24
Igor
8 novembre.
Mercoledì sera, la scuola ha riaperto da tre giorni dopo le vacanze autunnali. Sono ritornato a K. domenica, dopo una settimana trascorsa da Gunilla a Göteborg. È piacevole poter staccare a metà quadrimestre, abbiamo fatto in tempo a goderci teatro, opera e un paio di belle serate al ristorante. A volte penso che la vita di coppia dovrebbe essere così; incontrarsi in circostanze piacevoli qualche volta l’anno, ma lasciare che la quotidianità si sposi con la solitudine. In ogni caso è la soluzione migliore per individui come me, e sotto sotto spero che Gunilla non si trovi mai nessun altro. Perché è chiaro che questo sarebbe d’intralcio alla nostra rada ma piacevole frequentazione, forse anche lei se ne rende conto. Credo del resto che quella faccenda del sesso sia un capitolo chiuso per lei come lo è per me; non ne parliamo nemmeno, ed è pur sempre un segno, no?
Da K. è necessario allontanarsi a intervalli regolari. Per rinfrescarsi la memoria sull’effettiva vastità del mondo, se non altro. Quando si fa ritorno, quando si è sul pullman dall’aeroporto di Ö. con il cupo paesaggio boschivo che ti avvolge come un lenzuolo funebre, si ha la chiara percezione che la vita si restringe, che si è diretti verso qualcosa di angusto e malinconico. Ho fatto queste riflessioni per molti anni, ma so anche che i pensieri deprimenti poi passano. Il più delle volte già quando si accende la luce nel proprio appartamento, quando ci si siede con due dita di whisky o un bicchiere di vino rosso davanti alla tivù a seguire il notiziario (dove le vere dimensioni del mondo appaiono di nuovo), o in ogni caso in concomitanza con la luce dell’alba il mattino dopo. K., penso a volte non appena apro gli occhi, finirò per essere seppellito qui un bel giorno.
Così è, effettivamente; già diversi anni fa ho comprato un posto al cimitero, sia Gunilla sia Vera Rönne lo sanno, nel caso dovesse succedermi qualcosa all’improvviso.
Come è capitato a Kallmann; ovviamente è un pensiero che si presenta, lo si voglia oppure no. Non mi dà pace. È tutto l’autunno che mi tormenta; forse perché mi ricordo quella vecchia rappresentazione su anime in pena e in pace nella tomba. Lo spettacolo che Gunilla e io abbiamo visto a Göteborg questa volta era una versione moderna dell’Amleto, per cui il collegamento viene piuttosto naturale.
Tre giorni di lavoro, dicevo, e purtroppo devo constatare che la strana atmosfera a scuola perdura. È come se fosse stato colpito l’edificio stesso, come se il malessere e i cattivi presagi fossero dentro i muri, è una sensazione che si percepisce non appena si varca la soglia. Non sono solito abbandonarmi a questo genere di riflessioni, ma non posso fare a meno di riportare la testimonianza dei miei sensi. Sento come un disagio e una pressione sulle spalle quando cammino per i corridoi, soprattutto lì, ma anche in sala professori e nelle aule, ed è qualcosa che non ho mai provato in tutti i miei anni di insegnamento.
Ma naturalmente i muri sono solo latori di ciò che avviene al loro interno. Muti osservatori di come vadano le cose fra tutti questi esseri umani, giovani e adulti, docenti e allievi, più di cinquecento ogni giorno, che si muovono qui dentro dalla mattina al tardo pomeriggio; le relazioni forzate, i conflitti inespressi e insoluti, l’inquietudine e la paura ticchettante. Come se si fosse soltanto in attesa che accada qualcosa, sì, l’impressione è proprio questa, e quando si rientra a casa nel buio precoce, quelle sensazioni rimangono a covare dentro l’edificio scolastico. Pernottano lì e ci aspettano quando torniamo il mattino dopo. No, sono davvero pensieri e atmosfere che non ho mai sperimentato in precedenza, e ovviamente mi domando se abbia a che fare con la mia età. Mi ricordo ciò che Anders Hellgren, un collega molto stimato andato in pensione qualche anno fa, mi disse in confidenza mentre pulivamo le nostre scrivanie alla fine dell’anno scolastico, nel suo caso per l’ultima volta:
«Gli ultimi dieci anni, Igor, sono stati una tortura. Se riesci a trovare un modo di evitarli, non esitare».
Ricordo che minimizzai quel commento. Forse in modo un po’ troppo spensierato.
Può darsi che il nocciolo siano i razzisti. Non si è ancora scoperto chi ci sia dietro le azioni degli Epuratori. Personalmente sento di avere una certa responsabilità nei confronti di Vera Rönne e di Ivan Kardasjan; per quanto concerne Ivan, gli avevo più o meno promesso che avrei trovato i suoi persecutori. Nessuno, all’infuori di noi due, è al corrente del messaggio minatorio che è stato infilato di nascosto nel suo armadietto circa un mese fa, e io non sono ancora arrivato da nessuna parte. Non so se abbiamo a che fare con i ben noti skinhead che ci sono fra gli allievi, oppure se, come ho sospettato fin dall’inizio, non si debba cercare fra gli adulti dell’ambiente scolastico, di certo un pensiero spaventoso. Che il povero Ylmaz Budak della 9A sia stato malmenato dai seguaci di Otto Hansson penso sia opinione comune, ma non ci sono prove concrete. La mia fiducia nelle forze dell’ordine probabilmente non è mai stata così scarsa come in questo momento. Bisogna anche considerare che esistono molte altre possibili vittime; il numero di allievi della Bergtunaskolan con un cosiddetto passato da migranti ammonta a più di cinquanta, per cui il rischio che tali atti criminosi possano ripetersi è piuttosto evidente. Forse è questo che tutti stanno aspettando, forse è questo che impregna i muri.
Ieri, durante il raduno del mattino in aula magna, si è verificato un fatto un tantino bizzarro. Il consiglio studentesco aveva chiesto di poter avere dieci minuti senza specificare di che cosa si trattasse, e quando Fröberg ha dato la parola a Sigge Sundberg, Malin Krotowska e a un ragazzino di settima di cui non ho colto il nome, è risultato che si trattava nuovamente di Eugen Kallmann. Un signore barbuto e non identificato che fino a quel momento era rimasto a dormicchiare in fondo all’aula è stato invitato sul palco; Sigge Sundberg ha spiegato che si chiamava Orvar Fredén, uno scultore professionista che aveva ricevuto l’incarico dal consiglio studentesco di creare una scultura in bronzo del defunto professore. Era stato tutto concordato e preparato, l’unica cosa che mancava era che il collegio decidesse di sborsare i fondi necessari. Quarantamila corone, per essere più precisi.
Orvar Fredén si è portato sul bordo del palco e ha accennato un inchino. Ha ringraziato brevemente per l’incarico e ha spiegato che calcolava che il busto e il relativo basamento in granito avrebbero potuto essere definitivamente collocati al loro posto nel cortile della scuola per Pasqua. Dimensioni: basamento centoventi centimetri, busto sessantadue, altezza totale centoottantadue centimetri, misura che, secondo fonti affidabili, corrispondeva alla statura di Eugen Kallmann.
Dopo tali ragguagli, l’artista ha abbracciato a turno i tre rappresentanti del consiglio studentesco e ha lasciato l’aula magna.
Il silenzio seguito alla sua uscita di scena è stato singolare. È durato di sicuro almeno cinque secondi e non è stato rotto da obiezioni e proteste giustificate, ma da una risata fragorosa. Veniva da Hans-Ivar Möller, docente di svedese e inglese, tuttavia il risvolto un po’ lugubre è stato che la sua esplosione di riso non ha avuto imitatori; è echeggiata solitaria nell’aula magna per un attimo imbarazzante, che si è protratto un po’ prima di spegnersi.
Dopo di che Fröberg ha annunciato che la direzione scolastica avrebbe aperto una discussione con il consiglio studentesco sulla questione del busto, e poi la riunione è terminata.
Oggi tornando a casa da scuola sono stato in compagnia di Leon Berger, che insegna svedese nella nona classe mia e di Marianne Eskilsson e che ha sostituito Kallmann. Non abbiamo scambiato molte parole finora, ma mi ha dato l’impressione di essere un collega sia preparato sia assennato. Non voglio assolutamente rivedere tale giudizio, ma la conversazione che abbiamo avuto mentre camminavamo verso casa lungo il fiume – abbiamo scoperto di abitare nella stessa via, a non più di duecento metri l’uno dall’altro – non aveva a che fare con la scuola. Il motivo per cui ci siamo fatti compagnia lungo il tragitto è che avevo lasciato la bicicletta da Ronnies Sport e Velocipedi per una serie di piccole riparazioni. Berger ha l’abitudine di andare e venire da scuola a piedi, ma ne ho approfittato per raccomandargli Ronnies, se dovesse decidere per altre soluzioni.
Comunque sia, ben presto siamo capitati a parlare di Kallmann. Tutto è cominciato quando Berger mi ha posto una domanda diretta.
«Mi è parso di capire che conoscevi abbastanza da vicino il mio predecessore?»
Forse era più un’affermazione che una domanda. Ho risposto un po’ evasivo che probabilmente nessuno era riuscito a conoscere Kallmann più da vicino, e ho ribattuto chiedendo da chi l’avesse saputo.
Berger ha esitato un istante prima di rispondere che l’aveva solo sentito dire.
«Dove?» ho chiesto. «Dove l’hai sentito?»
Berger si è stretto nelle spalle.
«A scuola, suppongo. Non ricordo di preciso.»
Ma ho notato che aveva in mente dell’altro. Abbiamo camminato in silenzio per qualche secondo, mentre era chiaro che lui stesse cercando di decidere come proseguire. Poi ha detto:
«Oppure mi ci sono imbattuto mentre leggevo qualcosa».
Ho pensato che suonasse strano e gli ho chiesto dove poteva essere scritto che io conoscessi Kallmann.
«Erano degli appunti» ha detto Berger. «Mi sono capitati sott’occhio per caso.»
Adesso sembrava in difficoltà. Come se si stesse pentendo di aver intavolato il discorso. Ma io mi ero incuriosito e non ho potuto fare a meno di andare avanti.
«Non capisco bene» ho detto. «Che genere di appunti?»
«Cose che aveva scritto Kallmann» ha risposto Berger. «Erano ancora nella sua scrivania a scuola, e io stavo facendo pulizia per metterci le mie cose.»
«Aha, ecco» ho detto, cercando di non apparire troppo critico. «E che cosa c’era scritto in quegli… appunti?»
«Solo che vi eravate incontrati e avevate parlato, credo. Non ho letto molto attentamente. Non era mia intenzione ficcare il naso. Ma Kallmann doveva avere una personalità davvero speciale… e doveva essere molto benvoluto dagli allievi, a quanto ho capito. Quel busto di bronzo penso la dica lunga. La mia era solo curiosità per… come dire?… l’uomo dietro il mito. Questa cosa ti scoccia?»
Era un interrogativo molto esplicito che ho apprezzato. Berger ha preso il posto di Kallmann, sarebbe stato strano se non avesse riflettuto sul suo predecessore. Quando tutti gli altri l’hanno fatto, e continuano a farlo; noi che siamo stati suoi colleghi e per anni l’abbiamo incontrato in carne e ossa.
«In effetti è vero che ci si frequentava un po’» ho detto. «Ma assai di rado. Kallmann era un solitario, non posso proprio affermare di essere stato suo amico.»
«Ne aveva di amici, in generale?»
Ho scosso la testa. «Non credo. Non che io sapessi, in ogni caso. Ma che cosa scriveva lui?»
Pensavo di avere il diritto di saperlo, dal momento che aveva tirato in ballo la cosa.
«Non granché» ha risposto Berger. «Che eri stato a casa sua. Che avevate bevuto whisky e chiacchierato… e che non era la prima volta, se ho capito bene. Ma devo ammettere che mi vergogno di aver letto quell’annotazione, al momento non ci ho pensato, molto semplicemente. Non bisognerebbe andare a frugare fra…»
Non è riuscito a proseguire e ho immaginato che si fosse pentito di aver cominciato a parlare di Kallmann in quei termini. Per contro, da parte mia sentivo di non avere assolutamente nulla in contrario ad approfondire il discorso su Eugen Kallmann, e in particolare proprio con Berger, perché è nuovo qui e non dovrebbe avere preconcetti. Ma anche, devo riconoscerlo, per una mia necessità di esprimere punti di vista sul nostro defunto collega. Un bisogno che credo sia presente inespresso non solo in me, ma anche in gran parte del personale della Bergtunaskolan. Forse anche nei ragazzi, quel famoso busto dev’essere un’espressione di qualcosa del genere.
«Non hai niente di cui scusarti» ho replicato. «Sono molti a interrogarsi su Eugen Kallmann.»
«Sì, l’ho notato» ha detto Berger. «Anche se l’impressione è che nessuno voglia parlarne. Forse mi sbaglio, ma non c’erano forse diversi punti oscuri riguardo al modo in cui è morto? La polizia ha aperto un’inchiesta che però ha archiviato… e poi quel ragazzo, Charlie Mattis, che era lì… suppongo che sia brillante in matematica come lo è in svedese?»
«Certo» ho risposto. «Sotto il profilo puramente didattico ha già completato il programma. Lo stesso in fisica, ma di sicuro avrai notato che tipo di rapporto abbia con i compagni. Quasi inesistente.»
Berger ha annuito. «Il prototipo del genio solitario. Un po’ come Kallmann, no?»
Ho risposto che era un’osservazione esatta e gli ho raccontato che alla cerimonia di chiusura dell’anno scolastico Charlie aveva recitato una poesia scritta da Kallmann stesso, che allora era morto da tre settimane. Forse Berger ne era già a conoscenza, perché non ha fatto commenti. Invece si è chiesto se Charlie e Kallmann si fossero in qualche modo frequentati. A quattr’occhi, per così dire, gli sembrava di aver colto questa voce da qualche parte a scuola.
«Sì, è probabile» ho risposto dopo una breve riflessione. «Almeno la primavera scorsa, l’ultimo semestre per Kallmann. Non sono a conoscenza di che cosa facessero o di che cosa parlassero, ma se tu hai sentito qualcosa… sì, come dire?... qualcosa di indecente… ecco, questo direi che va escluso. Kallmann beveva un po’ troppo, ma non aveva inclinazioni per i ragazzini.»
«Scriveva anche, non è così? Un paio di romanzi sotto pseudonimo…?»
Cominciavo a capire che Berger sapeva più di quanto credessi, ma non ero a disagio per quello di cui stavamo parlando. Al contrario, come ho già detto; le mie stesse riflessioni su Kallmann e i miei dubbi sul lavoro carente della polizia dopo la sua morte ricevevano nutrimento dalla conversazione, e per un istante ho anche considerato di invitare il mio collega a prendere un caffè da me, per continuare la nostra discussione. Nel frattempo eravamo arrivati davanti a casa sua, un appartamento in una palazzina di tre piani di fronte al ponticello di Våghus; ha indicato con un gesto uno dei balconi incassati spiegando che è lì che abita. Ho lasciato perdere l’idea del caffè, in fondo si può sempre trovare un’altra occasione, e ho risposto invece alla sua ultima domanda.
«Sì, probabilmente c’è del vero. Kallmann deve aver pubblicato un paio di libri. Ma nessuno conosce i titoli né quale pseudonimo abbia usato. Potrebbero saperne di più Hans-Ivar Möller oppure Ellen Moerk, in fondo hanno condiviso la stessa stanza di lavoro con Kallmann per oltre un decennio.»
«Capisco» ha detto Berger. «Sì, credo sia stato uno di loro a menzionare la cosa. Comunque grazie per la chiacchierata, rifletterò sulla faccenda della bicicletta.»
«Si guadagnano dieci minuti in entrambe le direzioni» gli ho spiegato. «Fra parentesi, Ronnies si trova proprio qui all’angolo, non devi assolutamente andare da nessun altro. Servizio personalizzato e affidabilità, è presente in città da quando esistono le biciclette.»
Berger mi ha ringraziato per l’informazione, ma ho visto che aveva ancora una o due domande, per cui ne ho approfittato per fare qualche commento sul nostro bel fiume e sulla vista che deve avere dal suo balcone.
«Sì, è veramente fantastica» ha detto. «Tra l’altro, sai se Kallmann fosse interessato alla criminologia? Vecchi casi irrisolti o cose del genere?»
Mi è preso un colpo. Non so descriverlo in altro modo, forse è successo addirittura che il mio cuore abbia mancato un battito. Quella cosa che Kallmann mi disse durante la nostra ultima conversazione mi è riaffiorata alla mente, mi è quasi sembrato di risentire la sua voce: Igor, sono incappato in un delitto irrisolto. Irrisolto e mai scoperto.
«Sì, certo» ho risposto, cercando di suonare neutro. «A quanto ne so, era uno dei suoi grandi interessi. Per lo meno… sì, per lo meno negli ultimi anni.»
Berger ha assunto un’aria meditabonda. «Può essere che fosse un caso specifico a catalizzare la sua attenzione?»
«Sì, in effetti» ho risposto. «Direi che potrebbe essere stato proprio così. Sai, forse dovremmo trovarci per continuare questa discussione. Se sei interessato, voglio dire. Chiaramente ci sono anche altre cose di cui parlare. In fondo siamo scapoli tutti e due, se ho ben capito?»
Sulle labbra di Berger è passato il lampo di un sorriso. «Certo» ha detto. «E mi farà molto piacere continuare a parlarne. Al Commedia, magari…?»
«Un’ottima proposta» ho detto. «Noto che sei già riuscito a separare il grano dalla loppa.»
E così abbiamo deciso di riparlarne dopo aver dato uno sguardo alle nostre agende. Una sera della prossima settimana, comunque.