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Nascondiglio cia, Mosca, 28 settembre

 

Più scura la notte, più luminose le stelle,

più profondo il dolore, più vicino è Dio!

 

Marcus si svegliò prima dell’alba, al suono dei tuoni e della pioggia scrosciante, con una frase di Dostoevskij che gli echeggiava nella testa. Nonostante il tempo orribile, aveva davvero bisogno di aria fresca e di rimanere in solitudine con Dio. La cia non gli aveva fatto sapere niente riguardo al suo piano per far uscire Oleg dal Paese. Tutto quello che poteva fare era aspettare. E pregare.

Si vestì con una felpa e un paio di scarpe da ginnastica, indossò l’orologio da polso e lasciò una nota per Morris dicendole dove andava e per quanto tempo sarebbe stato fuori. Poi si diresse in bagno, con l’intenzione di lasciare il biglietto sullo specchio, in modo che lei lo trovasse quando si sarebbe svegliata. Ma c’era già un biglietto che lo attendeva. Morris era uscita per correre, mezz’ora prima.

Marcus prese il telefono satellitare e lo mise in tasca, poi scese le scale e uscì in strada. L’unica luce proveniva dai lampioni, ma era sufficiente. Non c’era traffico.

Decise di dirigersi verso nord, avendo cura di registrare mentalmente i luoghi che attraversava in modo da poter trovare la strada di ritorno. Faceva freddo e la temperatura stava scendendo ulteriormente. Poteva vedere il suo fiato e presto iniziò a sentire il vento che gli pungeva il volto. Se la temperatura scendeva ancora la pioggia sarebbe diventata ghiacciata, seguita quasi sicuramente dai fiocchi di neve. Si impose di controllare le previsioni al suo ritorno e di tenerne conto per il piano che stava elaborando. Poi sgombrò la mente, concentrandosi soltanto sul suono dei suoi passi sull’asfalto bagnato e sul gorgogliare dell’acqua che scorreva nelle grondaie e nelle fogne lungo la strada.

Era il momento giusto per iniziare un nuovo capitolo, si disse. Era stato fermo per troppo tempo. Forse Pete aveva ragione. Stava lottando contro la depressione e stava perdendo. Per quanto tempo sarebbe potuto andare avanti? Elena non c’era più. Lars non c’era più. Non sarebbero tornati. Avrebbero amato il Signore. Erano al sicuro insieme a lui, adesso. Non soffrivano più. Solo lui soffriva. Gli anni se ne stavano andando. Per quanto ancora avrebbe dovuto soffrire?

Marcus non sapeva perché Dio se li era presi. Dopo aver studiato a lungo le sacre scritture e dopo innumerevoli consulti con padre Emerson non pensava più che Dio lo avesse punito per tutti gli anni in cui il lavoro per i servizi segreti gli aveva riempito la vita e lo aveva allontanato dalla sua famiglia. Se aveva peccato, sapeva anche che Dio lo aveva perdonato. Ma la realtà era che stava ancora lottando per perdonare sé stesso. Aveva sempre pensato che ci sarebbe voluto più tempo. Ma si sbagliava. Si sbagliava del tutto. Avrebbe dovuto convivere con quel rimorso per il resto dei suoi giorni.

Eppure, si rendeva conto, mentre correva nelle strade buie di Mosca, che non poteva permettere ai rimorsi di paralizzarlo. La notte era stata buia, ma questo non aveva reso le stelle più brillanti? Il suo dolore era stato grande, ma non lo aveva forse avvicinato maggiormente a Dio? E, anche se non lo aveva potuto esprimere a nessuno, Marcus non poteva scrollarsi di dosso l’idea di far parte di un piano di cui solo Dio era a conoscenza.

 

Oleg tornò nel suo ufficio, chiuse la porta e rimase seduto per alcuni minuti.

Chiuse gli occhi, cercando di fermare i suoi pensieri turbinanti e le sue emozioni contrastanti.

E all’improvviso si vide in quella stanza buia, solo e disorientato.

La grande sala – un tempo così elegante e maestosa, perfino opulenta, con i suoi archi, i preziosi dipinti a olio, i candelabri luccicanti e la gloriosa scala circolare che saliva su, su, su – era in fiamme, invasa da un fumo denso e acre. Gli occhi gli facevano male. I polmoni erano alla disperata ricerca di ossigeno. La pelle si spaccava per il calore insopportabile mentre le fiamme correvano ovunque, consumando tutto ciò che trovavano sulla propria strada. Le pareti stavano crollando. Le travi del soffitto si schiantavano al suolo. Nessuna via d’uscita. Nessun suono, solo urla agghiaccianti. E Marina, la sua amata Marina. Stava soffocando. Stava bruciando. E non c’era niente che lui potesse fare per salvarla.

Gli si presentò la stessa visione che aveva sperimentato in modo così vivido la notte prima di proporsi a Marina, la notte prima di diventare un dipendente del presidente. Ma questa volta la capiva. La grande sala era il grande Paese in cui era nato e in cui era cresciuto. Luganov stava conducendo la Madre Russia tra le fiamme di un fuoco terribile e tragico, dal quale né lui né Marina avrebbero potuto fuggire. Quando grande sarebbe stato il costo, in termini di vite e di risorse e quanto si sentiva impotente, perfino lì, nel cuore del potere russo.

Oleg aprì gli occhi. Sapeva quello che doveva fare. Doveva chiamare Marcus Ryker. Ma era impossibile farlo dentro le mura del Cremlino, per cui si impose con una volontà d’acciaio di svolgere i compiti che gli erano stati assegnati, di far passare il giorno senza che nessuno potesse indovinare i suoi pensieri, i suoi intenti, e attendere che arrivasse il momento giusto per fare la sua mossa.

Aprendo il suo taccuino, Oleg fissò la pagina che conteneva gli ordini del suocero. E iniziò a eseguirli uno per uno.

Chiamò prima Marina. No, non sarebbe tornato a casa quella sera. C’era troppo da fare, e sarebbe stato così anche nei giorni seguenti. Ma c’erano delle buone notizie, la rassicurò. Le nuvole della guerra si stavano allontanando. La tempesta era passata. E, inoltre, suo padre aveva insistito che si prendessero una vacanza e che volassero a Monte Carlo quel weekend.

Marina, come previsto, era gioiosa. Non ci fu bisogno di chiederle due volte di pensare ai preparativi. Suggerì perfino di lasciare Vasilij alla nonna, che adesso viveva in una piccola dacia nelle campagne di San Pietroburgo, praticamente in esilio.

«Un’ottima idea», disse Oleg. «E tua madre come sta?»

«È molto spaventata», disse Marina. «Non vorrebbe essere così vicina al Baltico con una guerra in arrivo. Vorrebbe poter tornare a stare con noi».

«Quando l’hai sentita l’ultima volta?»

«Proprio ieri».

«Chiamala subito, non appena avrai riattaccato il telefono», disse Oleg. «Dille che tutto andrà bene. Dille di non preoccuparsi per il Baltico. Ancora meglio, prendi Vasilij e vai a trovarla, stasera».

«Stasera? E tu?»

«Te l’ho detto, tesoro. Sono oberato di lavoro», disse Oleg. «Tuo padre ha bisogno che rimanga al suo fianco. Ma mi sentirei meglio – e anche lui – se sapessi che tu e Vasilij siete al sicuro con tua madre, per confortarla e farle sapere che tutto andrà bene».

La chiamata successiva Oleg la fece ai suoi genitori. E disse loro l’esatto contrario. La crisi con la nato poteva scatenarsi in qualsiasi momento. Sarebbe stato meglio per loro che lasciassero Mosca per alcune settimane.

«Le cose vanno così male?», gli chiese suo padre.

«Mettiamola così», rispose Oleg. «Ho appena sentito Marina al telefono e le ho detto di comprare i biglietti per lasciare il Paese immediatamente. Era sconvolta, ma cosa potevo fare? Io voglio solo che voi tutti siate al sicuro».

La madre di Oleg cominciò a piangere. «Devo chiamare Marina?», chiese.

«No. Le ho detto di non rispondere a nessuna chiamata a meno che non si tratti di me. Le ho detto di lasciare le linee libere. Mi aspetto che lei e Vasilij si rechino all’aeroporto nelle prossime ore. Penso che dovreste fare lo stesso».

«Per andare dove?», chiese suo padre.

«Che ne dite di Hong Kong?», rispose Oleg. «Vi raggiungerei se potessi. Ora devo andare. La situazione è davvero molto tesa, qui, e tutto cambia velocemente. Non dite a nessuno che vi ho chiamato. E soprattutto non dite a nessuno dove state andando. Andate all’aeroporto e comprate il biglietto direttamente lì. Non vi preoccupate della casa. Manderò qualcuno a occuparsene. In realtà, se ne avrò l’occasione, ci andrò io stesso».

«Se un bravo figlio, Oleg Stefanovič», disse suo padre, con la voce che tremava. «Ci farai sapere quando sarà il momento di tornare?»

«Ovviamente», rispose Oleg. «Spero che sia presto».

Disse loro che li amava e chiuse la chiamata. Poi aprì il file dei contatti sul suo computer e cercò il numero del ministro per gli Affari Esteri tedesco.

Cospirazione Cremlino
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