte, abbattuti da un missile aria-aria? Era un pensiero sgradevole, ma anche una possibilità reale, una probabilità. Non aveva paura. Sapeva dove sarebbe andato dopo la morte. Ed era sicuro che anche Jenny fosse una seguace di Cristo. Gli sarebbe piaciuto molto parlare di fede con lei. Ma Oleg? Che cosa gli sarebbe successo? Marcus si rese conto che, con tutto quello che avevano passato, non aveva pensato neanche una volta all’anima di Oleg. Conosceva il Salvatore? Aveva offerto la sua vita a Cristo? I suoi peccati erano stati perdonati? Gli erano mai stati spiegati i vangeli con chiarezza?

Marcus non ricordava di aver mai pensato a quelle cose quando era nei Marine o nei servizi segreti. Aveva svolto i suoi compiti al meglio delle sue abilità. Non si era mai fatto domande sulla moralità delle missioni. I talebani erano soltanto il male. E Al Qaeda era anche peggio. Ogni persona che aveva ucciso era morta in un conflitto. Marcus avrebbe dato la propria vita per proteggere il suo Paese e i suoi leader. Ma la morte della moglie e del figlio aveva cambiato tutto. E studiare con il pastore Emerson e i veterani del giovedì, a Lincoln Park, lo aveva cambiato ancora. In quei giorni pensava molto all’eternità. Perché, allora, non aveva pensato al destino di Oleg? Fu assalito dai dubbi e dalla vergogna.

 

Petrovskij ricevette altre cattive notizie nel momento in cui arrivò al ministero della Difesa.

L’aeronautica si era messa in moto, ma il jet che trasportava Oleg Stefanovič non era ancora stato trovato. C’erano troppi aerei nel cielo in quel momento, troppo disordine e confusione nei cieli di Mosca e dell’Occidente. Era come cercare un ago in un pagliaio, gli era stato detto.

Andò su tutte le furie. «Impiegate tutti gli aerei che abbiamo a disposizione. Subito!», ordinò.

Accese tutti gli schermi del suo ufficio. Per fortuna, le notizie circa l’assassinio del presidente non erano ancora trapelate. Un rapido controllo dei canali glielo confermò, ma Petrovskij sapeva che la storia non avrebbe retto per molto. Aveva già chiamato il capo di Stato maggiore di Luganov e lo aveva persuaso a convocare l’intero esecutivo per una seduta d’emergenza al Cremlino, senza fornirgli nessun indizio del motivo. Contemporaneamente, sapeva che Kropatkin – che adesso aveva assunto il ruolo di direttore dei servizi segreti– aveva comunicato ai suoi uomini che chiunque avesse fatto trapelare la notizia sarebbe stato ritenuto responsabile di alto tradimento e giustiziato senza processo.

La persona che lo preoccupava maggiormente era Katja Slatskij, che era stata portata al Cremlino, dopo il disastro all’aeroporto. Doveva rimanere isolata a tempo indeterminato. Se c’era una persona che avrebbe subito diffuso la notizia senza alcun riguardo per le conseguenze, quella era lei. Petrovskij aveva ordinato quindi a Kropatkin di mandare qualcuno al Cremlino per drogarla e tenerla in quello stato fino a che non avessero avuto chiaro che cosa fare di lei. Kropatkin non esitò, e giurò che avrebbe eseguito l’ordine all’istante.

Allo stesso tempo, Petrovskij fece recapitare ordini scritti a tutte le truppe russe di cessare le esercitazioni e di cominciare il ritiro dai confini dei Paesi baltici e dell’Ucraina. Per il mondo esterno, quell’azione sarebbe apparsa del tutto in linea con quanto Luganov aveva affermato pubblicamente. La cerchia interna degli alti ufficiali, e Petrovskij ne era consapevole, avrebbe sicuramente pensato che stesse organizzando un colpo di Stato per fermare una guerra che, sapevano, non approvava. Ma lo fece ugualmente. Le ore seguenti sarebbero state caotiche. Non c’era nessuna garanzia che sarebbe riuscito a sedere sullo scranno più alto, al Cremlino, ma se c’era qualcosa che era in suo potere fare, mentre era ancora vivo e in carica, per scongiurare la prospettiva di una guerra nucleare con la nato, era determinato a farla.

Cospirazione Cremlino
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