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Mosca, 16 settembre 1999
Oleg Stefanovič Kraskin arrivò al Cremlino di buon’ora.
Non poteva credere alla sua fortuna. Non solo era fidanzato con la figlia del primo ministro, ma faceva anche parte del suo staff. Non aveva svolto nessun colloquio. Non aveva sottoposto nessun curriculum. Non aveva fornito alcuna referenza. Ma quando un uomo che lavorava per i servizi segreti russi – di cui era stato addirittura a capo – ti recluta seduta stante, puoi essere assolutamente certo che le tue referenze siano già state scrupolosamente vagliate.
Mentre Oleg rifletteva sul vortice di eventi delle settantadue ore precedenti, arrivò a pensare che i servizi segreti avessero cominciato a indagare su di lui già cinque anni prima, quando aveva incontrato Marina per la prima volta. Non averci mai pensato lo imbarazzava. Ma sapeva che il controllo sul suo passato era stato accurato. Luganov era un padre protettivo tanto quanto era un efficiente funzionario. Avrebbe protetto sua figlia con la stessa dedizione con la quale si dedicava alla patria. Ma era anche molto discreto. Nessuno degli amici o degli insegnanti di Oleg aveva mai accennato a un colloquio con l’fsb. Ma senza dubbio erano stati interrogati, perché adesso si trovava al Cremlino con un lasciapassare appeso al collo.
Non erano ancora le sei del mattino. Era atteso intorno alle sette, ma quello era il suo primo giorno di lavoro. Nei due giorni precedenti aveva concluso il lavoro presso lo studio legale, pulito il suo ufficio e salutato tutti. I suoi colleghi – molti dei quali avevano dai trenta ai quaranta anni più di lui – erano sbalorditi e impauriti allo stesso tempo. Organizzarono una piccola festa per lui, anche se Oleg sapeva bene che non erano sempre così gentili; stavano semplicemente cercando di ingraziarsi il futuro genero del prossimo presidente della Federazione Russa.
Dopo aver espletato le pratiche di sicurezza e compilato alcuni documenti essenziali, Oleg venne indirizzato all’ufficio di Boris Zakharov, capo di Stato maggiore e consigliere più anziano. Secondo il padre di Oleg, Luganov e Zakharov erano amici fin dall’infanzia. I due uomini erano stati in Afghanistan nei primi anni Ottanta e avevano lavorato per il kgb prima di dedicarsi alla politica. Molti dei membri dello staff di Luganov, Oleg lo sapeva, erano amici di lunga data del primo ministro. Molti di loro probabilmente non erano qualificati per lavorare in posizioni così delicate. Ma una cosa gli fu chiara fin da subito: le relazioni personali e una fedeltà totale rappresentavano due dei fattori a cui Luganov dava maggior valore.
Zakharov era un uomo grosso e affabile, che accolse Oleg nel suo ufficio e si congratulò calorosamente per il fidanzamento. Chiese a Oleg come avesse conosciuto Marina e com’era riuscito a corteggiarla senza dare nell’occhio. Oleg rispose alla prima domanda ma liquidò la seconda rispondendo che non ne aveva idea. In verità sospettava che gli uomini di Luganov interferissero con la stampa.
«Credo che la signorina Marina te l’abbia già detto, ma questo non sarà, come immaginerai, un matrimonio come tutti gli altri», disse il capo di Stato maggiore dopo un minuto di convenevoli. «Dato che si celebrerà sicuramente dopo le elezioni, ci aspettiamo che il primo ministro sia nel frattempo diventato presidente. Quindi il tuo matrimonio diventerà un affare di Stato. Per questo motivo il mio ufficio – in accordo con l’ufficio del protocollo – si occuperà di tutti i dettagli. Ogni richiesta particolare che avrete, dovrà passare attraverso di me. Faremo sicuramente del nostro meglio per accontentarvi ma dovete considerare che il luogo, la lista degli invitati, i musicisti e tutte le necessarie misure di sicurezza dovranno essere concordati in anticipo – molto in anticipo».
Oleg tenne la bocca chiusa, ma Marina non aveva mai neanche lontanamente accennato a qualcosa di simile. Anche se le aveva fatto la proposta appena due giorni prima, nel loro ristorante preferito, con vista sulla Moscova. Quando aveva visto Oleg in ginocchio, con un bellissimo anello di diamanti in mano, e dopo aver saputo che aveva già chiesto e ottenuto la benedizione di suo padre, Marina gli si era gettata tra le braccia e lo aveva baciato furiosamente.
«Dunque è un sì?», le aveva chiesto lui quando uscirono all’aria aperta.
«Da!», disse Marina, mentre cominciava di nuovo a baciarlo.
Avevano chiamato i genitori di lei, poi quelli di lui e avevano parlato di molte cose. Ma di sicuro non avevano parlato dei dettagli della cerimonia o del fatto che il loro matrimonio sarebbe diventato una questione di Stato, organizzata nei minimi dettagli dai tecnici del Cremlino.
«I russi non vedevano un matrimonio così dal 1894», esclamò Zakharov mentre chiamava al citofono la segretaria e le chiedeva di portargli «il faldone del matrimonio».
«1894?», chiese Oleg, a corto di idee.
«Il matrimonio dello zar», rispose Zakharov, accendendosi una sigaretta e sprofondando nella sedia dietro la sua scrivania. Invitò Oleg a sedersi sulla sedia accanto alla sua.
Le nozioni che Oleg aveva della Russia zarista erano, probabilmente, un po’ troppo elementari. Ma tutti i russi conoscevano i fatti basilari. Lo zar Nicola ii aveva sposato la principessa Alix di Hesse, che è passata alla storia come la granduchessa Aleksandra Fëdorovna, l’ultima zarina prima della rivoluzione, giustiziata sommariamente dai bolscevichi. Il matrimonio era stato celebrato nella Grande Chiesa del Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo. Tutta la dinastia Romanov era presente, così come i reali di tutta l’Europa.
«Le vostre nozze non saranno da meno… forse addirittura più sfarzose», spiegò Zakharov. «Ma naturalmente, diversamente da Nicola e Alix, viviamo nell’era della televisione. E questa cerimonia sarà trasmessa in diretta: tutto il pianeta avrà la possibilità di vedere lo splendore della Russia».
Oleg sbiancò. Trasmesso in televisione? In diretta mondiale? Tutto quello che avrebbe voluto era una cerimonia semplice, qualcosa di privato. Solo i familiari più stretti. Gli amici più vicini. Un prete ortodosso. E una luna di miele in un posto soleggiato e caldo, un luogo molto intimo.
Ma Zakharov non notò la reazione tutt’altro che entusiasta di Oleg, oppure non ci fece caso.
Ci fu un colpo alla porta e la segretaria di Zakharov entrò con due cartelle ad anelli. Le consegnò entrambe al capo, che ne porse subito una a Oleg, raccomandandosi di conservarla con cura e di farla vedere soltanto a Marina e ai suoi genitori. Sottolineò l’esigenza di compilare le prime sei pagine di domande cruciali e di restituire il documento entro quella stessa settimana. A quel punto Oleg sarebbe stato contattato dall’ufficio del protocollo. Ma prima c’erano altre questioni urgenti da considerare.
Zakharov consegnò a Oleg il suo pass permanente, una carta biometrica esclusiva che gli avrebbe garantito l’accesso in quasi tutti gli edifici e le stanze del Cremlino, e negli edifici militari più segreti. Poi lo accompagnò lungo il corridoio verso quello che da lì in avanti sarebbe stato il suo ufficio.
Chiamarlo ufficio era eccessivo, sembrava piuttosto un ex ripostiglio, dove una piccola scrivania, una sedia scricchiolante e un armadio polveroso erano stati incastrati in qualche modo. La stanza non aveva finestre e l’aerazione era pessima, ma era a venti passi dall’ufficio di Luganov e Oleg non protestò.
Zakharov gli consegnò la combinazione cifrata per aprire la porta, la password per il suo nuovo computer e una lista di numeri telefonici catalogati, corrispondenti a tutti gli uffici e a tutte le persone all’interno dell’amministrazione di Luganov. Poi gli comunicò il suo numero di cellulare privato e quello della sua abitazione, dicendogli di memorizzarli e di non darli a nessuno.
Mentre il capo di Stato maggiore stava iniziando a presentare Oleg alle persone chiave che lavoravano al terzo piano, ci fu un improvviso tumulto nei pressi degli ascensori. Una falange di agenti di sicurezza uscì per prima, seguita da due uomini che Oleg riconobbe immediatamente. Il primo era Mikhail Petrovskij, il ministro della Difesa. Il secondo era Dmitri Nimkov, il capo dell’fsb. Solo in quel momento il cercapersone di Zakharov smise di trillare, insieme a quelli di almeno una mezza dozzina di membri dello staff sparpagliati in corridoio.
«Un altro attentato», disse Zakharov, cambiando completamente atteggiamento. «Stammi vicino, Oleg Stefanovič. Fai molta attenzione a tutto quello che viene detto e tieni la bocca chiusa».