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Base aerea di Kubinka, Mosca, 15 marzo 2009
Il corteo di auto del presidente Luganov rombò sull’asfalto alle nove in punto del mattino.
Uscendo dalla sua limousine corazzata, il leader russo camminò risoluto oltre le guardie d’onore che si trovavano ai lati del tappeto rosso, con l’agente speciale Pavel Kovalev, capo della sicurezza personale del presidente, subito dietro di lui. Non c’era nessuna folla da compiacere, nessun membro della stampa e nessuna telecamera a cui sorridere. Quel viaggio non faceva parte delle sue visite ufficiali. In realtà soltanto poche persone sul pianeta sapevano cosa stava succedendo. Luganov salì le scalette di metallo ed entrò nell’aereo presidenziale – un jet a quattro motori Ilyushin ii-96 di grandi dimensioni, con allestimento speciale – e prese posto nella parte posteriore del velivolo.
Il ministro della Difesa Mikhail Petrovskij seguì il presidente sull’aeroplano, insieme a Dmitri Nimkov, il capo dei servizi segreti, e a Boris Zakharov, il capo di Stato maggiore, unitamente a una falange di guardie del corpo e personale militare. Per ultimo, nel suo primo volo sull’aereo presidenziale, veniva Oleg Kraskin. Si concentrò per mantenere un contegno professionale, ma la verità era che Oleg era molto eccitato per il fatto di far parte della delegazione, anche se non quanto lo era stata Marina nell’apprendere che il marito aveva compiuto un altro passo importante nel conquistare la fiducia del padre.
Da quando Luganov aveva deciso di invadere la Georgia e di occupare non meno del venti percento di quella ex repubblica sovietica – e da quando Oleg aveva deciso non soltanto di difendere, ma di sostenere in maniera aggressiva la posizione del presidente in ogni conversazione con i leader mondiali a Pechino – la relazione con il suocero si era consolidata sensibilmente. Le voci di questa fedeltà fiera e agguerrita erano arrivate a Luganov ed erano state grandemente apprezzate.
Anche se Luganov non gli disse mai una parola al riguardo, Oleg poté constatare che i suoi compiti e le sue responsabilità si stavano ingrandendo ed era certo che la causa risalisse a quell’estate del 2008. Gli era stato chiesto di non limitarsi a prendere appunti circa gli incontri più confidenziali che il presidente teneva al Cremlino o altrove, a Mosca. Gli vennero anche fornite le registrazioni di tutte le telefonate del presidente con i membri della Duma e con i vari leader mondiali, con il compito di trascriverle in maniera ufficiale. In effetti, nei mesi recenti, il capo di Stato maggiore lo aveva invitato a partecipare a molte di queste chiamate, per prendere appunti in tempo reale. Era stato incluso in tutti gli incontri ufficiali dei membri più elevati dello staff. Gli erano stati affidati incarichi di crescente complessità e sensibilità e aveva cominciato a viaggiare con il presidente in molte delle sue trasferte nelle province russe.
Ma fino ad allora Oleg non aveva fatto parte di nessuna delegazione ufficiale di Stato. Solitamente due colonnelli del dipartimento della Difesa si alternavano nel ruolo di segretario particolare quando Luganov viaggiava all’estero o si incontrava con capi di Stato esteri. A Oleg era stata offerta una vista privilegiata sui pensieri e sulle azioni di Luganov e dei membri della sua cerchia ristretta, e per questo si sentiva grato. Ma in segreto voleva di più. Mentre cercava di ricordare a sé stesso che centoquarantadue milioni di russi avrebbero dato volentieri un braccio per avere il suo lavoro, la verità era che voleva viaggiare all’estero insieme al presidente. Voleva consigliarlo e metterlo in guardia, voleva far parte della storia e non solo limitarsi a registrarla. In privato si lamentava di essere spesso trattato come un bambino, di essere “visto ma non sentito”. Quando lavorava per lo studio legale era un socio – il più giovane nella storia dello studio. Era stato un membro attivo della squadra, le sue opinioni e i suoi pareri erano tenuti in considerazione, oltre che la sua fedeltà e la capacità lavorativa. Ma da quando aveva cominciato a lavorare al Cremlino, non era più così. E ora, senza alcuna spiegazione, il presidente aveva chiesto personalmente a Oleg di accompagnarlo nel suo viaggio misterioso per incontrare un leader mondiale ancora non identificato, e nessuno dei due colonnelli era in vista.
Oleg si meravigliò del lussuoso interno dell’aereo presidenziale, nome in codice Punto di comando, mentre prendeva posto sul sedile assegnatogli, proprio dietro al presidente, si allacciava le cinture e si preparava al decollo. La dozzina di sedili extralarge posizionati al centro della cabina erano rivestiti di pelle bianca con il sigillo dorato del presidente russo ricamato su ogni poggiatesta. C’era anche un divanetto in pelle bianca da quattro posti e la parte posteriore dell’aereo ospitava una sala conferenze e la cambusa, nella quale gli steward preparavano tutto, dagli snack agli antipasti fino ai pasti completi di alta cucina, e servivano vino, vodka, bevande analcoliche, caffè e chai. Oltrepassata la parte iniziale del velivolo, accanto alla cabina di pilotaggio, c’era una camera da letto per il presidente, un’unità medica e un centro comunicazioni che rendeva possibili connessioni sicure, dati e voce, con ogni parte del mondo.
Dieci minuti dopo, l’Ilyushin era in volo. Quando raggiunsero un’altitudine di crociera di undicimila metri, la luce delle cinture di sicurezza si spense e Luganov chiese a Petrovskij, Nimkov e Zakharov di raggiungerlo nella sala conferenze. Oleg, non ancora informato circa la loro esatta destinazione, guardò fuori dal finestrino le nuvole e la luce del sole, semplicemente felice di essere a bordo.
«Vieni, Oleg Stefanovič. Che cosa stai aspettando? Porta il tuo taccuino».
Oleg alzò lo sguardo sul suocero e sugli altri funzionari, che sembravano sorpresi quanto lui. Era stato convocato nel sancta sanctorum, ed era allo stesso tempo sbalordito e impaurito.
Quando la porta si chiuse dietro di lui, Luganov prese posto a capotavola, impassibile e imperscrutabile. Oleg si sedette dalla parte opposta, ma il presidente gli disse di prendere posto accanto a Zakharov. Oleg ubbidì. Mentre apriva un taccuino nuovo e prendeva una penna dal taschino, notò che Luganov era vestito con un completo blu scuro, una camicia bianca immacolata e una cravatta di seta blu navy, con piccoli pois bianchi. Era un piccolo dettaglio ma si ricordò che era vestito esattamente così il giorno che lo aveva incontrato per la prima volta, il giorno in cui gli aveva chiesto la mano di sua figlia.
Era abbastanza chiaro dove erano diretti – Vladivostok, sede della più grande base navale russa, situata sul mar del Giappone, nell’estrema punta a sud-est dell’impero russo. Il ministro della Difesa Petrovskij spiegò che aveva ordinato alla sua squadra di preparare il viaggio per condurre un’ispezione a sorpresa della flotta sottomarina, cuore della forza navale russa nel Pacifico. E Petrovskij si sarebbe occupato proprio dell’ispezione, accompagnato da Zakharov. Ma il vero scopo di questo viaggio era qualcosa di completamente differente. Una volta giunti a Vladivostok, il presidente, il capo dei servizi segreti, Nimkov e Oleg, si sarebbero recati in una base militare segreta dove avrebbero pranzato con il presidente della Corea del Nord, che li avrebbe raggiunti in treno.
«Perché in treno?», chiese Luganov.
«È terrorizzato dagli aerei, vostra eccellenza».
«Per quanto ha dovuto viaggiare?»
«Per quasi ottomila chilometri».
Oleg smise di scrivere per un momento e guardò Petrovskij. Ottomila chilometri in treno? si domandò, senza dire niente. Questo nordcoreano deve essere davvero folle.
Ma quel giudizio si rivelò perfino riduttivo. Nimkov ricordò a Luganov che l’uomo aveva numerosi titoli che amava venissero usati quando ci si rivolgeva a lui. Voleva essere chiamato “Sempre Vittorioso Comandante dalla Volontà di Ferro”, ma gradiva anche che si facesse riferimento a lui, come al “Glorioso Generale Disceso Dal Cielo”. E anche se “La Più Alta Incarnazione dell’Amore Cameratesco Rivoluzionario” poteva sembrare un appellativo non abbastanza consono, non si sarebbe offeso se Luganov lo avesse chiamato “Stella Polare del Ventunesimo Secolo”.
Oleg avrebbe potuto scrivere un intero libro sull’assoluta bizzarria ed eccentricità del dittatore nordcoreano, che aveva osservato durante l’incontro di due ore fra i due leader, a cominciare da quello che indossava, per finire con quello che mangiava e con il modo in cui si esprimeva. Ma ciò che disturbò maggiormente Oleg fu la vicinanza che Luganov sembrava dimostrare a quell’uomo. Oleg non aveva mai partecipato né aveva mai trascritto nessuna delle conversazioni tra i due leader. Ma l’evidenza suggeriva che i due uomini si erano parlati molte volte durante gli anni passati. Avevano chiaramente un comune terreno d’intesa e stavano sfruttando quell’incontro faccia a faccia per cementare un’intesa bilaterale.
All’inizio, niente sembrava collimare. Sull’aereo, Petrovskij aveva consigliato Luganov su come persuadere il leader nord-coreano a interrompere il suo piano di armamento nucleare ed entrare a far parte di un tavolo di discussione per la pace, insieme a Corea del Sud, Cina, Giappone, Russia e Stati Uniti. Luganov aveva dato l’impressione di essere d’accordo con il ministro della Difesa. Ma quando Petrovskij aveva lasciato la stanza fu chiaro che far chiudere il programma nucleare nordcoreano non era affatto uno degli obiettivi di Luganov.
Mentre Oleg prendeva appunti durante l’incontro tra i due leader, capì che Luganov stava tentando clandestinamente di far desistere Pyongyang dall’alleanza con la Cina, in favore della Russia. Nel farlo, sembrava deciso ad aiutare Pyongyang a diventare una potenza nella sua area, per minacciare ed eventualmente dominare Seoul, Tokyo, Taipei e gli altri Stati del Pacific Rim. Per ottenere questo, Luganov si offrì di cancellare il debito di undici miliardi di dollari che la Corea del Nord aveva contratto con la Russia, e di fornire un quantitativo di grano pari al valore di due miliardi di dollari. Per questo motivo, aveva detto Luganov, stava persuadendo cinque oligarchi a prepararsi a investire l’equivalente di venticinque miliardi di dollari nello sviluppo delle risorse naturali nordcoreane, come il carbone e i minerali del ferro, per i successivi dieci anni. E Luganov stava offrendo l’assistenza tecnica di Mosca per aiutare Pyongyang a costruire missili balistici dotati di testate nucleari capaci di raggiungere gli Stati Uniti.
Le agghiaccianti offerte di Luganov vennero subito accettate, ma la cospirazione che i due leader stavano orchestrando si muoveva lungo linee ancora più tortuose. Convennero infatti che per sviare i sospetti dell’Occidente e quelli della Cina, la Russia avrebbe condannato pubblicamente e con forza i test nucleari di Pyongyang. E stabilirono inoltre che il ministero per gli Affari Esteri russo avrebbe attivamente supportato sanzioni economiche aggiuntive contro la Corea del Nord durante il successivo Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che si sarebbe tenuto più avanti in quel mese.
Sarebbe stata una farsa. La “Stella Polare” non avrebbe potuto essere più chiara nell’affermare che non vedeva l’ora di assumere il ruolo di braccio armato del Pacifico di un “nascente nuovo impero russo”. E acconsentì a condividere per intero con gli scienziati di Teheran i risultati dei test nucleari, allo scopo di far diventare la Repubblica islamica dell’Iran il braccio armato mediorientale di quello stesso impero nascente. Quindi, nei minuti finali del loro tempo insieme, i due uomini abbassarono il tono della voce e in qualche modo stabilirono di aiutarsi vicendevolmente nello sviluppo di “progetti di comune interesse”. Oleg non era sicuro di cosa significasse. E non era neanche sicuro di volerlo sapere. Ma registrò coscienziosamente ogni parola che aveva udito dal traduttore ufficiale e tenne la bocca chiusa.