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Igor
12 settembre, sera tardi.
Oggi mi è capitata una cosa davvero antipatica. Stavo giusto per concludere la mia giornata a scuola e andarmene, avevo già anche fissato la cartella al portapacchi della bicicletta, quando Vera Rönne mi ha chiamato.
Vera è la collega con cui lavoro da più tempo, ha cominciato qui solo un semestre dopo di me, e ho sempre apprezzato la nostra collaborazione. È minuta e timida, ma ha un’autorevolezza naturale che fa sì che nessun allievo riesca a metterle i piedi in testa. È anche un’ottima insegnante, si capisce, credo che si possa tranquillamente affermare che sia merito suo e mio se la matematica e le altre materie scientifiche (in ogni caso fisica e chimica) hanno mantenuto l’alto livello che da tanti anni è il vanto di questa scuola. Abbiamo un discreto vantaggio sulla Petreskolan, l’altro ginnasio di K. I nostri studenti non si trovano a fronteggiare i problemi tristi e imbarazzanti tipici dell’indirizzo scientifico del liceo, e in un paio di occasioni Vera e io abbiamo dato una mano al ministero della Pubblica Istruzione nella preparazione del test standard di matematica. Niente di cui vantarsi, forse, ma comunque una piccola piuma sul cappello. A intervalli regolari abbiamo discusso se non sia il caso di presentare una richiesta di congedo per elaborare insieme del materiale didattico decente per il ginnasio, ma ogni volta il progetto si è arenato perché entrambi amiamo troppo insegnare. Se si smette per un semestre o per un intero anno scolastico, non si sa mai che cosa potrebbe succedere.
Comunque sia, Vera mi stava chiamando, nell’attimo preciso in cui ho tolto la mia bicicletta dalla rastrelliera fuori dell’ingresso del personale, e dalla sua voce ho capito che non si trattava di una banale faccenda scolastica. Era affacciata alla finestra della nostra stanza comune al secondo piano, evidentemente l’aveva aperta nel momento in cui mi aveva visto; erano passati venti minuti o forse una mezz’ora dal termine dell’ultima lezione, e l’edificio scolastico si era ormai svuotato di personale e allievi.
«Aspetta, Igor» mi ha pregato. «Arrivo.»
E così ha fatto. Un minuto dopo era accanto a me e mi mostrava un messaggio che aveva trovato nella sua casella fuori della sala professori. Un foglio formato A4 con un breve testo composto con lettere ritagliate, a prima vista prese dallo stesso quotidiano. E incollate con cura a formare la minaccia di morte che adesso rendeva Vera terrorizzata e sconvolta come non l’avevo mai vista in tutti gli anni in cui abbiamo lavorato insieme a scuola.
Piccola sporca ebrea. Sappiamo dove abiti. Scrivi il tuo testamento perché non ti resta più molto da vivere. Quelli come te sono una vergogna e non devono lordare il nostro paese.
La Pattuglia degli Epuratori
Tutto in bell’ordine, come già detto. Le maiuscole al posto giusto. Nessun errore di grammatica o di ortografia. Con delicatezza ho messo il braccio intorno alle spalle di Vera mentre contavo le parole. Trentacinque. Non so perché le abbia contate, probabilmente solo per guadagnare un po’ di tempo per riflettere.
«Stupidate» ho detto poi. «Non devi far caso a imbecilli del genere.»
«Lo so» ha replicato Vera. «Non dovrei, ma è stato uno shock. Non mi era mai capitato prima.»
Vera è nata ad Auschwitz. Non ha mai raccontato niente di quel luogo, per il semplice motivo che non ricorda niente. Quando arrivò in Svezia dopo la fine della guerra aveva solo un anno, sua madre era morta e lei era stata accudita da un’altra donna che aveva perso il proprio bambino. Quella donna continuò a farle da mamma, ma morì quando Vera aveva quattordici anni. Vera sapeva che tutta la sua famiglia era stata sterminata durante l’Olocausto, fatta eccezione per uno zio paterno e una zia acquisita che erano riusciti a lasciare la Germania subito prima dello scoppio del conflitto e che vivevano negli Stati Uniti con due suoi cugini, nati entrambi nel nuovo paese. Vera non ha mai incontrato nessuno di questi parenti, per trent’anni ha avuto soltanto sporadici contatti epistolari con loro.
A grandi linee questo è tutto quello che so del difficile passato della mia collega, e probabilmente è anche tutto quello che si sa. Vera è cresciuta a Ö., ha studiato a Lund e ha fatto ritorno nei luoghi della sua infanzia dopo la laurea e l’abilitazione a insegnare. Si è sposata con un pastore che si chiamava Egon Rönne, precocemente morto di cancro, e non ha mai avuto figli. Credo che al momento Vera – più o meno come me – consideri la Bergtunaskolan la sua seconda casa e i colleghi la sua famiglia.
«Gli Epuratori» ha detto. «Concorderai che è disgustoso.»
«Orrendamente disgustoso» ho risposto. «Sono passati cinquant’anni, e sono di nuovo in azione. Ma non devi prendere questa cosa sul serio. Voglio dire, non è di sicuro una minaccia concreta, sono solo sciocchezze.»
Ho provato irritazione nel ripetere la parola «sciocchezze» a quel modo, ma lì per lì non ho trovato un’alternativa migliore. Forse perché ero addolorato quanto Vera. Lei ha detto annuendo:
«Lo so. Sono sciocchezze. Ma ho comunque paura. Sia per me che per la nostra società. Dove stiamo mai andando?»
«Era nella tua casella, hai detto?»
«Sì. Qualcuno deve avercelo messo dopo l’ultimo intervallo, perché in quell’occasione ho ritirato delle carte. Quindi durante l’ultima lezione o dopo… l’ho trovato solo cinque minuti fa.»
«Qualche naziskin è in circolazione» ho detto io. «Non dovrebbe essere troppo difficile risalire a chi l’ha scritto.»
Non ho fatto nomi, perché Vera sapeva benissimo a chi mi stavo riferendo. Gli elementi peggiori sono due fratelli di Lyssne, i quali però hanno anche una piccola corte formata da altri sei, sette ragazzi. Io insegno a uno dei due fratelli e a un paio degli epigoni. Tutta gente che è lì a scaldare il banco, per farla breve.
«Lordare» ha commentato Vera. «Una scelta linguistica piuttosto sorprendente, non sembra anche a te?»
Ho studiato il foglio che stringevo ancora in mano.
«Possono averlo imparato» ho detto io. «A una delle loro riunioni.»
«Sì» ha detto Vera. «A quanto pare ne tengono. Non mi sono mai considerata straniera, quasi nemmeno ebrea, ma loro sono bravi a scovare quelli che dovrebbero essere sterminati.»
«Santo Iddio» ho detto. «Non parlare così. Dobbiamo fare in modo che la denuncia arrivi alla polizia. Hai visto se c’è ancora qualcuno in direzione?»
«Mi pare che Torstensson sia nel suo ufficio a girare carte» ha risposto Vera. «Mentre Fröberg è stato tutto il giorno in comune, credo.»
«Okay. Fröberg sarebbe andato meglio, si capisce, ma questa è effettivamente responsabilità del preside. Su, vieni, andiamo a parlargli.»
E così abbiamo fatto. Il preside Torstensson all’inizio è stato vago e sfuggente come suo solito. Tutto ciò che può portare una cattiva fama alla scuola dev’essere insabbiato, questa è stata la sua indolente filosofia fin da quando assunse l’incarico otto anni fa, ma stavolta è sembrato capire quanto fosse seria la cosa. Era stato costretto a fare lo stesso la primavera scorsa in occasione della morte di Kallmann, e forse in quel frangente ha imparato davvero qualcosa. Vera e io siamo rimasti nel suo ufficio mentre telefonava alla polizia, e dopo ci siamo detti che per una volta si era dato da fare, per cui non era poi così squinternato, il vecchio Torstensson.
La lettera minatoria è stata messa in una busta e sigillata, in attesa che l’ispettore Marklund passi a ritirarla domani mattina. Era stato Marklund a tenere le fila anche in maggio, siamo stati tutti d’accordo che stavolta la faccenda vada trattata con più discrezione. Pur non condividendo la filosofia dello struzzo di Torstensson, non giova alla serenità con cui si lavora in una scuola veder piombare lì troppo di frequente la polizia.
Ho chiesto a Vera se aveva voglia di andare a prendere un caffè e fare quattro chiacchiere, ma ha declinato l’invito. Mi ha ringraziato per essermi preso a cuore la faccenda e averla calmata, e quando ci siamo congedati mi è parso che avesse riacquistato il suo consueto equilibrio.
A parte l’incidente che ho appena descritto, l’inizio del quadrimestre autunnale è stato eccellente. La nuova arrivata fra i docenti di scienze, Eva Bergelin, è un soffio d’aria pura che oltretutto sembra capace di gestire egregiamente gli allievi, e lo stanco Wiksten non è più stanco del solito. Non si è ancora messo in malattia, ma di sicuro non passerà molto tempo prima che lo faccia. Nel corso degli anni abbiamo imparato come gestire il problema; a nessuna condizione ci prestiamo a sostituirlo quando lui non c’è, un insegnante che non corrisponde alle aspettative è responsabilità della dirigenza scolastica – non dei colleghi – e questo a poco a poco Fröberg l’ha capito. L’anno scorso l’ottimo supplente Esko Lipponen si fece carico di circa un terzo delle lezioni di Wiksten, e mi sembra opinione comune che i ragazzi abbiano imparato, in quel terzo di tempo, quanto negli altri due messi insieme. C’è solo da sperare che Lipponen sia ancora disponibile, in realtà fa il giornalista e pare abbia l’ambizione di trasferirsi nella capitale. Ma ha anche una compagna e due bambini piccoli, per cui si spera che Stoccolma sia fuori portata per lui.
Nel corso della serata non sono riuscito a levarmelo dalla mente, quel perfido foglio nella casella di Vera Rönne. Chiaramente certe idee e la xenofobia sono ancora presenti nel nostro paese, sebbene i pagliacci Ian e Bert siano stati praticamente annientati alle ultime elezioni. E benché l’Uomo Laser sia ormai rinchiuso dov’è rinchiuso.
Ma è passato appena un mese da quando il povero John Hron è stato ammazzato da una banda di skinhead sulle rive di un lago della Svezia occidentale, e io naturalmente non posso fare a meno di ripensare a ciò che è successo a Kallmann. Non mi riferisco alla sua morte, ma a quella storia nel parco cittadino l’autunno scorso. Fu davvero opera della plebaglia neonazista? E Kallmann si trovava lì per una qualche forma di protesta? E, in conclusione, l’inevitabile domanda: com’è avvenuta realmente la sua morte? È stata accidentale come vuol far credere la polizia?
Oppure vogliono stendere un velo su qualcosa?
Che cosa, in tal caso?
E adesso la lettera minatoria a Vera Rönne. La Pattuglia degli Epuratori?
Dovrei correggere i test d’ingresso delle settime, ma per una volta ho difficoltà a concentrarmi. Aspetteranno fino a domani, non c’è niente da fare e la necessità detta legge.
Per ingigantire ancora di più il mio assillo, Kallmann si rifiuta di lasciare in pace la mia mente. In particolare, continuo a ripensare a quello che mi disse durante la nostra ultima conversazione. Igor, ho motivo di credere di essere incappato in un delitto irrisolto. Irrisolto e mai scoperto.
È ovvio che ne parlai con l’ispettore Marklund in maggio, ma non sono sicuro che la polizia abbia dato il giusto peso a questa informazione. O che Marklund l’abbia fatto. A complicare le cose c’è il fatto che vent’anni fa ero il suo professore di matematica e fisica, e che lui non era certo il cervello più fino della classe. Si è creata una situazione fortemente innaturale quando ci siamo incontrati di nuovo in ruoli del tutto diversi; ho notato che aveva palesi difficoltà a rapportarsi con il suo vecchio insegnante e che era chiaramente in imbarazzo. Ma se uno decide di ritornare nei luoghi della propria infanzia nei panni di agente della polizia giudiziaria, dovrebbe essere preparato a qualche piccola complicazione. O no?
Mentre procedo con la mia toeletta serale, decido comunque di ricordare a Marklund la cosa, se davvero verrà a scuola domani mattina come ha promesso. Più di tutto a disturbarmi non è l’incerto contributo della polizia, ma il fatto che Kallmann si rifiutò di approfondire ciò che disse quella famosa volta. Un delitto irrisolto e mai scoperto? Naturalmente gli chiesi di cosa stesse parlando, ma lui si limitò a rispondere alla sua maniera, che era troppo presto per fornire i dettagli.
«Dobbiamo tenere a mente, mio caro Igor» ricordo che aggiunse, «che a ben vedere quasi tutto al mondo è irrisolto.»
Ora, non voglio affermare che credesse davvero a quanto disse a proposito di quel delitto, a Kallmann piaceva mistificare e fare allusioni, ma una settimana dopo era morto, e la morte come tutti sanno ha la capacità di gettare una nuova luce su ogni circostanza possibile e immaginabile.
No, adesso sono troppo stanco, dev’essere piuttosto un’ombra, quella che getta. Per non dire un velo di tenebre.