23
Andrea
Probabilmente non incontrerò mai più Calle.
Mi sembra una cosa positiva e triste insieme. Come se si fosse trattato di uno di quei famosi bivi; ero costretta a scegliere una strada oppure l’altra, e in base a quella scelta la mia vita si sarebbe dipanata in un certo modo anziché nell’altro. Con questo non intendo dire che mi sarei per forza sposata e avrei avuto dei figli con Calle se fosse venuto qui durante le vacanze autunnali, ma almeno avrebbe potuto significare una certa continuità. Che in qualche modo saremmo andati avanti; magari avremmo fatto l’amore, e magari sarei stata a Stoccolma nelle vacanze di Natale e avrei conosciuto la sua famiglia. E così via.
Se non avessi deciso per la prima strada. Fermandolo proprio poco prima che salisse sul treno. Purtroppo è andata quasi così, perché a lungo ho creduto che avrebbe capito che non era una grande idea venire a trovarmi. Senza doverglielo dire in modo così brutalmente chiaro. Pensavo di essere riuscita a spiegarglielo – senza ferirlo – nella mia lettera e durante la lunga telefonata che abbiamo avuto una settimana fa. Ma non ci ero riuscita; evidentemente sono stata poco chiara e confusa, e del resto nemmeno io sapevo con certezza che cosa volessi davvero. Se fosse stata ancora estate e ci fossimo trovati su un’isola greca, l’avrei rivisto più che volentieri, ma in effetti c’è una grossa differenza fra un’isola greca d’estate e K. a novembre. E una differenza enorme anche fra un anonimo albergo sulla spiaggia e la nostra villetta in Skomakargatan.
Per cui è andata com’è andata. Gli ho telefonato il mattino stesso in cui doveva partire (così è risultato, io in effetti nemmeno lo sapevo con sicurezza, tanto era stata confusa la nostra comunicazione) e gli ho spiegato che le cose tra noi non funzionavano. Sorry, sorry. Non so che reazione mi fossi aspettata, ero rimasta sveglia buona parte della notte in preda all’angoscia, ma è successo che dal ricevitore è uscito solo silenzio. Lo sentivo respirare, e per mezzo minuto o giù di lì è stato come se stessimo ascoltando i nostri respiri e basta, era una cosa strana e in qualche modo fatale, poi lui ha detto solamente «Okay, capisco», e ha messo giù. Io mi sono rifugiata di nuovo sotto le coperte e ho pianto fino ad addormentarmi; questo succedeva esattamente una settimana fa, la mattina di sabato, e da allora non ho più avuto sue notizie.
Ne avevo anche parlato alla mamma. Quel ragazzo, Calle, che avevo conosciuto a Creta d’estate, forse sarebbe venuto a trovarmi durante le vacanze. Mamma aveva assentito e detto va bene, ma non abbiamo mai parlato dei dettagli. Stavamo insieme? Dove avrebbe dormito? Bernt-Olov mi avrebbe permesso di dormire con un ragazzo in camera mia? Sesso?
Abbiamo un rapporto completamente nuovo, io e la mamma. Dopo che mi ha raccontato del mio vero padre, mi sembra quasi di aver trovato una sorella maggiore, e quel famoso sogno della zattera e della cascata non sembra più molto importante. Piuttosto le zattere adesso sono due, mamma e io a bordo di una, e ci salviamo perché abbiamo il buon senso di accostarci a riva e scendere a terra; papà, Aron e August sull’altra, quella che naufraga. Non l’ho sognato per davvero, ma riesco a immaginarmi senza problemi che ce ne stiamo sedute ognuna sul proprio masso, mia sorella maggiore e io, mentre li vediamo andare alla deriva e scomparire giù dalla cascata.
Pensare che ho un altro papà! Incredibile che effettivamente le cose stiano come mi ero immaginata. Ed è incredibile che mamma abbia effettivamente vissuto quella storia. È così triste che mi viene da piangere non appena ci penso. E da quando me l’ha raccontata, non ho quasi fatto altro. È presente tutto il tempo nella mia testa; quando mi sveglio la mattina, passa sempre una manciata di secondi vuoti durante i quali non riesco a realizzare di preciso che cosa sia cambiato in modo così radicale, ma poi mi ricordo. La mamma. Londra. La brughiera. Il cantautore. I pub. Il camper. Gli spinelli. Amore. Sesso. Amore. Il tradimento. Ha ballato una sola estate. Pensare che la vita possa essere davvero così. Sono stata concepita in un camper a Londra. Non sono mai salita su un camper, ma prima di morire voglio farlo.
E forse, forse è stato a causa del racconto della mamma se ho detto di no a Calle. In ogni caso, le due storie sono collegate, questo almeno lo capisco.
«Ma che cosa pensavate?» ho chiesto alla mamma.
«Naturalmente che fosse giusto che lo sapessi» ha risposto lei con un sospiro. «Immagino che te l’avremmo detto quando avessi compiuto diciotto anni.»
«Immagini?»
«Sì» ha risposto. «Non ne abbiamo mai parlato granché. Sai com’è papà, no?»
«Vuoi dire Bernt-Olov?»
La ferisce che io lo chiami Bernt-Olov, ma non riesco a farne a meno. Capisco che in lei susciti sensazioni di colpa e vergogna, anche se la abbraccio. E poi non so di preciso contro chi rivolgere le mie accuse. O perché debba accusare per forza qualcuno.
Probabilmente perché mi hanno ingannata. Anche se, quando mamma mi chiede a che età penso sia giusto che un bambino venga a sapere che suo padre non è suo padre, io non ho nessuna buona risposta da darle. È ovvio, perché una buona risposta non esiste.
Ma nemmeno accusare è la cosa più importante. Sono passate quasi tre settimane da quando ho saputo la verità, e mi accorgo che i miei pensieri sono occupati principalmente da Flynn. Il mio vero padre. Anche se è stato uno stronzo ad abbandonare la mamma in quel modo, dovrà pur essere ancora da qualche parte? Forse se ne va sempre in giro per l’Inghilterra a cantare nei pub, è vero che ora avrà superato la cinquantina, ma non esistono limiti di età per questo genere di cose.
Voglio andare a cercarlo? In fondo ho ereditato metà dei miei geni da lui. Non lo so. Probabilmente sì, ma la mamma me lo sconsiglia. Dovrei aspettare qualche anno, ritiene, e forse ha ragione.
Mercoledì scorso ho deciso di raccontarlo a Emma; mi sono fermata a dormire da lei, e siamo rimaste sveglie a parlare fino alle cinque del mattino. Non le ho detto che erano passati già molti giorni da quando l’avevo saputo; forse esagero, ma temevo che si sarebbe arrabbiata con me per non averla messa subito al corrente. In un certo senso è stata lei a mettermi sulla giusta strada, e da quando ci frequentiamo assiduamente parliamo davvero di tutto. O almeno ho l’impressione che Emma lo faccia, mentre io le ho nascosto la storia della visita programmata di Calle, per cui forse non sono del tutto a mio agio. Come sarebbe andata se alla fine non l’avessi fermato? Che cosa avrei detto a Emma? L’amicizia prevede che ci si dica la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità; questo devo averlo senz’altro letto da qualche parte, ma forse la vita è più complicata. In realtà. E io sono ovviamente figlia di mia madre.
All’inizio Emma ha assunto toni quasi trionfanti.
«Che cosa ti avevo detto?» ha esclamato. «E congratulazioni!»
«In che senso?» le ho chiesto.
«Nel senso che chiunque sia il tuo vero padre dev’essere molto meglio di Bernt-Olov. Perdonami se te lo dico.»
«Bernt-Olov non si è comportato poi così male» le ho fatto notare. «Si è offerto di prendersi cura di un bambino che non era suo. Forse non ha colpa se è un po’ noioso.»
«Scusa» ha detto Emma. «Sono stata un po’ insensibile. Ma tu che cosa ne pensi? Non sei contenta che le cose stiano così?»
«Non lo so» ho risposto. «Non ho ancora avuto tempo di rifletterci.»
Il che era una bugia perché è un paio di settimane che non penso ad altro.
«Lui lo sa? Voglio dire, avete detto a Bernt-Olov che tu sai che non è tuo padre?»
«No. Abbiamo deciso di aspettare un po’.»
«Come mai?»
«Perché non so che cosa dirgli. Non credo che sarei capace di fingermi dispiaciuta, e se gli dico che sono contenta di non essere davvero imparentata con lui… ecco, mi sembra piuttosto ignobile, non trovi?»
Su questo Emma era d’accordo, e poi abbiamo dedicato almeno un’ora a esaminare i nostri genitori, il nostro corredo genetico e le nostre brillanti prospettive future. Se è vero che si diventa uguali alla propria madre e al proprio padre, che lo si voglia o no. Che le premesse biologiche sono molto più determinanti di quanto si voglia ammettere. È così? È ovvio che ognuno preferisca considerarsi un individuo libero, che guida la sua vita e il suo destino di propria mano, senza interferenze da parte dell’eredità ricevuta e dell’ambiente in cui è finito senza averlo chiesto. Ma funziona veramente così? Siamo davvero liberi come vorremmo essere? Emma ha un papà argentino e una mamma svedese, e adesso si è scoperto che io sono divisa fra l’Inghilterra e la Svezia; vorrà dire che tutt’e due abbiamo cromosomi più interessanti dei comuni indigeni di K. e dintorni?
Questa in ogni caso è stata l’orgogliosa conclusione a cui siamo arrivate, mentre stavamo lì a filosofare nell’ampio letto di Emma.
Ma non abbiamo filosofeggiato soltanto su noi stesse e sulle nostre famiglie, abbiamo anche spettegolato un bel po’ sulla scuola. Sia Emma che io percepiamo qualcosa nell’aria. Nessuna delle due sa spiegare che cosa intendiamo, è solo una sensazione. Molto probabilmente ha a che fare con i nazi, il povero Ylmaz della 9A ha preso un sacco di botte, e non c’è dubbio che dietro ci siano gli skinhead. L’aggressione è stata denunciata alla polizia, ma naturalmente non sono riusciti a identificare i responsabili. Viene da chiedersi che cosa cavolo faccia la polizia oltre a multare la gente per eccesso di velocità o per sosta vietata. Nel frattempo, Otto Hansson e la sua banda se ne vanno in giro per i corridoi con l’aria soddisfatta, si vede che si credono importanti e scarabocchiano le loro croci uncinate sghembe un po’ dappertutto. Nilsson, il bidello, ne ha sorpreso uno mentre lo faceva la settimana prima delle vacanze e si dice che gli abbia tirato un pugno – credo che si trattasse del fratello minore di Otto –, facendolo finire al tappeto. Non ci sono state denunce, da parte di nessuno dei due. Nemmeno Nilsson ci sta proprio del tutto con la testa, e per quanto lo riguarda non ha grande importanza che uno disegni una rosa o una croce uncinata su un muro. Uno scarabocchio è uno scarabocchio, punto e basta.
Ma non ci sono solo gli skinhead, c’è anche altro. Forse davvero è ancora lo spettro di Kallmann che si aggira. Ci siamo stancate piuttosto in fretta della nostra attività investigativa, Emma e io, probabilmente perché non stavamo arrivando da nessuna parte. Emma ritiene che sia stata io a mettere i bastoni fra le ruote alla nostra attività, rifiutandomi di parlare con il nonno. L’idea – l’idea di Emma, a dire il vero – era che io semplicemente lo fissassi dritto negli occhi e gli chiedessi come stavano le cose fra lui ed Eugen Kallmann, ma a me sembrava così ridicolo e assurdo che ho detto di no. Dopo aver presentato il nostro lavoro di gruppo (particolarmente riuscito, secondo Stina Birgersson, che però come al solito ha evitato di parlare di voti; in realtà lei è contraria ai voti in quanto tali, ma è chiaro che deve metterli comunque), dopo la presentazione del paese che confina con noi a oriente, dunque, nessuna di noi ha più avuto contatti con Charlie Mattis. Ed era lui il ragno che tesseva la tela, la nostra rete investigativa, intendo dire. Non credo che nessun altro della classe frequenti Charlie, o anche solo parli con lui; l’impressione in effetti è che diventi sempre più strano e isolato ogni giorno che passa. Anche se un paio di volte l’ho visto parlare con altri studenti della scuola, armato di penna e taccuino: sempre uno alla volta e mai della nostra classe – sembrava li stesse interrogando così come ha fatto con me. Che cosa diamine starà combinando? È la morte di Kallmann, su cui indaga? Per conto suo? Anche se l’agenzia investigativa Wester/Decantines ha temporaneamente chiuso, non si può fare a meno di porsi delle domande. Chi sia suo padre, per esempio. Emma ha buttato lì l’idea che dev’essere uno di quei geni squinternati che se ne stanno rinchiusi da qualche parte, e quando l’ha detto non ho potuto fare a meno di raccontarle dello zio Karsten.
In realtà Karsten Fröjd non è mio zio, ma lo zio di mia madre. Ossia il fratello di mia nonna materna. Io l’ho incontrato solo due volte, quando compì sessantacinque anni e quando ne compì settanta. Non si trattò di vere e proprie feste di compleanno, però, dal momento che zio Karsten vive in una casa per persone che sono troppo fragili per vivere nel mondo reale.
Fu mamma a descrivermi la faccenda in questi termini, la seconda volta che andammo a trovarlo. Le persone fragili. Allora io avevo undici anni e pensavo che suonasse bello. Che uno potesse avere un luogo protetto al mondo in caso di bisogno. Anche la casa dove abitava era molto bella, una grande costruzione bianca in legno che sorgeva su un crinale con vista su un lago; quello che non riuscivo a capire era perché tutte le persone che vivevano lì sembrassero così tristi e flemmatiche. Si trascinavano senza quasi sollevare i piedi da terra, parlavano lentamente o non parlavano affatto, e zio Karsten era proprio uguale agli altri. Eravamo seduti in una saletta tutta per noi, a bere caffè (nel mio caso, succo di frutta) e a mangiare la torta, e ben presto tutti, mamma, papà e i miei nonni materni erano diventati flemmatici quanto Karsten, che se ne stava accasciato in poltrona masticando la sua fetta di torta come se fosse stato il brandello di carne più tiglioso del mondo. Alla fine neppure la mamma ebbe più la forza di dire qualcosa, per cui rimanemmo lì a fissare nel vuoto, e io pensavo che forse succedeva così, a essere sensibili. Non si sopportava nemmeno più di stare in mezzo alle parole. L’unica cosa che ricordo di quella conversazione superindolente fu che la nonna disse al fratello:
«Tu sei tranquillo qui, Karsten. Sono contenta di vedere che sei così ben sistemato».
E dopo un momento lo zio Karsten rispose:
«Vorrei avvicinarmi a una donna».
Non capii che cosa significasse quella strana espressione, e chiaramente nemmeno gli altri lo capivano. In ogni caso, nessuno fu in grado di spiegarmelo quando lo chiesi durante il tragitto di ritorno in macchina.
Del sessantacinquesimo compleanno di zio Karsten non ho nessun ricordo nitido, a parte l’edificio e i luoghi circostanti. Allora avevo solo sei anni; forse mamma e io passammo la maggior parte del tempo girovagando per il parco, mi pare di ricordare che lei fosse incinta. E capisco perché Aron e August saltarono entrambi il settantesimo compleanno.
«Perché mi racconti questa cosa?» ha voluto sapere Emma.
«Perché zio Karsten da giovane era ritenuto un genio» ho risposto. «Fu il primo della famiglia a iscriversi all’università. Fu lì che andò fuori di testa, cercò perfino di annegarsi nel Fyrisån a Uppsala.»
«Niente meno» ha detto Emma. «Be’, probabilmente non è facile nemmeno essere troppo intelligenti.»
«L’acqua era alta solo un metro, per cui se la cavò.»
«Fortuna per lui.»
«Forse. Ma da allora sta lì in quella casa.»
«Per persone sensibili?»
«Sì.»
«Devono essere un bel po’ di anni ormai.»
«Più di cinquanta, credo.»
Emma è rimasta in silenzio per un momento, poi ha detto:
«È al padre di Charlie che stai pensando o a Charlie stesso?»
Ci ho riflettuto qualche istante e poi ho risposto che probabilmente stavo pensando a tutti e due.
Anche alcuni degli insegnanti sono strani. O più strani, dovrei forse dire. La settimana prima delle vacanze, Elvira Kristell, detta Frullino (è l’insegnante di economia domestica, da qui il soprannome), ha avuto una crisi di nervi. Stavamo risistemando dopo aver cucinato e consumato una zuppa di cipolle alla francese con crostoni, quando Jimmy Halldén e Danne Gustafson hanno rovesciato per sbaglio tre litri di acqua sporca sul pavimento. Sono convinta che davvero non l’abbiano fatto apposta, ma Frullino ha dato fuori di matto. Prima si è messa a urlare, poi ha rincorso Jimmy per l’aula brandendo un mestolo, dopo di che si è accasciata dietro la cattedra e ha cominciato a piangere a dirotto. Emma, io e Katarina siamo riuscite a portarla nel piccolo ufficio dietro l’aula di economia domestica, ma non ha smesso di piangere fin quando non è arrivata Ludmilla Kovacs che l’ha cinta con il braccio.
C’è qualcosa di molto speciale, in Ludmilla Kovacs. Io non sono certo una che corre dal consulente scolastico appena sta poco bene, ma penso che se dovessi finire in crisi per qualche motivo, saprei a chi rivolgermi. Forse varrebbe la pena di andare da lei anche in assenza di crisi, in effetti non le ho mai parlato per più di dieci minuti, e la cosa risale al quadrimestre autunnale in settima quando incontrava tutti gli allievi che iniziavano l’ultimo triennio. Il mio sogno della cascata e il mio nuovo papà non meriterebbero forse di essere esaminati più approfonditamente?
Quanto alla crescente bizzarria degli insegnanti, credo che dipenda dalla stanchezza. La consueta stanchezza autunnale adesso che il buio ha cominciato a stendersi sulla gran parte del giorno. Uno su cui però viene da farsi qualche domanda è Leon Berger, il nostro nuovo insegnante di svedese, quello che ha sostituito Kallmann. Sul suo corso e sulla sua fissazione per libri e scrittori famosi non c’è niente da dire, sono sia interessanti sia istruttivi, ma trovo che a volte mi guardi in modo molto singolare. Forse è solo immaginazione, e non ne ho ancora parlato con nessuno, ma mi sembra che ci sia qualcosa… quasi di sospetto, ecco. Qualcosa in lui che non è del tutto a posto. Se magari stiamo leggendo e io alzo improvvisamente lo sguardo, capita che lui volti rapido la testa e punti il suo altrove. Fuori della finestra o su qualche foglio che c’è sulla cattedra. Come se mi stesse fissando e non avesse fatto in tempo a distogliere gli occhi. Non mi sono accorta di questa cosa prima di ottobre e non credo che finora sia successa più di due o tre volte, ma non riesco a non pensarci. Comunque sia, avrò parecchie occasioni di verificare se sia solo un’impressione, abbiamo pur sempre quattro ore di svedese la settimana, e… be’, in caso contrario forse avrò un altro argomento di cui parlare con Ludmilla Kovacs.
E per finire. Il mio nome. Perché diamine dovrei continuare a chiamarmi Wester? Bernt-Olov Wester non è il mio vero padre; purtroppo il cognome della mamma è Larsson, il che non è certo la cosa più entusiasmante che si possa immaginare, ma in effetti esiste una terza alternativa.
Branagan.
Come il mio vero papà.
Andrea Branagan.
Quanto meno, chiederò a Emma che cosa ne pensa.