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Andrea
«Mi ricordo che qualcuno aveva detto che se ne sarebbe infischiata della pampa quest’estate… o inverno?»
Sto salutando Emma alla stazione degli autobus. È una giornata di piena estate, ci devono essere già più di venti gradi nonostante siano solo le dieci del mattino.
«Taci, per favore» dice Emma. «La nonna pretende che vada giù, sente di essere prossima alla fine. Se non vado a salutarla per l’ultima volta, mi perdo la mia parte di eredità.»
«E di quanti milioni si tratta?» domando.
«Si tratta di terra» risponde Emma. «Appezzamenti più grandi di quanto tu riesca a immaginare.»
«Quindi ti costruirai una casa da quelle parti?»
«No, però magari comprerò mille vacche da carne. Se ti comporti bene ti lascerò gestire la mandria... penso che dovresti cambiare indirizzo al liceo e scegliere agraria, invece. Forse non è troppo tardi.»
Io ed Emma abbiamo scelto l’indirizzo di scienze sociali al liceo Lidnerska di Ö., e di sicuro saremo ammesse. Se finiremo anche nella stessa classe è un’altra questione, ma io spero veramente di sì.
«Fra parentesi, starò via solo tre settimane stavolta» aggiunge. «Tornerò il 27 luglio, perciò se ce la farai a staccarti da Ivan un’ora o due, potrai rivedere la mia faccia dal pallore invernale già allora.»
«Nessun problema» dico, e a questo punto l’autista fa segno a Emma di sbrigarsi a salire sul bus.
«Non fare sciocchezze mentre sono via» è l’ultima cosa che dice, poi la portiera si chiude con uno sbuffo, e il bus si mette in marcia verso l’aeroporto di Ö.
Io resto lì a salutare con la mano finché non sparisce dietro la caserma dei vigili del fuoco. L’autobus, non l’aeroporto.
Siamo seduti sotto l’ombrellone nel podere dei nonni in campagna. Io, la mamma, la nonna, Aron e August. Bernt-Olov e il nonno sono andati a fare una passeggiata nel bosco. E i fratellini si sono rimpinzati a sufficienza di panini dolci e succo di frutta e hanno cominciato a giocare sul prato. Quindi in realtà siamo soltanto io, la mamma e la nonna.
A essere sedute lì.
Ammutolite, si potrebbe dire.
Almeno io e la mamma. Per via di quello che ha appena detto la nonna.
«Non ce la faccio più. Non posso continuare a vivere con lui.»
Io guardo la mamma. La mamma guarda la nonna. La nonna guarda il pascolo dove mucche bianche e nere si aggirano mangiando l’erba. Appartengono ad Harald, l’agricoltore proprietario della grande fattoria qui accanto. Penso che le vacche da carne della pampa argentina non assomigliano di sicuro a queste qui. Almeno non sono bianche e nere. Tra l’altro, questa razza è insolita anche qui nel Norrland, l’ho imparato già alle elementari. Mamma si piega verso la nonna e le appoggia una mano sul ginocchio. La nonna scuote la testa e comincia a piangere. Io sospiro e non so da che parte andare.
Forse era nell’aria. Da quando il nonno è stato rilasciato, l’atmosfera in famiglia è cambiata. Non abbiamo stappato champagne né fatto salti di gioia perché non è più in custodia cautelare. Quando ho chiesto alla mamma se fosse contenta che non era più sospettato, lei ha solo scosso la testa e mi ha risposto che probabilmente continua a esserlo. Non so di preciso che cosa abbia voluto dire, ma percepisco chiaramente che la vergogna c’è ancora. Tutta la gente di K. sa come stanno le cose. Erik Valdemar Larsson è stato rinchiuso in detenzione provvisoria a Ö. per quattro mesi perché la polizia sospettava che fosse colpevole di omicidio. Non solo di uno, ma di due delitti. E adesso tutt’a un tratto gira di nuovo libero per le strade. Uno che cosa deve credere? Bisogna salutarlo come al solito? No, meglio distogliere lo sguardo e puntarlo su qualcos’altro, fingendo di non averlo visto.
Credo che succeda lo stesso alla nonna. E anche alla mamma, e se questo non corrisponde precisamente alla realtà, è comunque molto facile convincersene.
Quanto a me, mi riesce molto bene il trucco di fregarmene. Non perché creda che in pochi potrebbero collegarmi con Erik Larsson quando mi incrociano; e comunque se qualcuno lo facesse, me ne infischierei. Ma perché è proprio come mi ha detto Ludmilla Kovacs: non sono responsabile delle azioni dei miei genitori, e ancora meno di quelle dei miei nonni.
Adesso però la nonna è qui a dire che non ce la fa. Che non vuole più vivere con il nonno.
Nel frattempo le mucche continuano a pascolare, e i fratelli Gocce d’Acqua fanno le capriole nell’erba. Penso che in effetti capisco la nonna alla perfezione. In fondo non ha nessuna importanza se il nonno abbia ucciso o meno due persone. È comunque senza speranza.
Mi alzo, mi avvicino e la abbraccio. Un po’ goffamente, ma la mamma è come d’intralcio. La nonna mi fissa per un attimo, poi mi accarezza delicatamente la guancia con il dorso della mano. Non riesco a non singhiozzare.
Poi dico che farò una passeggiata. Lo vedo che hanno bisogno di stare un po’ per conto loro.
La sera parlo con Ivan della situazione. Lui non ha una vera famiglia, e per certi versi mi sembra un vantaggio. Siamo andati alla pista da minigolf e mentre parliamo giochiamo una partita. Lui di giorno lavora, alla fabbrica di cartoni Hagströms, e riusciamo a vederci solo la sera e nel weekend. Anch’io ho un lavoro estivo, ma solo un paio d’ore la mattina, quando faccio le pulizie al Sjöhotellet che ha aperto per la stagione.
«Ma lui in fondo non è colpevole» dice Ivan. «Non ha ucciso nessuno, no?»
«No, io credo che sia innocente. Però in un certo senso non aiuta.»
«Non aiuta?» dice Ivan stupito. «Ma dovrebbe, no?»
«È chiaro che è meglio che non sia in galera» dico. «Ma io… ecco, non voglio avere a che fare con lui, tipo. E lo stesso la nonna, sostiene che non ce la fa più a viverci insieme.»
«Da quanto tempo sono sposati?»
«Da un secolo.»
«Okay» dice Ivan. «Ma hai pensato a come la vive lui? Prima viene accusato di qualcosa che non ha fatto, poi è costretto a rimanere agli arresti per mesi, e quando esce nessuno vuole più saperne di lui. Come staresti tu in una situazione del genere?»
Non posso negare che su questo punto un po’ di ragione ce l’abbia, Ivan, forse addirittura molta ragione. Ma mi è davvero difficile mettermi nei panni del nonno. Non sarei in grado di pensare e comportarmi come lui. È molto sgradevole e cerco di spiegare a Ivan quanto ci si possa sentire estranei nei confronti di certe persone.
«Lo so» ribatte. «Io mi sento spesso un estraneo. Cosa cavolo passa per la testa a gente come Pentti Hirvonen e Otto Hansson e a quegli idioti di Lyssne e Vargboda? Semplicemente non lo capisco. In che modo ragionano? E in generale, ragionano? È come se per tutto il tempo stessero insieme a dei grossi grassi blob che non sono altro che i loro ego… ma tuo nonno non è certo così?»
«Forse non proprio così» rispondo. «Più che altro è sempre chiuso e taciturno. Non si sa mai che cosa pensi. Ma sembra insoddisfatto, come se qualcuno si fosse comportato male con lui. Ti fa sentire in colpa anche se non hai fatto niente.»
«E adesso è lui, a sentirsi in colpa?»
«Ne dubito.»
«Be’, in fondo perché dovrebbe? Gli daranno un risarcimento per essere stato detenuto così tanto, fra parentesi?»
«Credo di sì. Ma non ne abbiamo parlato.»
Ivan annuisce e si concentra a dare un colpetto alla pallina per mandarla in buca. Sbaglia e scoppia a ridere. «Accidenti, finirai per vincere tu. Che vergogna!»
«Non c’è da vergognarsi a perdere contro di me a minigolf» replico, mandando in buca la mia pallina. «Andiamo in campeggio questo weekend, come avevamo pensato? Nel caso, penso che potremmo andare al Lomsjön in bicicletta. È vero che sono quaranta chilometri, ma prometto di non lasciarti indietro.»
Ivan mi abbraccia. «Mi porterò la canna da pesca» dice. «Se riesco a prendere almeno cinque persici, giuro che porterò in spalla te e la tua bici per tutto il tragitto di ritorno.»
Penso che amo Ivan. Sì, lo amo così pazzamente da non riuscire quasi a capacitarmene. Siamo insieme da cinque mesi, e spero che non finisca mai.
L’abbiamo anche fatto sul serio. Voglio dire che abbiamo fatto l’amore sul serio. Cinque o sei volte, ho perso il conto, e ogni volta è sempre più bello. Lui non ha mai avuto una ragazza ed è così delicato e premuroso con me che mi commuovo al culmine della mia umida eccitazione.
Non parliamo più del mio disgraziato nonno materno mentre finiamo la partita. Ivan vince, nonostante tutto, e quando ci separiamo sotto il solito lampione davanti a casa mia, abbiamo pianificato nei dettagli la nostra uscita con la tenda per il prossimo weekend. Partiremo già venerdì sera quando lui avrà finito al lavoro. Arriveremo al Lomsjön a notte fonda, è vero, ma in questo periodo dell’anno non diventa mai veramente buio dalle nostre parti, per cui cosa ce ne importa? Ivan sostiene che i pesci abboccano anche meglio intorno a mezzanotte, quindi forse al sorgere del sole saremo seduti intorno a un fuoco a mangiare persici appena affumicati.
Sì, certo che lo amo. Amo la vita.
Bernt-Olov e i miei fratelli sono già andati a dormire quando entro in casa, ma la mamma è sveglia. È in cucina con una tazza di tè e gli occhi lucidi. Mi siedo di fronte a lei e le chiedo che cosa succede.
«Crolla» dice. «Il mondo intero crolla.»
«Il mondo?» ripeto. «Adesso non è che stai un po’ esagerando?»
Lei sospira e mi guarda con un’espressione completamente vuota. Come se tutti i piccoli muscoli che regolano la mimica facciale avessero smesso di funzionare. Aspetto il seguito, che arriva dopo circa dieci secondi.
«Perdonami, Andrea, sono solo tanto stanca. Quasi non so quello che dico. Non darci importanza.»
«A che cosa non dovrei dare importanza?»
Lei ride e allarga le braccia. «A tutta… sì, a tutta questa famiglia scombinata.»
Il mio vecchio sogno della zattera riaffiora per un attimo, ma lo respingo. «Di che cosa avete parlato, tu e la nonna?» domando invece.
Mamma fa un paio di respiri profondi, le spalle le vanno su e giù e capisco che sta cercando di ricomporsi.
«Non so che cos’abbia la nonna» dice. «C’è qualcosa che non può raccontare, fin lì ci sono arrivata. Ma sta così male che ho paura che possa succederle qualcosa. L’hai visto, che aspetto ha?»
«Vuoi dire che…?»
«Nel peggiore dei casi, sì.»
Deglutisco. «E il nonno?»
Mamma scuote la testa, solleva la tazza, ma poi la mette di nuovo giù senza aver bevuto.
«Raccontami che cosa pensi» dico. «Non cominciare a tenerti dentro le cose anche tu.»
«Io credo…» comincia, ma poi si blocca e riflette. «Sì, io credo che potrebbe essere che il nonno sia colpevole, a conti fatti. E che…»
«Sì?»
«E che la mamma lo sappia. Per questo ha detto quella cosa… che non può più vivere con lui. Ma vedi, tesoro, in realtà non lo so proprio. Non riesco a cavarle niente di sensato.»
Sposto la sedia per mettermi più vicino a lei. La cingo con il braccio, e in quel momento Bernt-Olov entra in cucina. Pigiama e vestaglia, ha l’aria di aver dormito un po’.
«Ciao» dice. «Ciao Andrea.»
Mamma strappa un foglio di carta da cucina dal rotolo sul tavolo e si soffia il naso.
«C’è un’altra cosa, Andrea…»
Capisco immediatamente di che cosa si tratti.
«Oggi l’ho detto a Bernt-Olov» dice la mamma. «Che tu sai, intendo.»
«Aha» faccio. «Ah sì?»
Dal momento che ormai sono passati diversi mesi, avrei dovuto essere preparata e aver pensato qualcosa di sensato da dire, ma non l’ho fatto. Bernt-Olov mi accarezza sulla schiena, non è una cosa che fa di solito.
«Ti ho sempre considerata una figlia, lo sai, vero, Andrea? Ti voglio bene.»
Anche questo non lo dice di solito, forse non l’ha proprio mai detto, e la cosa mi sconcerta, ma mi rende anche felice.
«Avremmo dovuto dirtelo da un pezzo» abbozzo. «Che lo sapevo.»
Leggo sul viso della mamma che deve aver manipolato leggermente la cosa. Probabile che abbia detto a Bernt-Olov che l’ho saputo solo la settimana scorsa. Tipico, penso. Ma è ovvio che la capisco, non bisogna disprezzare le bugie dette a fin di bene. Abbraccio Bernt-Olov (insolito anche questo), poi anche la mamma e infine auguro loro la buonanotte e vado a dormire. Penso che ho fatto bene ad accantonare quel progetto del cambio di nome. Va bene anche continuare a chiamarsi Wester.
Il che non significa affatto che io abbia accantonato l’altro progetto: andare in Inghilterra a cercare il mio papà cantautore. Flynn Branagan. So che aspetto aveva diciassette anni fa, mamma mi ha mostrato le poche fotografie che ha di lui. Un uomo barbuto con i capelli lunghi e un sorriso largo; se poi cantava e suonava anche bene, effettivamente capisco perché se ne fosse innamorata. Aveva solo cinque anni più di quanti ne ho io oggi.
Penso a lui prima di addormentarmi, a lui e alle altre persone a cui in tanti modi sono legata. Mamma e Bernt-Olov. I miei fratellastri. La nonna e il nonno. Emma. Ivan. Se fossi una persona completamente diversa, lo sarebbero anche loro. È l’ultimo pensiero arguto che formulo prima di cedere al sonno.
Dopo, sulla porta dei sogni la nonna e il nonno si contendono l’ingresso con Ivan. Spero che sia Ivan a vincere.