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Furono portati prima al centro visitatori della Torre Kutaf’ja.
Lì furono accolti da un giovane ufficiale del protocollo che li scortò fino ai banchi di accettazione, dove gli vennero consegnati i tesserini visitatori e passarono attraverso i metal detector. I loro oggetti personali finirono sotto i raggi x e sotto i rivelatori di armi di distruzione di massa. Solo allora furono guidati attraverso la Torre Troickaja, oltre l’Arsenale e il Palazzo di Stato del Cremlino, fino all’edificio giallo pallido conosciuto come Senato.
Quindi furono affidati a un ufficiale del protocollo più anziano, che li stava aspettando. Non sorrise. Non strinse le loro mani. Salutò semplicemente il senatore con fredda indifferenza, ignorando i suoi colleghi, e li portò in un ascensore per il terzo piano. Dovettero fermarsi per un ulteriore controllo di sicurezza, dove si sottoposero ancora una volta alle stesse procedure.
«Di questi tempi, non si può mai essere troppo sicuri», disse uno degli agenti di sicurezza, scorgendo il fastidio negli occhi di Dayton.
Quella frase colpì Marcus come qualcosa di non proprio diplomatico da dire a un senatore americano in visita, ma rispettava i protocolli di sicurezza dei russi, soprattutto dopo gli attentati nei condomini di Mosca di qualche anno prima, altri più recenti attacchi terroristici a Mosca e in varie capitali europee e ovviamente l’attacco alla Casa Bianca, che Marcus aveva vissuto in prima persona.
Dopo essere stati controllati, gli americani vennero condotti in un’anticamera sorvegliata da uomini della sicurezza, armati, in abiti scuri e cravatte orrende. Uno degli uomini li condusse in una sala d’attesa con poltrone eleganti, sedie imbottite e un tavolino da caffè in mogano, dove gli vennero serviti tè e snack leggeri.
Marcus memorizzò ogni dettaglio: quanti uomini c’erano nell’atrio e nella sala, quante le telecamere a circuito chiuso e dove erano posizionate, il suono che facevano le porte quando venivano chiuse e aperte elettronicamente, il numero delle persone non addette alla sicurezza, e così via. Aveva viaggiato in tutto il mondo con il presidente e con il vicepresidente e aveva familiarizzato con il personale di sicurezza e con le procedure di palazzi e edifici governativi di ogni tipo. Ma non era mai stato lì, nel centro del governo russo, ed era immensamente curioso.
L’ufficiale del protocollo più anziano li informò che l’incontro delle quattro e mezzo era stato posticipato alle cinque. Poi alle cinque e trenta. Poi alle sei. E fu soltanto dopo le sette e mezza che poterono finalmente essere scortati nell’ufficio del presidente. Il senatore Dayton era furioso e Marcus si stava preparando per l’invettiva in arrivo. Ma Aleksandr Luganov li spiazzò tutti, salutandoli calorosamente e scusandosi profusamente per averli fatti attendere. Spiegò che un incidente aereo che coinvolgeva un velivolo russo al confine con la Mongolia lo aveva tenuto occupato per ore. Parlò solo in russo, mentre una donna sulla quarantina, accanto a lui, traduceva tutto quello che diceva.
Invece di rimanere seduto dietro alla sua scrivania, Luganov li incontrò al centro dello spazioso ufficio, con le pareti ricoperte di pannelli in legno scuro. Indossava un completo grigio carbone, una camicia blu chiaro e una cravatta di seta cremisi, e sorrise apertamente stringendo la mano del senatore, mentre i fotografi ufficiali del Cremlino, insieme ai cameramen, erano impegnati a catturare il momento. In piedi, a pochi passi da loro, si trovava l’agente speciale Pavel Kovalev, che Marcus sapeva essere il capo della scorta presidenziale.
Luganov illustrò brevemente i manufatti artistici e le grandi fotografie appese alle pareti. Ecco Luganov in piedi accanto a vari presidenti americani, in numerosi vertici del g8, prima dell’invasione dell’Ucraina, quando la Russia ne faceva ancora parte. Ecco Luganov con il premier della Cina, il dittatore della Corea del Nord, il leader supremo dell’Iran, e ancora con il primo ministro israeliano. Sugli scaffali c’erano due scimitarre incrociate, doni del re dell’Arabia Saudita. C’erano anche antichi vasi egizi e una bellissima coppa di ceramica proveniente dall’India.
Mentre i convenevoli proseguivano, Marcus studiava l’uomo che aveva visto l’ultima volta al cancellierato di Berlino. Allora, i capelli di Luganov erano di un colore biondo sabbia con qualche tocco di grigio sulle tempie e si stavano diradando. Ora il grigio se n’era andato e i capelli erano castano scuro. Marcus quasi sorrise, nel rendersi conto che Luganov se li tingeva, ma si sforzò di rimanere impassibile e imperscrutabile. Ma, capelli a parte, Luganov appariva decisamente più vecchio e segnato, con rughe intorno agli occhi, sul viso e sul collo. Il presidente russo aveva solo sessantun’anni quando Marcus l’aveva visto l’ultima volta e sembrava pieno di vigore ed energia. Adesso si avvicinava ai settanta e Marcus non poté fare a meno di notare che, nonostante fosse ancora in forma e con le spalle dritte, sembrava in qualche modo irrigidito, e camminava zoppicando leggermente con la gamba sinistra.
Quando il girò illustrativo finì e arrivò il momento di accomodarsi, Luganov premette un bottone alla destra della sua scrivania. Una porta si aprì e un assistente entrò nella stanza. Marcus lo riconobbe all’istante, ma mantenne un’espressione neutra, senza dire una parola.
«Senatore Dayton, voglio presentarvi mio genero, nonché il mio consigliere più fidato, Oleg Stefanovič Kraskin».
I due uomini si strinsero la mano; poi Oleg salutò Pete e Annie. Quando si avvicinò a Marcus, esitò, anche se solo per un istante. Non disse niente, ma Marcus si accorse dallo sguardo dell’uomo di essere stato riconosciuto. Si strinsero la mano vigorosamente, ma fu tutto. Nessuno dei due uomini dichiarò che si erano già incontrati.
Luganov si sedette dietro la scrivania e fece un cenno affinché tutti si sedessero. L’interprete si accomodò in una piccola sedia di legno dietro la scrivania. Oleg sedette dall’altra parte del tavolo, con il taccuino e la penna pronti. Il senatore si accomodò su una sedia con cuscino, direttamente di fronte al presidente, con Annie alla sua destra e Pete alla destra di lei. Marcus si sistemò sull’unica sedia rimasta libera, alla sinistra di Dayton, e l’incontro ebbe inizio.
E non andò sicuramente come si erano aspettati.