9
Leon

Questa città.

Questa scuola.

Ora che l’autunno alla fine ha preso il sopravvento – domenica sarà il 1° ottobre – anche la sensazione di estraneità sta affondando seriamente i suoi artigli dentro di me. Potrei benissimo trovarmi in tutt’altro luogo, circondato da allievi diversi, con altri colleghi e altri presupposti. Ogni cosa mi sembra intercambiabile, ma la verità è che sono io, a esserlo. Privo di radici e di un contesto, cerco a tastoni un aggancio, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto; un aggancio nel presente, in ciò che è vicino e mi circonda. Il mio aggancio nel passato ormai si è perso per sempre. Così è, purtroppo, per me non esiste nessun filo rosso nell’ordito del tempo, nessun conforto in ciò che è stato. Ho quarantacinque anni e sono appena nato.

Eppure tutti i miei sogni si svolgono in quel passato. Amici diversi vengono a trovarmi lì, ma soprattutto lo fanno Judith e Helena, sì, adesso anche la mia defunta consorte. Ogni tanto mi pare di guardare dei vecchi documentari: viaggi che abbiamo fatto, persone che abbiamo incontrato, posti che abbiamo scoperto, pranzi di Natale, momenti di tenerezza... ma a volte, soprattutto a notte fonda o nelle prime ore del mattino, sono solo con Judith e allora la situazione è un’altra. Ci troviamo in contesti sconosciuti, spesso all’aperto e in luoghi bui e sinistri, e in circostanze poco rassicuranti. Siamo abbandonati, un pericolo ci minaccia, folate di vento e pioggia sferzante ci circondano, io devo proteggere mia figlia, ma fallisco in continuazione. Vorrei essere la sua roccia, ma non sono all’altezza. Mi sbriciolo e mi dissolvo.

Da questi sogni mi sveglio in preda all’angoscia, e ho come l’impressione che si verifichino con sempre maggiore frequenza, ogni tre o quattro notti, nell’ultima settimana tre notti su sette. Da gennaio prendo dei blandi sonniferi, all’inizio riuscivano a farmi dormire anche sette, otto ore, ultimamente il tempo si è ridotto in misura significativa. Forse dovrei aumentare la dose oppure farmi prescrivere qualcosa di più forte. Magari trovare uno psicoterapeuta; anche se K. è una piccola città, ci sarà pur qualcuno che curi le anime. Altrimenti vorrà dire che prenderò l’autobus e andrò a Ö. In via preliminare decido di chiedere consiglio a Ludmilla sull’argomento.

Ludmilla, sì. Non ci siamo più visti a quattr’occhi da quella sera al Commedia, e non so che cosa abbia in mente. Non so neppure che cosa intenda io stesso con una domanda del genere; un bacio è un bacio è un bacio, o no, e significa una presa di posizione? Una dichiarazione? Una promessa?

Santo Iddio, sto parlando a vanvera. È venerdì sera, ho bevuto tre bicchieri di vino in solitudine; pensavo di accontentarmi di uno, per accompagnare la mia lugubre pasta, ma tanto vale che scoli tutta la bottiglia. Almeno avrà l’effetto positivo di farmi addormentare senza bisogno di sonniferi. E quel famoso romanzo che sto cercando di leggere, I cavalieri malinconici, di un russo di cui dimentico continuamente il nome, non mi regala né pace né piacere. Ho perfino cercato di guardare per qualche minuto la tivù, ma il venerdì sera sembra votato a competizioni infantili e a polizieschi americani. Ho provato ad appassionarmi a uno di questi ultimi, ma per seguire una trama bisogna convincersi che ne valga la pena.

E io non ci sono riuscito. Sarà anche colpa del professore, ma non sta molto bene.

Si versa un quarto bicchiere di vino e decide di sollevarsi dalla sua squallida situazione.

O almeno di tentare. Di indirizzare la coscienza e focalizzarsi.

Su cosa?

Il lavoro, naturalmente, perché è proprio alla Bergtunaskolan che succede tutto ciò che forse ha una qualche importanza nella mia vita. Gli allievi hanno frequentato il primo mese e mezzo del quadrimestre autunnale, ho imparato i nomi di centotrenta di loro e di quasi tutti i colleghi, e solo questa è una prova mnemonica non indifferente. Come al solito sono le none a dare più soddisfazione, io ho una classe per svedese, quattro ore la settimana, e un’altra per storia, solo due.

La nona di svedese è davvero un’accolita particolare; mi sembra di intuire che sia stato il mio predecessore, Eugen Kall­mann, a dar loro la sua impronta. Individui singolari e ribelli di solito ce ne sono in tutte le classi, ma in questo caso sono davvero tanti: Charlie Mattis, Ivan Kardasjan, Claes-Henric Holmberg, Yvonne Johansson, Emma Decantines, Andrea Wester… C’è anche un gruppetto di signorine vagamente intriganti, ma è probabile che la loro influenza fosse maggiore in settima e ottava; adesso sembrano aver più o meno esaurito il loro ruolo. Non manca nemmeno qualche ragazzo dal rendimento davvero scarso, si capisce, uno di loro è uno skinhead, fra parentesi. Mi ricorda un corpo celeste solitario uscito dalla sua orbita; nessuno lo prende di mira direttamente, ma è sempre seduto da solo nel suo banco doppio. Si chiama Axel, ma quando qualcuno lo nomina, diventa sempre Arsel, stronzo.

C’è una sola persona però che mi fa palpitare il cuore: Andrea Wester. Alcune volte, quando si muove in un certo modo o piega la testa secondo una certa inclinazione, è identica a Judith. Non è solo l’aspetto a essere uguale, ma anche i gesti, il linguaggio del corpo, la voce (a parte la dolce inflessione del Norrland), sì, è… come definirlo? Una forma più profonda di corrispondenza?

Perché no? Esiste una vecchia teoria secondo la quale il numero di anime nel mondo è limitato, non ce ne sono a disposizione all’infinito, e per questo Nostro Signore lascia che una stessa anima s’insedi in due o più individui. Oppure che un morto entri in un vivente, anche se questa non è una cosa che mi piaccia pensare. La soluzione naturale, per evitare conflitti, è che Lui scelga di piazzare queste anime clonate alla massima distanza possibile l’una dall’altra, per esempio una nella Terra del Fuoco e l’altra a Oslo, ma ogni tanto il trucco può anche non riuscire. Una ragazza a Stoccolma, un’altra a K., potrebbe sembrare una situazione priva di rischi, ma poi ecco che scoppia una tempesta al largo di Dar es Salaam e le cose vanno come vanno e… sì, mi capita di abbandonarmi a questo genere di pensieri senza opporre resistenza mentre Andrea e i suoi compagni sono immersi nella lettura di un testo o impegnati in un compito scritto, così che il professore in cattedra non ha altro da fare che consentire a tutte le idee più strampalate di torturare il suo cervello avido di caffeina.

Ma ho la sensazione che prima o poi dovrò avvicinarmi a lei sul serio. Non posso lasciarmi sfuggire questa possibilità.

Adesso basta con questa follia che nasce dal dolore. I giorni scorsi poi ho svuotato la scrivania. Fatto pulizia fra i resti di Kall­mann, si potrebbe dire, ma senza seguire il suggerimento di Ludmilla Kovacs sui sacchi neri. Invece ho cacciato tutto quanto, senza curarmi di smistare o scartare, dentro quattro scatoloni, che sono riuscito a stipare nel ripostiglio di fronte alla stanza comune.

Tutto quanto?

No, non proprio. Nell’ultimo cassetto in basso a destra della cassettiera, sotto una cartelletta contenente dei test unificati del 1991 mai riconsegnati, ho rinvenuto quattro quaderni formato A5 con la copertina in tela cerata, del tipo più spesso, con i fogli a righe, che un tempo si potevano trovare presso tutti i cartolai un minimo forniti. Colore nero, da cento a centoventi pagine ognuno, mi pare. Aprendone uno, ho letto sulla prima pagina:

E.K.

Diario 1985-88

Confidenziale

Sono rimasto immobile per un po’. La giornata scolastica era finita, ed ero l’unico presente nella stanza. Stanco dopo sei lezioni, le ultime due una doppia ora in una delle mie settime, quella problematica con predominanza di ragazzi che vengono da fuori – Dio solo sa da quali villaggi e poderi immersi nella foresta. Ma ormai avevo deciso di metter mano alla scrivania, era già passato troppo tempo, le mie pile di carte e di libri rischiavano di mescolarsi con quelle di Kall­mann se non avessi preso provvedimenti.

Il cassetto in basso a destra era l’ultimo, poi avrei finito il lavoro. Naturalmente la soluzione più semplice sarebbe stata di far fare ai quaderni con la copertina cerata la stessa fine del resto; dentro uno degli scatoloni e poi via nel ripostiglio.

In effetti è una possibilità che ho preso effettivamente in considerazione, ci tengo a sottolinearlo, ma alla fine ho pensato che in fondo non sarebbe stata una violazione morale dare una rapida occhiata al contenuto; in ogni caso, non una violazione molto grave.

Così ho cominciato a sfogliare con circospezione uno dei quaderni, quello che risaliva più lontano nel tempo: 1980-1984. Il testo riempiva solo le pagine di destra, era fitto e di difficile lettura, scritto a lapis in una calligrafia minutissima. Non si trattava nemmeno di un diario nel senso comune del termine, me ne sono reso conto subito, anche se ogni nuovo capitolo iniziava con l’indicazione della data. Le date procedevano in ordine cronologico, la prima era il 3 gennaio 1980, ma fra una e l’altra potevano passare giorni o anche settimane. Nella maggior parte dei casi il testo relativo a ogni data occupava da una a tre pagine; il più breve che ho trovato nel primo quaderno era di tre righe soltanto, data: 6 giugno 1981; il più lungo di quasi sei pagine, data: 10 ottobre 1982.

Dopo essermi fatto quest’idea d’insieme, ho letto parola per parola la primissima annotazione.

3 gennaio 1980.

Nuovo decennio, nuovo compleanno, il quarantanovesimo. Niente festeggiamenti, sarebbe stato qualcosa di sensazionale, in fondo sono trascorsi solo sei mesi da quando sono tornato sul luogo del delitto. Forse dovrò declinare eventuali festeggiamenti l’anno prossimo quando saranno cinquanta tondi, o forse no. Chi dovrebbe festeggiarmi? Questa volta mi sono festeggiato da solo bevendo un buon puro malto che avevo tenuto da parte da un bel po’, mentre bruciavo le vecchie annotazioni nella stufa. E poi ho attaccato di nuovo con questo: la mia sconsolante odissea fino al termine della notte. Attraverso la scrittura si cuce solidamente se stessi nella realtà e la realtà dentro di sé, ma che cosa succede quando ci si libera del cucito? Quando si scuce? Dove si bruciano libri prima o poi si arriverà a bruciare esseri umani, sostiene Heine, ma io forse posso legittimare il mio agire con Strindberg: Qui si demolisce per ottenere luce e aria? Nessuno leggerà mai comunque la mia opera pretenziosa, io scrivo per tener lontana la pazzia, e ho bruciato alcuni quaderni per lo stesso motivo. In ogni caso, da sei mesi sono di nuovo qui. Sono nato a queste latitudini, e qui morirò. Ma qual è allora la mia grande difficoltà, il dilemma che mi tiene lontano da qualunque significativa comunanza con il prossimo? Lasciate che lo spieghi ancora una volta per un ipotetico lettore. Il nocciolo della questione in realtà è di natura molto semplice: io ho la capacità di vedere dritto nell’anima di chi mi sta vicino, ed è una cosa insopportabile. Insopportabile oggi come lo era quando scoprii di avere questo dono. Mia madre aveva una relazione con il migliore amico di mio padre e io la uccisi, ecco. Amavo mio padre e non potevo sapere che la morte di lei gli avrebbe distrutto la vita. Non credevo che potesse amare una donna del genere, e invece poteva e lo faceva. Avrei dovuto uccidere l’amante, invece, ma lui se la cavò. Anch’io me la cavai, nessuno sospettava di omicidio un bambino di undici anni, soprattutto ipotizzando che la vittima fosse morta di morte naturale. E lo credevano davvero, in effetti, al massimo pensavano che mia madre si fosse tolta la vita, mio padre però sapeva come stavano le cose. Mia sorella? No, di lei non voglio scrivere. Ma io amavo mio padre, lui era la mia roccia e per quello feci ciò che feci. E fu dopo quell’evento che ricevetti il mio dono, la mia tortura. Una persona che ha ucciso non può guardarmi negli occhi e tenerlo nascosto. I più non riescono nemmeno a celare una menzogna, io lo vedo come un marchio di Caino, non si scappa. Da allora evito di guardare la gente negli occhi. Sono quasi quarant’anni, ormai. So che comportava un rischio tornare quassù, ma non avevo scelta. Il mio scopo è andare indietro e cominciare a sistemare delle cose, l’ho sentito come urgente nel corso di molti anni di diaspora, e la mia vita è comunque un fallimento. Lo sguardo dell’osservatore d’improvviso non basta più, devo accendere i miei fuochi. I propositi vengono frustrati, sono il primo a sottoscriverlo. Tuttavia non è il risultato non intenzionale a essere più valido? Non è qui che costringiamo il boia nel suo angolo più debole? Domando solo. Domando e domando.

Era tutto. Ho letto il testo due volte con un crescente senso di sconcerto. Che cosa diamine era quella roba? Una confessione? L’abbozzo di un romanzo? In fondo girava voce che Kall­mann avesse pubblicato un paio di libri sotto pseudonimo. L’inutile giocare con le parole di un individuo solo e tormentato? (Sotto l’effetto dell’alcol nel giorno del compleanno?) Ho deciso di non leggere altro e di raccogliere invece qualche informazione basilare su Eugen Kall­mann: il suo passato, i suoi genitori, la sua data di nascita… non dev’essere tanto difficile; se non altro potrebbe offrirmi un motivo per avvicinarmi a Ludmilla Kovacs. Partendo da qualcosa di diverso da un bacio avventato ma – nota bene – ricambiato.

Questo succedeva mercoledì, e non sono ancora andato oltre nella faccenda. Ludmilla è stata via due giorni per un corso, naturalmente ci sarebbero state altre vie da percorrere, ma non ho voglia di avventurarmi in nessuna di esse. Aspetterò lunedì, i quaderni di Kall­mann li ho nascosti in mezzo al mio ciarpame pedagogico in un cassetto diverso da quello dove li ho trovati; noto che dopo quattro bicchieri di vino e con il quinto già versato mi piace pensarli come una bomba a orologeria che ticchetta tranquilla. Che cosa non farebbe un povero vedovo per portare un po’ di suspense nella sua squallida esistenza?

Avrei una domanda, dirò lunedì a Ludmilla. Non è che per caso sai come morì la madre di Eugen Kall­mann?

Gli occhi dell'assassino
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