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Estonia orientale, vicino al golfo di Finlandia, 22 settembre

 

Ciò che stupì Marcus fu che il primo missile arrivò tagliando il cielo nuvoloso del mattino – basso e intollerabilmente caldo – da dietro di loro.

Nel momento in cui colpì il bersaglio con un’esplosione assordante, Annie gli prese il braccio. Notando il gesto, Pete scoccò a Marcus un’occhiata più letale del missile. Ma ne stavano arrivando altri. Quasi all’istante altri sei missili terra-aria passarono sopra di loro stridendo, tutti provenienti da dietro di loro. Il boato delle esplosioni e la grandezza delle palle di fuoco che ne seguirono misero in allarme il senatore e la sua squadra. Per Marcus e Pete fu come essere tornati agli anni nei Marine, all’addestramento e alle missioni in Iraq e Afghanistan.

Mentre il primo ministro Jannsen, accanto a loro, spiegava perché le sue forze stessero conducendo esercitazioni con armi vere mentre molti corpi militari nel mondo non lo facevano, elicotteri da combattimento e d’attacco si avvicinavano, sparando proiettili da cinquanta millimetri ai falsi carri armati russi, costruiti con blocchi di mattoni e legno, in una lunga valle fitta di alberi che si estendeva davanti a loro. Presto i carri armati estoni e i trasporti truppe corazzati emersero dall’ombra del bosco alla loro sinistra. Anche questi aprirono il fuoco e, quando lo fecero, le parole del primo ministro si persero. Qualche momento dopo, elicotteri Black Hawk divennero visibili sulla destra. I commando cominciarono a risalire lungo le corde verso le piattaforme, per cercare riparo, mentre contemporaneamente sparavano missili anticarro americani e lanciavano granate.

L’intera esercitazione durò circa un’ora. Marcus rimase favorevolmente impressionato dalla professionalità delle truppe di terra e dal supporto aereo, così come dalle comunicazioni che l’intelligence e i generali di Jannsen fornirono subito dopo. Questi uomini prendevano tremendamente sul serio la difesa della propria nazione dalla Russia, con l’aiuto della nato o senza. Ma il messaggio che stavano cercando di trasmettere era dolorosamente chiaro: anche se avessero combattuto tutti a oltranza, la fine sarebbe arrivata brutalmente presto se la nato – e soprattutto gli americani – non avessero onorato l’articolo 5 e non fossero giunti in loro soccorso.

Durante un pranzo di lavoro nel bunker di comando, il senatore Dayton si profuse in domande intelligenti e profonde. Marcus capì che non era lì per assistere a uno spettacolo. Voleva sinceramente comprendere per quale motivo le notizie allarmanti dell’ultimo periodo causassero una simile angoscia in Estonia e nei Paesi baltici. E voleva anche cercare di cogliere più dettagli possibili circa il loro piano per resistere ai russi, o almeno quelli che volevano fornirgli, fermo restando che in tutto lo staff del senatore solo Annie possedeva le necessarie autorizzazioni per accedere a informazioni di sicurezza di livello altamente riservato.

Quella sera, Dayton e la sua squadra cenarono a Tallinn con l’ambasciatrice usa, negli edifici dell’ambasciata. Tra aringhe, anguille affumicate, pane nero e vino rosso, si scambiarono informazioni con l’ambasciatrice – un funzionario degli Affari Esteri ultracinquantenne che aveva lavorato in una mezza dozzina di Paesi dell’Est europeo e parlava correntemente russo, polacco, tedesco e con un buon livello di estone – circa la preparazione delle forze locali e la riluttanza dei comandanti della nato a spedire più forza lavoro e macchinari. Il senatore fece pressioni con l’ambasciatrice per conoscere le sue opinioni circa le esercitazioni russe. Lei insistette sul fatto che fossero soltanto “esercitazioni di routine, una delle dozzine di esercitazioni che ho visto da quando sono qui”. Sottolineò che le crescenti apprensioni del primo ministro per una eventuale mossa della Russia erano “un po’ eccessive, detto tra noi”. Non nascose comunque la preoccupazione che Luganov potesse compiere un’azione molto più profonda – e presto – in Ucraina. Non avrebbe saputo dire se Luganov sarebbe stato abbastanza folle da marciare su Kiev, ma riferì che aveva comunicato le sue considerazioni al dipartimento di Stato non più tardi di quella mattina.

Prima che servissero il dolce, Marcus ricevette una chiamata da Washington. Si scusò per l’intrusione, si alzò dal tavolo e si allontanò dall’elegante sala da pranzo in direzione di un corridoio. Il numero proveniva dalla Casa Bianca. Dall’altra parte della linea c’era Bill McDermott, che era stato di recente nominato vice consigliere per la Sicurezza nazionale dal presidente Clarke.

«Bill, sono felice di sentirti», disse Marcus quando si sentì abbastanza al sicuro da orecchie indiscrete. «Congratulazioni per il nuovo incarico».

McDermott si lasciò andare a una serie di volgarità. «Sei in Estonia? Con la squadra di Bob Dayton? Ma sei pazzo?»

«Ehi, Ehi, calma Bill. Che cosa ti prende?»

«Il presidente si sta preparando alla campagna di rielezione e scopro che tu e Pete ve la spassate con il nemico!».

«Non ce la stiamo spassando, Bill, per l’amor del cielo. Ma siamo venuti a dare un’occhiata al vero nemico. E dovresti vedere anche tu».

«E questo cosa significa?»

«Sai bene quello che significa», disse Marcus, cercando di non alzare la voce, per evitare di attirare l’attenzione delle guardie del corpo estoni o del suo stesso corpo di sicurezza, posizionato lungo il corridoio. «Luganov sta ammassando forze ai confini con i Paesi baltici, ma il presidente non sta mandando abbastanza truppe per creare una barriera. E non ha neanche parlato chiaramente a difesa dei nostri alleati qui. Sta ignorando l’articolo 5. La popolazione locale inizia a preoccuparsi, e ne ha tutte le ragioni».

«Dunque, Dayton accuserà il presidente – ancora – di non essere abbastanza duro con i russi? Facciamo una pausa. Dayton è politicamente morto».

«Devo dirti, Bill, che mi sembri un po’ troppo sulla difensiva per essere in una posizione da cui potresti davvero suggerire al presidente di essere più duro con i russi».

«Fammi capire meglio, Ryker, sei stato formalmente assunto come consigliere di un uomo rabbioso della sinistra democratica? Un uomo che potrebbe essere lo sfidante del presidente?».

Marcus era sorpreso dal livello di coinvolgimento personale e politico di McDermott, soprattutto considerata la natura apolitica del suo lavoro. Così decise di abbassare il tono della conversazione. Non c’era nessun motivo di inimicarsi un vecchio amico, soprattutto un uomo così vicino al presidente. Il primo ministro Jannsen era stato chiaro sul fatto che l’unico motivo per cui aveva deciso di incontrare Dayton era che, in qualità di leader del Partito democratico, avrebbe potuto parlare a Clarke in privato, provando a persuaderlo a fare qualcosa di più per rafforzare la presenza nato nell’area.

«No, non mi ha assunto», disse Marcus, con la voce più calma e un tono più circospetto. «Pete è stato assunto, io partecipo solo a questo viaggio. Il senatore mi ha chiesto di organizzare una squadra di sicurezza per lui. Pete voleva che uscissi di casa. Era preoccupato per me e pensava che un viaggio come questo potesse farmi bene».

Il tono di Bill si ammorbidì. «Forse ha ragione».

«Forse».

«Bene. Vieni a trovarmi quando torni. Forse sarò io che ti assumerò».

«Assumermi?», chiese Marcus. «E per quale motivo?»

«Per tenerti lontano da Pete Hwang, tanto per cominciare», rise. «Abbi cura di te».

«Anche tu».

E con queste parole, la telefonata si interruppe.

Cospirazione Cremlino
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