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Igor
«Ottimo, professor Masslind. Grazie di essersi preso il disturbo di venire.»
Con queste parole sono stato accolto ancora una volta dal commissario Eva Lundblad nel quartier generale della polizia presso la casa comunale. L’ho incontrata lì anche la scorsa settimana, insieme a Ludmilla Kovacs e Leon Berger; nel corso della riunione durata quasi tre ore abbiamo sviscerato il caso Kallmann, e devo riconoscere che sono rimasto impressionato dal suo acume e dalla sua intelligenza. Certamente tutt’altro calibro rispetto allo sconfortante Marklund, e credo che tutti e tre fossimo carichi di un certo ottimismo quando ce ne siamo andati. Le nostre investigazioni private possono considerarsi finite, ma Lundblad ha bisogno di mantenere comunque i contatti con noi. Ci sono sempre dettagli da analizzare, grandi e piccoli, importanti o meno importanti, ed è questo il motivo per cui sono andato lì questo cupo e gelido lunedì di gennaio. Meno ventitré gradi, per la precisione, c’è un termometro sul muro accanto all’ingresso del municipio.
Ho appeso il cappotto allo schienale di una sedia e ho accettato volentieri una tazza di caffè. Lundblad me l’ha versato e ha commentato che c’era proprio un tempo da lupi. Ho concordato e mi è venuto da pensare che non è di certo cresciuta a queste latitudini nordiche. Il suo accento rimanda piuttosto a province come Småland o addirittura Blekinge.
Ma non gliel’ho chiesto.
Non ero lì per parlare del tempo o delle sue origini. Un poliziotto più giovane che non avevo mai incontrato prima – fisico da lottatore olimpionico e biondo come una spiga – si trovava insieme a lei nella stanza quando sono arrivato, ma ci ha lasciati soli prima che cominciassimo la nostra conversazione. Suppongo che avesse ricevuto istruzioni in tal senso, magari era coinvolto nell’inchiesta sulla morte di Otto Hansson, ma non in quella di Eugen Kallmann.
«Rimangono molti punti interrogativi riguardo al suo defunto collega» ha esordito il commissario Lundblad. «Ma ovviamente ce n’è uno in particolare, in testa all’ordine del giorno.»
«V.» ho detto. «Chi è la persona che si nasconde dietro quell’iniziale?»
«Esattamente» ha confermato Lundblad. «Se riusciamo a trovare la risposta a questa domanda, non abbiamo bisogno di cercarne altre. Almeno non prima di aver preso la persona in questione. Quindi mi chiedevo se lei avesse qualche idea… Può ragionare in tutta libertà, di solito non guasta, se si ha ben presente che si tratta di supposizioni.»
Ho scosso la testa. Qualunque cosa io sia, non sono certo una persona speculativa. Ho letto da cima a fondo tutti i diari di Kallmann almeno due volte – compreso il quinto –, e anche se questo V. è menzionato in diversi punti, da nessuna parte ho trovato qualche indicazione su chi possa essere. Naturalmente Ludmilla, Leon e io abbiamo affrontato la questione da tutti i punti di vista, senza arrivare però a nessuna ipotesi fruttuosa.
«Un uomo dell’età di Eugen Kallmann» ho detto rispondendo all’invito del commissario. «Residente qui a K., forse da tutta la vita. Kallmann accenna al fatto che se lo ricorda dall’infanzia. Più di questo temo di non poter dire.»
«Sì, dai diari si evince più o meno questo» ha detto Lundblad. «Quest’anno Kallmann avrebbe compiuto sessantacinque anni, per cui se calcoliamo un margine di qualche anno in più o in meno, otteniamo dai quattrocento ai cinquecento possibili candidati. Un uomo di K. Età compresa fra i sessanta e i settant’anni, semplificando.»
«Quanti ne rimangono se consideriamo che il nome del soggetto deve iniziare con V.?» ho chiesto.
«Questo non l’ho ancora controllato» ha risposto Lundblad con un rapido sorriso. «Ma credo che incaricherò l’ispettore Serwin di farlo… ha presente quel gigante biondo che ha incontrato arrivando? Spero tuttavia che ci siano anche altri percorsi per raggiungere la meta.»
«Tipo?»
«Parlare con persone dotate di spirito d’osservazione» ha detto Lundblad, che poi ha intrecciato le mani in grembo e si è abbandonata contro lo schienale con un’espressione indecifrabile negli occhi. «Lei è una di quelle.»
Ho sorseggiato il caffè senza fare commenti. Pensavo che probabilmente non sarebbe stata un’esperienza gradevole, essere interrogati dal commissario Eva Lundblad. Voglio dire interrogati sul serio, e non chiacchierare e basta; una differenza si spera che ci sia. Ma la sensazione sgradevole di essere trapassati dal suo sguardo era innegabile. Tutt’a un tratto mi ha colpito il pensiero che potesse esserci un’inattesa somiglianza con Kallmann. Con i suoi occhi. La differenza era solo che mentre Kallmann aveva sempre preferito guardare altrove, lei ti inchiodava con lo sguardo. Ma in una maniera piacevole, non so come dire: forse insidiosamente piacevole, soprattutto avendo qualcosa sulla coscienza. Non ho potuto fare a meno di annuire in segno di conferma al mio stesso pensiero, e naturalmente il commissario mi ha chiesto perché annuissi.
«Gli occhi» ho ammesso. «Mi perdoni, ma trovo che lei abbia lo stesso tipo di occhi di Eugen Kallmann.»
Lei è scoppiata a ridere. «Anche questa è un’osservazione. Che cosa intende dire? Dovrebbe sviluppare meglio il concetto, se vuole che capisca.»
Mi sono accorto che stavo arrossendo, e mi sono lanciato in una prolissa spiegazione del celebre sguardo di Kallmann. Di come avesse l’abitudine di non guardare mai la persona con cui stava parlando e, in generale, di non guardare mai nessuno negli occhi, e che la spiegazione fornita da lui stesso, riportata in più punti nei diari, era che voleva evitare di vedere nell’anima delle persone. In particolare in quelle anime che non erano esattamente candide (non so perché ho usato proprio quest’aggettivo), perché per esempio appartenevano a persone che si erano rese colpevoli di omicidio.
«Ne parlò mai con lui?» mi ha chiesto Lundblad. «Ovviamente l’ho letto, ma è un argomento che aveste modo di affrontare nelle vostre conversazioni?»
Ci ho pensato un momento. «Non direi» ho risposto. «O in ogni caso, solo brevemente… e non durante gli incontri avvenuti la scorsa primavera, no, questo posso affermarlo con certezza. Credo addirittura di non aver mai messo a fuoco questo dettaglio prima di averlo letto nei diari. A posteriori, per così dire.»
«Capisco» ha detto il commissario Lundblad. «Ma di V. avete mai parlato? Se non sbaglio, Kallmann sosteneva di essere sulle tracce di un criminale, no?»
«Certamente» ho risposto. «Nessun dubbio in proposito. Soprattutto durante la nostra ultima conversazione, quando emerse il suo interesse per i vecchi casi criminali. Come quello che riteneva fosse suo compito risolvere. La cosa strana è che non sembrava sapere che cosa fosse successo realmente. Sosteneva di non avere idea di chi fosse stato assassinato. O di come e quando fosse successo. Kallmann affermava soltanto che c’era un omicida a piede libero, per cui da qualche parte dovevano esserci una vittima e un omicidio irrisolto.»
«Ricordo che settimana scorsa lei ha espresso dei dubbi su questo punto. Come faceva Kallmann a sapere che questo omicidio era stato commesso davvero? E che il colpevole fosse impunito. Glielo spiegò mai?»
«No. Glielo chiesi anche, probabilmente, ma non riesco a ricordare di aver ricevuto una risposta precisa. Forse disse solo che lo sapeva e basta… Suppongo che l’avesse letto negli occhi dell’assassino. Mi spiace che suoni come un abracadabra, ma a volte lui era così. Piuttosto spesso, in effetti.»
«Ma lui le raccontò che aveva l’abitudine di pedinare questo misterioso V.? Come scrive nell’ultimo diario?»
«Se ben ricordo mi disse che lo teneva sotto sorveglianza. Ma non parlò mai di un confronto. Con ogni probabilità questo avvenne qualche giorno dopo la nostra ultima conversazione.»
Il commissario Lundblad ha annuito. «Perciò lei non sapeva che si sarebbero incontrati alla Casa Tedesca?»
«No. Se l’avessi saputo, è ovvio che avrei cercato di impedirlo. O avrei preso dei provvedimenti.»
«Tipo?»
Ho riflettuto qualche secondo prima di rispondere.
«Non avrei lasciato che ci andasse da solo. Se era davvero un assassino che doveva incontrare, i rischi erano evidenti.»
«E quando ha saputo che aveva fissato un incontro con V.?»
«Quando l’ho letto nell’ultimo diario.»
«Non prima?»
A questo punto ho avuto dei dubbi. Abbiamo sempre dato per scontato che Kallmann si trovasse alla Casa Tedesca per un motivo preciso. E quale poteva essere questo motivo, se non incontrare qualcuno? Ho ripercorso rapidamente i discorsi fatti dal nostro trio di investigatori privati, constatando che doveva essere proprio così. La conferma però l’abbiamo avuta solo leggendo l’ultima annotazione nell’ultimo diario. Ho cominciato a spiegarlo al commissario, ma in quel momento sono stato colpito da un pensiero estremamente sgradevole. Ero sospettato? Il commissario Eva Lundblad credeva che potessi essere io il criminale impunito a cui Kallmann aveva dato la caccia? Non so perché in me sia sorto un tale infame sospetto, ma una volta suscitato, era impossibile liberarsene. Ho deciso che l’attacco fosse la miglior difesa.
«Mi scusi, commissario Lundblad» ho detto. «Ma tutt’a un tratto ho la sensazione che lei pensi che potrei essere io V., quello che stiamo cercando…»
Per qualche secondo lei mi ha fissato con quel suo sguardo spiacevolmente piacevole.
«E se dicessi che ha perfettamente ragione di supporlo, come commenterebbe la cosa?»
Eravamo passati entrambi a un tono più formale; appena l’ho notato, mi sono chiesto che cosa potesse significare un tale cambiamento automatico. Ma non era questo l’interrogativo importante.
«Direi che è assolutamente priva di fondamento» ho risposto. «Priva di fondamento e bizzarra e… non so che altro. Offensiva?»
Lei ha allargato le braccia e ha sorriso con l’aria di giustificarsi.
«È stato lei a intavolare l’argomento, Igor» ha detto. «Non io. Comunque do per scontato che né lei né nessuno degli altri investigatori privati si celi dietro la lettera V. Vogliamo continuare?»
E abbiamo continuato. Per circa un’ora abbiamo ripercorso i miei incontri con Eugen Kallmann, dal primo dopo la manifestazione neonazista nel parco cittadino fino agli ultimi in aprile e maggio dell’anno scorso. Prestando particolare attenzione a questi, naturalmente. Il commissario Lundblad voleva che cercassi di ricostruire i nostri discorsi fin nei minimi dettagli; ha ammesso che se avesse padroneggiato l’ipnosi non avrebbe esitato ad applicarla su di me per farmi rivivere e ricordare il più possibile. Ovvio, io ho fatto del mio meglio anche senza l’ipnosi e ho maledetto l’abitudine mia e di Kallmann di tracannare notevoli quantità di whisky durante i nostri incontri, fatto che non rendeva certo più nitidi i miei ricordi. Ma questa era la realtà, e posso dire con una certa sicurezza che tutte le osservazioni e tutti i dati più o meno rilevanti su Eugen Kallmann presenti nella mia testa quando mi sono seduto di fronte al commissario, alla fine sono entrati anche nella sua, di testa, e nel suo registratore.
A quel punto erano le sei passate, e credo che entrambi ci rendessimo conto che eravamo arrivati fin dove era umanamente possibile.
Ma senza nessuna svolta: si dice così nel linguaggio poliziesco, no? Per qualche motivo, è un termine che mi piace. E anche se mi sentivo mentalmente svuotato, non ho potuto fare a meno di chiedere come stesse procedendo l’inchiesta su Otto Hansson. Se fossero arrivati a qualche svolta o se fossero ancora fermi allo stesso punto.
«Ci stiamo lavorando alacremente» ha risposto Lundblad. «Pur non avendo una vera pista da seguire al momento, purtroppo. È tutto quello che posso dire, ma ho un’altra informazione che forse potrebbe interessarle.»
«Davvero?» ho detto. «E sarebbe?»
«La Pattuglia degli Epuratori. Non l’ha dimenticata, giusto?»
«Certo che no» ho assicurato. «Sta dicendo che…?»
«… che sappiamo chi ci sta dietro. Non posso ancora rivelare il nome, ma lo saprete presto. Purtroppo si è scoperto che non ci è di nessun aiuto per il caso Otto Hansson. Non ci sono legami, in poche parole.»
«Non ci sono legami? Non capisco, un collegamento dev’esserci per forza...»
Il commissario Lundblad ha iniziato a radunare le sue carte, scuotendo la testa. «No, da quanto posso vedere non c’è. E la Pattuglia non vi darà più grattacapi a scuola, questo posso assicurarlo. Se dovesse ricomparire, si tratterebbe di un emulatore, e da un fenomeno del genere non ci si può proteggere.»
Si è alzata e ha guardato l’orologio. Avevo dato per scontato che la sua giornata lavorativa fosse finita, ma quando mi sono infilato il cappotto e ho aperto la porta per andarmene, ho capito che mi sbagliavo. Ad aspettare in corridoio c’era Charlie Mattis.
Bene, ho pensato. Se riesce a cavare da questo giovane genio tutto quello che sa, allora probabilmente possiamo parlare sul serio di svolta. Mi ha salutato con la consueta cortesia, io ho annuito e gli ho augurato buona fortuna.
E come se non bastasse.
«Salve professore!»
Ero fermo fuori del municipio per avvolgermi meglio la sciarpa intorno al collo e alla testa. Il termometro segnava 26 gradi sotto zero. Mi sono guardato intorno e ho visto Andrea Wester.
«Buonasera Andrea. Che cosa ci fai in giro con questo gelo?»
Lei ha risposto con un gesto vago in direzione della finestra illuminata al terzo piano, e non c’è stato bisogno d’altro. Perbacco, ho pensato. I mulini stanno macinando.
I mulini stanno macinando.