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Ancora più sconvolgente che vedere il presidente della Russia stipulare un accordo per vendere il sistema missilistico s-400 all’Iran, fu leggere, la mattina seguente, i dati salienti dell’accordo sulla prima pagina del quotidiano più letto del Paese.
Nel momento in cui Oleg raccolse il giornale sulla porta di casa, un brivido gli percorse tutto il corpo. Non aveva idea di chi al Cremlino potesse aver fatto filtrare la notizia, ma era del tutto sicuro che sarebbero cadute delle teste. Mentre guidava verso l’ufficio, Oleg ascoltava alla radio, ripetuta su ogni stazione, la notizia bomba di cui si discuteva non solo a Mosca, ma in ogni capitale, da Washington a Gerusalemme fino a Pechino.
L’articolo era stato scritto da Galina Polonskaja, senza ombra di dubbio la giornalista più rispettata del Paese. Già oltre i cinquanta, l’occhialuta e brizzolata Polonskaja era stata per lungo tempo l’articolista con le fonti migliori in ambito politico, a Mosca. Anni prima, era stata la prima a prevedere che Luganov stava per emergere dall’oscurità e che sarebbe stato posto a capo dei servizi segreti. Più tardi, era stata la prima ad anticipare che sarebbe diventato primo ministro, ed era stata ancora la prima a tracciare un profilo della sua ascesa al potere. Grazie a lei emerse lo scandalo della corruzione che affossò il primo ministro dell’Economia di Luganov, e fu sempre lei a rivelare le relazioni extraconiugali e i finanziamenti illegali da parte delle compagnie petrolifere estere che portarono alla caduta della testa del più grande magnate del gas russo, uno scandalo che permise a Luganov di installare uno dei suoi amici più stretti – un uomo senza alcuna esperienza nel business del gas – come nuovo ceo della compagnia. Durante gli ultimi vent’anni, la giornalista aveva stoicamente piantato, annaffiato, potato e protetto le sue fonti. E adesso tutti i semi che aveva sparso sembravano aver generato un raccolto straordinario.
La Polonskaja era sempre sembrata fieramente indipendente a Oleg. Non era al soldo della macchina politica del Cremlino. Era una voce coraggiosa e solitaria contro tutti i tipi di corruzione e i loschi traffici politici. Sei mesi prima aveva scritto un articolo sostenendo che Luganov, da quando era diventato presidente della Federazione Russa, contava tra in suoi possedimenti venti fra ville e palazzi, quindici elicotteri, uno yacht da cinquantatré metri e nove orologi di lusso del valore di oltre diecimila dollari l’uno. L’ufficio stampa di Luganov aveva controbattuto, giudicando il racconto della giornalista un’accozzaglia di “bugie maligne provenienti dall’inferno”. Zakharov aveva pubblicamente additato la Polonskaja come “nemica della verità e quindi nemica del popolo”, e aveva fatto trapelare una storia fasulla secondo cui la giornalista avrebbe copiato la sua tesi di laurea quando era studentessa all’Università di Stato di Mosca.
L’unica inesattezza rilevata da Oleg in quell’articolo era che in realtà Luganov possedeva undici orologi di lusso, non nove. Suo suocero parlava continuamente di soldi. Più di quanto parlasse di politica. Più dell’hockey o della caccia o dei Giochi olimpici, tutte cose che amava. Luganov non era nato in una famiglia ricca. I suoi genitori avevano condotto una vita molto modesta. Ma adesso sembrava ossessionato dall’accumulo di una fortuna immensa. Niente era mai abbastanza per lui. I suoi appetiti erano insaziabili. All’inizio, Yulia sembrava non farci caso. O almeno non aveva fatto obiezioni. E nemmeno Marina. Amavano le raffinatezze della vita. E anche Oleg, sebbene provasse un imbarazzo crescente, e a volte perfino vergogna, per come il suocero ostentava la prorpia agiatezza, soprattutto mentre molti russi facevano ancora la fame. Era negativo per l’immagine del presidente e per quella della Russia a livello globale. E tuttavia nessuno, fuori o dentro al Cremlino, ebbe il coraggio di sollevare mai la questione con il presidente, Oleg incluso.
Tredici giorni dopo la pubblicazione dell’articolo sulle ricchezze di Luganov, il marito della Polonskaja, Mikhail – un famoso oncologo – morì in un incidente aereo vicino al Mar Nero. La dinamica dell’episodio sollevò molte perplessità. L’incidente era avvenuto in pieno giorno, con un tempo ottimo, e con un pilota e un copilota esperti alla guida del velivolo. Oleg si sentì disgustato quando apprese la notizia, e ancora di più quando vide la soddisfazione dipinta sul volto del presidente dopo che Zakharov aveva menzionato l’accaduto durante un incontro dello staff. Se un simile destino si era abbattuto sul marito della giornalista dopo che lei aveva reso pubblica l’enorme fortuna accumulata dal leader russo, che cosa doveva attendersi dopo aver smascherato l’accordo con i tiranni di Teheran? E cosa sarebbe accaduto a chiunque avesse fatto trapelare la storia?
Oleg arrivò presto in ufficio. Ma non appena ebbe avuto il tempo di bere una tazza di chai e cominciare a rispondere alle e-mail, fu convocato dal capo di gabinetto. La segretaria esecutiva di Zakharov era pallida quando Oleg entrò nell’ufficio. Premette un pulsane sulla sua scrivania e fece un cenno alla guardia di sicurezza che stava in piedi davanti alla porta dell’ufficio interno. L’agente si fece da parte e aprì la porta. L’assistente fece un cenno a Oleg, e Oleg entrò. Appena fu dentro, la porta venne chiusa.
«Cosa hai da dire Oleg Stefanovič?», attaccò Zakharov.
Oleg restò in piedi, senza parole. Sapeva che qualche testa sarebbe caduta ma non sapeva che fosse la sua, la testa sul ceppo del boia.
«Quante persone c’erano all’incontro di ieri?», domandò il capo di Stato maggiore, a voce così alta che Oleg era sicuro che sarebbe stato udito in tutto il piano. Non attese la risposta. «Quattro. Solo quattro persone erano in quella stanza – i due presidenti, il segretario iraniano e tu. Nessun altro. Eppure, stamattina Galina Polonskaja ha raccontato al mondo ogni dettaglio di una delle nostre alleanze più segrete. Com’è possibile? Ti abbiamo dato fiducia, Oleg Stefanovič. Io ti ho dato fiducia. Ora vattene fuori. Vai a casa. Riconsidera la tua vita. Riconsidera la tua lealtà. Se tu non fossi il genero del presidente, saresti già in prigione».
Mortificato, Oleg non andò neanche nel suo ufficio per prendere la giacca o la venttiquattrore. Invece, prese immediatamente un ascensore e scese nel parcheggio, salì in macchina e cominciò a vagare per la città. Non andò a casa. Non chiamò Marina. Cosa le avrebbe dovuto dire esattamente?
Qualche minuto prima, era stato accusato di aver infranto almeno una mezza dozzina di leggi, ed erano soltanto quelle che la sua mente da avvocato gli suggeriva. Era stato accusato dal capo di Stato maggiore di aver trasmesso informazioni altamente riservate per la sicurezza dello Stato. Sicuramente un’indagine adeguata avrebbe dimostrato la sua innocenza. Ma sarebbe mai stata condotta? O c’era qualcuno che tentava di incastrarlo? E perché? Che cosa aveva fatto di male? Non era forse sempre stato un fedele servitore del presidente?
Oleg rimuginò su questi e altri interrogativi per quasi un’ora mentre lasciava Mosca e si dirigeva a nord. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Le sue mani erano fredde e appiccicose. A chi poteva credere adesso? Certamente a nessuno, dentro il Cremlino. Questo era molto chiaro. Sicuramente non ai sui genitori. Adoravano il presidente. Ai loro occhi, Luganov era infallibile. Era il guardiano – o meglio, il salvatore – della Russia, soprattutto dopo l’escalation terroristica e il brutale e inarrestabile attacco contro la Cecenia.
E Marina? Se c’era qualcuno a cui voleva raccontare tutto – le sue paure, i suoi dubbi, la miriade di crescenti sospetti – era la moglie che adorava. Ma come avrebbe potuto? La donna che amava di più era la figlia dell’uomo che temeva di più.