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Ludmilla
«Salve Ludmilla! Salve professore!»
Il mio cuore fa un balzo di gioia quando vedo Andrea Wester. Leggo regolarmente quello che scrive sul Länstidning, ma saranno passati tre o quattro anni dall’ultima volta che l’ho vista. Adesso abita in centro a Ö. e forse non viene più tanto spesso a K., ma è anche vero che io e Leon trascorriamo sempre più tempo in campagna e sempre meno in città. Sono passati dieci anni da quando abbiamo acquistato la casa sul promontorio di Faukurs, ed entrambi lavoriamo part-time. Andiamo avanti e indietro dalla Bergtuna tre volte la settimana, facciamo scorta di provviste il giovedì sera e senza dubbio la natura ci sembra sempre più importante ogni anno che passa, la civiltà sempre più superflua. E ci piace dare la colpa al fatto che nel nostro lavoro abbiamo incontrato troppa gente, nel corso degli anni.
Andremo in pensione insieme fra circa un mese. Due giorni dopo la fine dell’anno scolastico andremo in vacanza a Capo Verde; Erik e la sua nuova ragazza verranno a stare in casa nostra e si occuperanno dei cani mentre saremo via. Così appare il nostro prossimo futuro, e forse è il pensiero che la Bergtunaskolan fra qualche settimana soltanto per me e Leon sarà acqua passata a spingere il mio cuore a fare quel balzo. Andrea Wester, ma guarda un po’! Pensare che sono passati vent’anni da quando era seduta nel mio ufficio, voleva cambiare nome e mi confidava che il suo insegnante di lettere la guardava con insistenza. La abbraccio forte e a lungo.
Ma non era solo di cognomi e di insegnanti dallo sguardo insistente che avevamo parlato quella volta. Anche la persona che sta uscendo adesso sulla veranda dell’albergo aveva un ruolo nella nostra conversazione, un ruolo di spicco. Io e Leon l’abbiamo incontrato ieri in chiesa, ma Andrea non c’era e vedo che esita. È possibile che quel gigante – in completo chiaro tutto spiegazzato, con i capelli radi e gli occhiali dalla montatura nera – sia Charlie Mattis? sta pensando di sicuro. Potrebbe avere trentacinque anni come quarantacinque, ma è senza dubbio la sua stazza la cosa che più salta all’occhio.
«È lui?» mi sussurra.
Io annuisco e la libero dall’abbraccio. Charlie Mattis era grande e grosso già alle medie, ma adesso sarà alto due metri e peserà di sicuro più di cento chili. Viene verso di noi attraverso lo spiazzo e ci saluta uno a uno con una salda stretta di mano.
«Sei cresciuto, Charlie» dice Andrea. «Al telefono non si capiva.»
«Ho il quarantotto di scarpe» ci informa lui. «Ma già in nona avevo il quarantacinque. Felice di rivederti, Andrea. E grazie a tutti e tre di essere venuti.»
«Quando si ha l’occasione di incontrare due vecchi allievi del vostro calibro non si può certo rinunciare» dice Leon – io colgo una traccia di scettica ironia nella sua voce –, e poi entriamo tutti insieme nell’albergo. Un’improvvisa inquietudine mi frulla nello stomaco. Perché siamo qui, in fin dei conti? Qual è lo scopo?
Prendiamo posto intorno a un tavolo in una stanza che si chiama Saletta MacClean, non so chi si nasconda dietro quel nome. Chiaramente Charlie ha organizzato in modo che possiamo chiacchierare indisturbati. Dopo averci servito caffè, tè e vari tipi di dolcetti su un piatto d’argento, la giovane cameriera si ritira chiudendo dietro di sé la doppia porta. Charlie prende un fascio di carte da una valigetta e come finale a effetto sistema alla sua destra sul tavolo una pila di quaderni ben noti dalla copertina di tela cerata nera. Scambio un’occhiata con Leon, ma nessuno di noi dice nulla. Lancio un’altra occhiata ad Andrea, che ha l’aria vagamente preoccupata.
«Ecco qui i famosi diari di Kallmann» dice Charlie, posando una mano enorme sulla pila. «Tu non li hai mai visti, vero, Andrea?»
Andrea scuote la testa.
«Neppure io, fino a due mesi fa» continua Charlie. «Poi mi sono imbattuto in una vecchia conoscenza, il commissario Eva Lundblad, che era responsabile dell’inchiesta sulla morte di Eugen Kallmann. È in pensione da tempo, ma abbiamo avuto una conversazione molto interessante su quanto accadde qui vent’anni fa… be’, ve la ricorderete senz’altro tutti e tre?»
«Naturalmente» risponde Andrea. Leon e io concordiamo con un cenno affermativo.
«Io ho lasciato K. subito dopo la fine della scuola dell’obbligo» ci spiega Charlie per qualche motivo che non riesco a capire. «Ho preso la maturità alla Fjellstedska di Uppsala e sarò ritornato non più di tre o quattro volte. Mia madre, come saprete, ha continuato a vivere qui, ma sia lei sia io preferivamo vederci a Stoccolma… o a Uppsala. Forse vi state chiedendo dove voglio arrivare con questa piccola riunione…»
«Certo che ce lo chiediamo» dico. «Personalmente credo di capire che si tratti di Kallmann, ma non molto più di questo.»
«Mmm» fa Charlie. «Mi dispiace non aver condiviso molte informazioni di cui ero a conoscenza. Ma le circostanze me lo impedivano. E poi solo di recente ho scoperto delle cose che a quei tempi ignoravo.»
Andrea si schiarisce la voce. «Charlie, perdonami se lo dico, ma avevi la tendenza a parlare per enigmi già quando andavamo a scuola. Non sono sicura che questa propensione ti sia passata.»
Per un attimo lui sorride a fior di labbra, ma non ne sono sicura. Forse gli compare in viso addirittura un vago rossore, ma anche questo non è certo. Vedo che Leon ha sollevato un sopracciglio in segno d’irritazione e spero che tenga a freno la lingua.
«Scusa, Andrea» dice Charlie. «Data la situazione difficilmente avrei potuto agire in maniera diversa. Ero anche piuttosto giovane, sebbene molti di sicuro mi vedessero come un vecchio professore con la testa fra le nuvole…»
«Ma adesso sei un professore, no?» dice Andrea.
«Sì, certo» riconosce Charlie. «Ma tornando alla nostra questione, poco prima che Eugen Kallmann morisse ebbi parecchio a che fare con lui. È risaputo, penso. Potrei anche affermare che sentivo determinati obblighi nei suoi confronti dopo la sua dipartita. Non che avessi dei compiti specifici e non gli avevo fatto promesse, ma lo consideravo comunque come un… sì, come un dovere gradito. C’era un legame fra noi, allora credevo che si trattasse di quello che impropriamente viene descritto con l’espressione ‘anime gemelle’, anche se fra noi c’era una notevole differenza di età. D’altro canto, indubbiamente io ero piuttosto precoce.»
«Senza dubbio» dice Andrea.
«Inoltre lui era mio zio.»
Per qualche secondo cala il silenzio. Charlie beve un sorso di tè e si aggiusta gli occhiali. Io cerco di assimilare l’informazione. Trovo che suoni abbastanza pazzesco. Se Eugen Kallmann ero lo zio di Charlie Mattis, significa che…
«Kallmann e tua madre erano fratello e sorella» dice Andrea.
«Esatto» conferma Charlie.
«Aspetta un momento» interviene Leon, e stavolta la sua irritazione è palese. «Come mai ce lo racconti proprio adesso? Vent’anni dopo, deve senz’altro voler dire che…»
Ma Charlie Mattis lo interrompe alzando la mano destra. Faccio un’associazione fulminea con un arbitro che sta per assegnare un cartellino. Giallo oppure rosso.
«Il motivo è molto semplice» dice. «Non lo sapevo. Mia madre me l’ha rivelato solo qualche mese fa.»
«Che lei e Kallmann erano fratelli?»
«Già.»
«E perché doveva restare segreto?» Leon guarda in cagnesco il suo vecchio allievo e scuote la testa con aria dubbiosa.
«Avevano un accordo. Gli fu consentito di tornare a stabilirsi qui a condizione che nessuno venisse a sapere chi era.»
«E perché nessuno doveva saperlo?» adesso è Andrea a chiederlo. Più con curiosità che irritazione.
«Perché aveva ucciso la loro madre. Mia nonna.»
Di nuovo silenzio. Tre secondi, poi Leon dice: «Intendi che è vero quello che lui scrive nel diario? È questo che stai dicendo?»
Charlie intreccia le sue mani enormi sul tavolo e ci fissa uno per uno. «Lasciate che vi spieghi come stanno le cose. E ricordate che queste notizie sono nuove per me come lo sono per voi. Non c’è nessun motivo di divulgarle al di fuori di questa stanza. Sono passati più di settant’anni da quel fatto, e nessuno trarrebbe giovamento se tali informazioni diventassero di pubblico dominio. Tutte le persone coinvolte sono decedute… sì, è quello che mi sento di dire.»
Riflette un attimo e poi continua:
«Eugen Kallmann, o Ruben Mattis come si chiamava a quei tempi, uccise veramente la propria madre. Non so perché, ma la mia sensazione è che quel fatto avvenne in un modo diverso da come lascia intendere nei diari. Potrebbe essersi trattato anche di un incidente, ma molto indica purtroppo che lo fece con intenzione. Aveva undici anni, e c’era di mezzo un amante, fin qui tutto quadra con ciò che scrive. Tenete a mente che io non ho letto la sua descrizione dei fatti se non in tempi molto recenti… quando ho avuto accesso ai diari grazie all’aiuto del commissario Lundblad. Comunque sia, fu scoperto. Scoperto da sua sorella, vale a dire mia madre, che all’epoca aveva sei anni, e quasi subito lo venne a sapere anche suo padre. Che lo ripudiò. Immediatamente e senza perdono, da quanto ho capito. La cosa rimase comunque segreta, non so di preciso come, ma questo è un aspetto meno essenziale. Secondo mia madre, suo padre, vale a dire mio nonno, finì presto sull’orlo di un collasso nervoso; suo figlio aveva ucciso sua moglie, non sopportava più nemmeno di vederselo davanti e lo spedì all’estero presso dei parenti in Svizzera».
«Corrisponde al diario» constato io.
«Sì, in gran parte» dice Charlie. «Per certi versi, si può dire che in quel momento Ruben cessa di esistere. Come la persona che era una volta. Lo stesso vale anche per suo padre, mio nonno; dopo circa un anno viene internato in un ospedale psichiatrico, dove in seguito si toglie la vita. A quel punto mia madre è già stata data in adozione a due coniugi della zona che purtroppo sono entrambi alcolizzati e non la trattano bene. Durante l’adolescenza sviluppa un odio viscerale per il fratello, che considera la causa del fatto che la sua vita sia diventata quello che è. Manterrà questa posizione fino alla morte, che mi abbia raccontato la verità non significa che volesse riconciliarsi. La sua pittura, i suoi motivi così carichi di angoscia sono uno specchio della sua infanzia. I due fratelli non hanno più contatti, a lungo lei lo considera morto, o in ogni caso si comporta come se non esistesse, ma lui un giorno si fa vivo… credo fu agli inizi degli anni Sessanta. Lui ha circa trent’anni e lei venticinque. Vuole incontrarla, ma lei lo respinge con decisione. Lo obbliga a cambiare nome, proprio come è scritto nei diari, ma la nostalgia di lui per questo paesaggio, dove è cresciuto negli anni Trenta, è così forte che non si arrende. Contro il volere della sorella torna qui, ottiene un incarico alla Bergtunaskolan, mantenendosi però fedele al loro patto. Nessuno dovrà sapere chi sia in realtà, credo che dobbiamo aver chiaro che Eugen Kallmann, alias Ruben Mattis, è soprattutto una persona disperata. Una persona profondamente disperata.»
Fa una pausa. Si toglie gli occhiali e comincia a pulirli con una pezzuola recuperata dalla tasca della giacca. I suoi occhi sono infossati, ma ho l’impressione che luccichino di lacrime.
O forse mi sbaglio. In ogni caso avverto un soffio di dolore e sconforto nella stanza, e nessuno di noi tre si sente in dovere di commentare il racconto di Charlie. Quando conclude la pulizia degli occhiali, li solleva un paio di secondi in controluce prima di rimetterseli. Mi accorgo di aver trattenuto il fiato.
«Credo che sia utile conoscere questi antecedenti» dice. «Se vogliamo capire l’altra storia. Quella che risale alla primavera del 1995.»
Comincio a essere confusa. Guardo Leon e Andrea; Andrea soprattutto appare colpita, e mi torna in mente che lei è coinvolta in misura maggiore rispetto a me e Leon. Anche se suo nonno non è mai stato condannato per i delitti di cui era sospettato, la sua famiglia subì comunque un duro colpo. Ebbi alcuni colloqui con lei quella primavera, ma non furono i miei sforzi a sostenerla, furono quelli di Ivan Kardasjan. Ricordo quanto fossero innamorati e mi viene voglia di chiederle per quanto tempo andò avanti il loro rapporto, ma piuttosto a lungo, credo; mi pare di averli visti insieme ancora uno o due anni dopo la fine della scuola dell’obbligo. Ma ditemi voi quale legame adolescenziale riesce a durare nel tempo.
Ovviamente non è il momento più adatto per porre una domanda del genere e quindi me ne sto zitta. Charlie tira fuori qualcosa dal taschino. Una piccola busta di plastica con dentro qualcosa.
«Potremmo sistemare anche questo dettaglio prima di andare oltre.»
Sfila il contenuto, lo solleva un attimo fra pollice e indice prima di appoggiarlo sul tavolo a faccia in giù. Si tratta di una fotografia, questo lo vedo. Mi piego in avanti e leggo.
Boris Yann Keller
Anche Andrea e Leon leggono. Poi Andrea gira la foto. È in bianco e nero, non grande, grossomodo come una scatola di fiammiferi, e ritrae un uomo sui venticinque, trent’anni. Capelli scuri, pettinati all’indietro, sorriso appena accennato; di bell’aspetto. Ha l’aria di un ritratto, realizzato da un vero fotografo, finisce subito sotto un nodo di cravatta perfetto e credo che debba essere vecchio di almeno mezzo secolo.
«Quindi questo è lui» dice Leon. «Come mai… voglio dire, come ti sei procurato questa fotografia?»
«L’ho trovata» risponde Charlie in tono neutro. «Come non ha importanza, ma molti si sono chiesti chi sia… o chi fosse. O no? Mi è sembrato di capire che Kallmann l’avesse anche nominato suo erede universale.»
«Aspetta un momento, Charlie» lo interrompe Andrea, alzando la mano come se fosse di nuovo alla Bergtuna vent’anni fa. «Mi è tornata in mente quella volta al Mymlan… quando entrasti come una furia e trascinasti fuori un ragazzo per la collottola… come si chiamava? Un poveraccio che veniva da Lyssne o da lì vicino. Vero che l’episodio ha a che fare con questa fotografia?»
«In un certo senso» risponde Charlie. «Ma non ha nessun peso. Pensavo solo di darvi qualche informazione sull’identità di questo Keller. Qualche idea?»
Nessuno ne ha.
«L’amante» dice Charlie. «L’amante di mia nonna.»