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Ludmilla
5 ottobre, ore cinque e mezzo del mattino.
Di nuovo al lavoro, è anche ora. È passata una settimana dall’ultima volta che ho messo piede a scuola; giovedì e venerdì sono stata al corso a Ö., e poi sono rimasta a casa tre giorni con i figli malati. Lunedì solo Erik, martedì e mercoledì tutt’e due; niente di serio, capita che crollino a questo modo una o due volte l’anno. Forte raffreddore o influenza, non so come chiamarlo. Una settimana a letto, e poi sono di nuovo in pista. Proprio come il loro padre.
Ma rimanere a casa mi dà sui nervi, non so come ho fatto a sopportare quegli anni in cui non facevo altro che allattare, cambiare pannolini, cucinare e pulire la casa. Un terzo figlio? Neanche per idea, la sua povera madre finirebbe al manicomio dopo un mese.
Oggi mi sostituirà Klas, in ogni caso; come c’era da aspettarsi, ha messo il muso alla sua maniera remissiva quando ho dichiarato che non potevo assolutamente restare lontana da scuola altri due giorni. Abbiamo un rapporto paritario oppure no, eh? Alla fine si è arreso, ha passato un paio d’ore nel suo studio, come lo chiama lui, a fare diciotto telefonate per organizzare questo e quest’altro.
O almeno è quello che ha sostenuto, ma sono abbastanza sicura che più che altro è stato lì a risolvere parole crociate e ad autocompatirsi. Non hanno poi così tanto da fare, in quella maledetta azienda. Il ragionamento che lui ha uno stipendio che è il doppio del mio e che perdiamo dei soldi se è lui a stare a casa a curare i bambini ammalati può seppellirlo in un buco nel bosco. Non che lui l’abbia mai tirato in ballo, ma a volte si dimentica di essere sposato con una che legge nel pensiero.
L’affermazione che sono indispensabile a scuola era un bluff. Fra un’ora e mezzo mi metterò in macchina e andrò a Blåberga, dove abbiamo orienteering per tutta la giornata e dove chiunque potrebbe sostituirmi. Per sicurezza, ieri pomeriggio ho telefonato a Hämlin spiegando che avevo intenzione di esserci e che avrei svolto volentieri il solito compito, ossia gironzolare liberamente per la foresta dando indicazioni, nei limiti del possibile, ai partecipanti che si fossero persi. È risultato che Hämlin aveva più o meno fatto conto sulla mia presenza e che inoltre aveva pensato di affiancarmi Leon Berger. Naturalmente non ho avuto nulla da obiettare, ma poi il mio sonno è stato quello che è stato. Mi sono svegliata alle tre e da allora non sono più riuscita a chiudere occhio. Accidenti, penso, adesso bisogna solo prendere il toro per le corna.
Che cosa voglio dire con questa espressione non ho idea, ma ogni tanto mi balena in testa un pensiero inatteso. Assurdo e al tempo stesso allettante.
Ma prima di arrivarci, prima che il branco di allievi e personale al completo si trovi nei boschi intorno a Blåberga, voglio dedicare qualche riga a un fatto successo lunedì sera. Dopo che Klas è tornato a casa e abbiamo consumato una cena poco ispirata a base di avanzi della domenica, ho deciso di fare una lunga passeggiata. Non avevo messo piede fuori di casa per tutto il giorno, i miei figli erano a letto con il moccio al naso e avevo bisogno di un po’ d’aria fresca. Certamente, ha detto Klas. Dei piatti mi occupo io, tu vai pure a camminare quanto ti pare.
Ho seguito il fiume fino al Morsjön e alla riserva naturale, è la direzione più ovvia dato che abitiamo nel quartiere che chiamano Città Giardino. Cominciava a imbrunire, ma l’associazione sportiva ha allestito un percorso illuminato di qualche chilometro, e nessuna legge stabilisce che occorra infilarsi una tuta sportiva per usufruirne.
Ero arrivata circa a metà del percorso quando d’improvviso ho sentito delle voci. All’inizio ho pensato si trattasse di due persone che chiacchieravano mentre facevano jogging e che di lì a poco le avrei incontrate, ma poi ho capito che le voci provenivano da un punto a lato della pista, comunque abbastanza vicino. E quando ho superato un folto cespuglio – credo si tratti di un poligono del Turkestan che ricopre un grosso masso erratico –, mi sono resa conto che le persone che parlavano si trovavano proprio dietro quel masso, protette dal buio ma a non più di quattro o cinque metri dal sentiero.
Due voci, di un uomo e una donna.
O di un ragazzo e una ragazza, per meglio dire, perché ho riconosciuto quella maschile. Charlie Mattis.
Li ho avuti a portata d’orecchio per forse mezzo minuto, ed era soprattutto Charlie a parlare. Lui ha un modo peculiare di esprimersi, come se fosse sempre in cattedra anche se parla di qualcosa di assolutamente ordinario. Come Carl Bildt, grossomodo. Ho esitato un istante, valutando se avrei dovuto svelare la mia presenza, ma non mi pareva il caso. Era chiaro che si trattava di un incontro segreto – perché altrimenti piazzarsi dietro un masso in un bosco buio? –, e non avevo nessuna voglia di intromettermi in una faccenda che non mi riguardava.
Non so nemmeno di cosa stessero parlando, sono riuscita a cogliere soltanto due battute, la prima pronunciata dalla voce femminile, l’altra da Charlie.
«Non so dove cavolo sei andato a pescarla. Ma capisci quello che stai dicendo?»
«È naturale che capisco quello che sto dicendo. Ma purtroppo non posso rivelare la mia fonte.»
Poi non ho sentito più nulla, ma per il resto della camminata quelle parole hanno continuato a ripetersi nella mia testa, come un vecchio disco che si è incantato sul grammofono. Capisci quello che stai dicendo? Purtroppo non posso rivelare la mia fonte.
Che cosa diamine significava? Più mi allontanavo lungo la pista, più quelle parole suonavano strane. Che cosa aveva raccontato Charlie Mattis alla ragazza, chiunque fosse, per sconvolgerla così? Perché sembrava sconvolta, su questo non c’erano dubbi. Il tono di Charlie invece era sembrato esattamente come al solito, un po’ arrogante, un po’ di rimprovero.
Una volta completato il percorso, ho valutato per un attimo se fare un altro giro o quantomeno se andare fino al masso erratico e ritorno, per controllare se fossero ancora lì a discutere, ma ho abbandonato l’idea. Le probabilità che ci fossero erano scarse, era già passata più di mezz’ora, e anche se li avessi trovati di nuovo non sarebbe stato di certo il caso di palesarmi pregandoli di rendermi partecipe della loro conversazione. Oppure di nascondermi e cercare di origliare. Indubbiamente sarebbe stato interessante scoprire chi fosse la ragazza, ma questa vaga possibilità non mi sembrava una motivazione sufficiente, soprattutto considerato il fatto che a quel punto le mie gambe erano già piuttosto stanche. La mia condizione fisica non è quella che dovrebbe essere, in genere me ne rendo conto circa cinque volte al giorno.
Per cui sono tornata a casa. I bambini si erano addormentati, Klas si era addormentato. Io mi sono preparata una tazza di tè e ho cercato di liberarmi delle voci sentite nel bosco: è stato facile quanto cercare di dimenticarsi di un tumore al cervello.
Ma adesso mi aspetta un altro bosco, un po’ più grande. Mentre preparo la colazione al sacco, mi trastullo con l’idea di convocare Charlie Mattis per un colloquio nel mio ufficio la prossima settimana; solo che non mi viene in mente un pretesto plausibile. Quel ragazzo è abbastanza intelligente da smascherare qualsiasi menzogna, e chiedergli che cosa ci facesse nel bosco con una ragazza la sera di lunedì scorso mi sembra un tantino sfacciato. Lesivo della privacy, per usare una formulazione moderna.
È anche vero che indirizzo i miei pensieri su Charlie per non pensare a Leon, sì, direi che è proprio così. Mi sembra quasi di avere di nuovo quattordici anni e di dover andare al cinema con Henrik Blom, il primo vero amore della mia vita. Sono passati trent’anni, ma in effetti si dice che certi avvenimenti e certe situazioni vissuti in gioventù diventano archetipici e vanno a formare i nostri schemi concettuali più profondi per il resto della vita. Trauma o non trauma.
O almeno lo sostengono alcuni, e solo come esempio del tipo di verità che abbiamo appreso al corso la settimana scorsa. La nostra infanzia sabota tutta la nostra vita adulta, non c’è niente da fare.
In ogni caso, quella volta Henrik Blom ebbe dei problemi gravi con il suo intestino cieco un’ora prima che iniziasse il film, e quando uscì dall’ospedale cominciò – come si diceva allora – a filare stabilmente con la mia migliore amica, Inger.
Così è la vita. Archetipica al massimo.