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Andrea
Venerdì scorso abbiamo iniziato un grosso lavoro di gruppo in scienze sociali. Si tratta dei paesi intorno al Baltico e ci terrà occupati per due mesi. Ho avuto una gran fortuna, o forse ho sottovalutato l’occhio della Birgersson per queste cose, perché è lei che ha composto i gruppi. Io lavorerò insieme a Emma, Ivan e Charlie, e il paese su cui ci concentreremo è la Finlandia. Per sei lezioni la settimana abbiamo carta bianca, non siamo neppure obbligati a rimanere all’interno della scuola; rendiconto alla fine di ottobre, in forma scritta e orale. Io sulla Finlandia non so un accidente, a parte che i finnici sciano moltissimo e bevono come dei disperati, ma con Charlie come capogruppo filerà tutto liscio. Lui di sicuro sarebbe in grado di tenere una lezione di quaranta minuti sulla Suomi già domani mattina, se qualcuno lo richiedesse, ma non è solo perché ho la possibilità di approfittare della sua cultura generale che sono felice di far parte del gruppo. Semplicemente, in questa classe non è possibile mettere insieme un quartetto migliore di noi.
Charlie è tornato su quella cosa che aveva accennato a proposito d’intervistarmi, ma solo per dire che probabilmente ci vorrà ancora qualche settimana. Prima deve «raccogliere un po’ più di materiale». Suonava così incomprensibile che non mi sono nemmeno preoccupata di chiedergli di che cosa stesse parlando.
Capire Emma invece è molto più facile. Ci siamo viste praticamente ogni giorno da quando è tornata dall’Argentina, sia a scuola sia fuori. Siamo veramente in sintonia. Non abbiamo bisogno di darci tutto il tempo conferme reciproche, di dirci quanto siamo carine e in gamba in confronto a tutte le altre, quel tipo di sciocchezze su cui Anna, Malin e Sara sembrano focalizzate in continuazione. Emma e io non abbiamo nemmeno bisogno di sparlare di loro – né di altri, se è per questo – e innegabilmente è una buona cosa. Un atteggiamento maturo, in un certo senso.
Per contro parliamo di sesso, perché in Argentina Emma è stata per la prima volta con un ragazzo. Purtroppo si trattava di un suo cugino, e non è stato neanche granché, né la prima né la seconda volta. La seconda volta per di più il preservativo si è rotto, ma senza conseguenze. Emma ha avuto solo un ritardo di una settimana e quando finalmente le sono arrivate, aveva quasi stretto un patto con Dio che sarebbe andata in convento. Pur di non avere un bambino.
È credente, Emma, ed è una cosa forte, perché ci è arrivata totalmente per conto suo. Tutti quelli della sua famiglia sono atei convinti, dice, e non ha raccontato a nessun altro che a me di considerarsi cristiana a tutti gli effetti. È la relazione fra lei e Dio quello che conta, a suo dire. Non la relazione con la mamma, il patrigno, tre fratellastri e il resto del genere umano.
Invece io non capisco questa faccenda del divino. Non ancora, ma forse ci arriverò. Per contro capisco perfettamente che occorra tracciare un confine fra se stessi e la propria famiglia. Ho raccontato a Emma del mio sogno della cascata, del fatto che in realtà non m’importerebbe poi così tanto di ritrovarmi completamente sola, e lei capisce di preciso di che cosa parlo. Legge molta poesia, Emma, e quando abbiamo parlato del mio sogno – eravamo sedute in camera sua nella villa dove vive – mi ha mostrato un paio di versi di Gunnar Ekelöf: Io credo nell’uomo solo, in chi solo cammina, e non corre come un cane che segue la sua traccia.
Così, penso. Proprio così deve essere. Soltanto fra due anime molto sole si può creare una vera comunanza.
Allora, ovviamente non sono sicura che sia del tutto vero, ma suona molto bene quando uno lo dice. O lo scrive. Credo che manderò quel verso a Calle nella mia prossima lettera. Tanto perché sappia con che genere di persona ha a che fare.
E pensandoci bene probabilmente è quel tipo di rapporto a farmi piacere così tanto questo lavoro di gruppo. Perché se tra Emma, Charlie, Ivan e me esiste un denominatore comune, è che siamo individui solitari e cocciuti.
L’altro giorno, mentre Emma e io stavamo parlando delle nostre famiglie, lei ha detto che si sente divisa esattamente a metà. Ha una mamma e tre fratellastri qui in Svezia, e un papà e due fratellastri in Argentina. I due gruppetti di fratellastri non si sono mai incontrati, e togliendo Emma non esisterebbe alcun legame fra loro.
«Renditi conto di quanto sono importante io nel mondo» ha concluso ridendo. «Le buone relazioni fra Svezia e Argentina dipendono da me.»
Ho risposto che per quanto mi riguarda appartengo alla piccola minoranza che vive con entrambi i genitori biologici. O almeno pare sia la minoranza in questo paese.
«Come fai a esserne sicura?» mi ha chiesto Emma dopo una piccola pausa.
«Eh?»
«Come fai a sapere che tuo padre è veramente tuo padre? Se posso dirlo, in effetti vi assomigliate ben poco. Quello che intendo è…»
Si è interrotta. Sembrava pentita, ma una volta che si è detto A, bisogna dire anche B.
«Allora, che cosa vorresti dire?» l’ho sollecitata.
«Be’, non importa» ha replicato Emma. «Ma guardali. I tuoi fratelli sono delle copie in miniatura di tuo padre. Capelli rossi e via dicendo. Tu assomigli parecchio a tua madre, quindi lei di sicuro è tua madre, ma… no, adesso parliamo d’altro, dai.»
Ho annuito senza dire nulla. Pensavo che effettivamente aveva dato voce a qualcosa che mi ronzava in testa da un bel po’ di tempo, una domanda confusa che un giorno – in un futuro che non dev’essere per forza molto lontano – farò alla mamma. Ormai l’ho deciso; ci sono cose che non si possono lasciare senza risposta all’infinito.
Ma per il momento avevamo chiacchierato abbastanza della mia famiglia. Così siamo passate a parlare di Charlie.
Non gli ho mai chiesto che cosa fosse realmente accaduto in maggio, e così pure Emma. Di sicuro nessuno l’ha fatto, a parte la polizia, si capisce, ma forse ci sarà occasione di affrontare l’argomento, adesso che dovremo trascorrere insieme così tanto tempo. Però non so, non vorrei invadere i confini di Charlie. Ma anche solo per il fatto che è stato lui a trovare Kallmann in quella casa, ecco, non c’è nessuno che non s’interroghi. Come ho già detto. E nel cuore della notte, per di più.
«Si rimane confusi anche solo a pensarci» ha detto Emma. «Perciò evito proprio di farlo. In questi casi è una fortuna non essere curiosi.»
«Una grande fortuna» ho concordato io.
In molti avevano visto Charlie in compagnia di Kallmann nelle settimane precedenti, soprattutto in aprile e agli inizi di maggio. Impegnati non solo a discutere a scuola durante l’intervallo, ma anche in giro per la città. Carina Flink della 9C riuscì quasi a diffondere la voce che avessero una relazione, affermando di averli visti mano nella mano nel parco pubblico una sera sul tardi, ma tutti sanno che Carina Flink sarebbe disposta ad affermare qualsiasi cosa pur di guadagnarsi amici e attenzione. Allora, per esempio, nella stessa classe Alex Ljunggren e Pontus Jonsson sono molto più attendibili; sostengono – o almeno sostenevano, in maggio quando Kallmann era morto e Charlie non era più ricomparso a scuola – di averli visti insieme sull’autobus da Ö. una domenica pomeriggio. Se è vero, doveva essere stato solo qualche giorno prima che Kallmann morisse all’interno della Casa Tedesca.
Cosa che avvenne intorno alla mezzanotte del 17 maggio, e fu Charlie a trovarlo.
E fu il nonno di Sara a vedere Charlie mentre usciva a precipizio dalla casa e a informare la polizia. Il nonno di Sara era fuori per un’ultima passeggiata con il cane, un vecchio bracco che aveva qualche problema di pancia, e molto di ciò che si sa sulla faccenda viene proprio da Sara. Né la polizia né Charlie hanno mai detto nulla, e questo naturalmente ha contribuito a far fiorire le speculazioni.
Ma sono passati quattro mesi, e non voglio ficcare il naso. Se Charlie prima o poi avrà voglia di raccontare, lo farà. L’unica cosa che finora ha detto a qualcuno è che durante il semestre primaverile lui e il professor Kallmann avevano discusso di un buon numero di vecchi libri – o forse si trattava di appunti? – che Charlie aveva trovato nella biblioteca di sua madre. Charlie, come si sa, non ha un padre, ma vive solo con la sua bizzarra madre in una vecchia villa in legno sulle rive del Morsjön. La mamma è un’artista, e intendo un’artista vera, i suoi quadri costano decine di migliaia di corone e si trovano sparsi ovunque. Espone un po’ dappertutto, a volte a Stoccolma, ma anche a Copenaghen e perfino a Londra e a Parigi, se ho ben capito.
Uno dei suoi dipinti è appeso in biblioteca qui in città, misura almeno quattro metri quadrati ed è assolutamente impossibile dire che cosa rappresenti. Ma i colori sono fantastici e mi piace davvero tanto. In altre parole, Karolina Mattis è una grande e nota artista, ma tutti sanno che è anche un po’ strana. A periodi triste e cupa, si dice che ogni tanto debba trascorrere qualche settimana in clinica psichiatrica per riprendersi. Chi si occupi della casa e di Charlie in questi casi nessuno lo sa. Forse Charlie si arrangia da solo.
E adesso vorrebbe intervistarmi. Perché? Su che cosa?
Non ho idea nemmeno di questo, e quando glielo chiedo si limita a scuotere la testa e a dire lo vedrai. Sì, Charlie è quello che è, imprevedibile. Una volta, in terza, nell’ora gestita dagli allievi, si alzò in piedi e recitò il Padre Nostro in sei lingue diverse. A memoria. Non particolarmente spassoso, forse, ma una prestazione piuttosto impressionante per un bambino di dieci anni.
Charlie Mattis in versione concentrata.
Se dovessi scrivere un paio di righe anche su Ivan, ovviamente sarebbe un concentrato di tutt’altro genere. Credo però che quei due si rispettino. Charlie può essere un sapientone della peggior specie, ma non ho mai notato che cercasse di umiliare Ivan. Forse perché Ivan non si comporta da gradasso e di conseguenza non c’è bisogno di rimetterlo al suo posto.
Ivan mi piace, e come ho già detto non sono l’unica. È facile immaginare che lui sia uno di quei tipi di cui la maggior parte delle ragazze ama occuparsi – una specie di utile oggetto a metà fra un animale domestico e un ragazzo –, ma il bello di Ivan è che lui non accetta le attenzioni di quelle mammine sbaciucchianti. Sembra poco interessato alle ragazze, forse perché è dalle medie che gli ronzano intorno a grappoli. O almeno credo, perché lui è nella nostra classe solo da un anno. Magari è gay, o sta per diventarlo, e sono abbastanza sicura che non abbia amicizie intime. Né dell’uno né dell’altro sesso.
Anche se non pare soffrirne minimamente. Ivan è arrivato in Svezia senza i suoi genitori quando aveva sette anni, e la sua attuale famiglia è una specie di famiglia adottiva. Ha cinque o sei fratelli e sorelle con i quali non ha nessun legame di parentela, ma tutti vivono ancora a casa e in una situazione così forse è anche naturale che uno voglia starsene in pace. Ho cercato di chiedergli di sua madre e suo padre e come mai fosse venuto da solo in Svezia, ma è evidente che non ne vuole parlare. C’era una zia materna a Södertälje che avrebbe dovuto occuparsi di lui quando arrivò, questo lo so, ma per qualche motivo la cosa non funzionò e così è finito quassù nel Norrland. Prima a Härnösand, poi a K. Sostiene di non avere quasi ricordi degli anni precedenti la sua venuta in Svezia. Solo che c’era la guerra e che sua madre e suo padre erano scomparsi. Come pure un suo fratello maggiore.
«Ma davvero tu hai solo quindici anni?» gli ho chiesto una volta.
«Credo di sì» ha risposto Ivan. «Ma non posso esserne certo.»
«Sembri più grande.»
«Noi che veniamo dal Sud di solito lo sembriamo. Maturiamo più in fretta e moriamo prima.»
Come me, Ivan gioca a pallacanestro. Josse Bergman, che allena sia i ragazzi sia le ragazze, dice che se solo avesse un po’ più di ambizione potrebbe andare lontano. Ma Ivan non ha ambizioni, solo talento, un sacco di talento; palleggia bene con entrambe le mani e con la massima facilità riesce a lanciare la palla dieci metri in avanti scansando due avversari. Questa è una virtù inestimabile in una guardia, e il ruolo di Ivan è proprio quello. Altro sarebbe impensabile, sostiene Josse. Ivan deve avere la palla almeno per il cinquanta per cento del tempo, allora sia lui sia la squadra funzionano al meglio.
In questo momento è domenica pomeriggio. Il nonno e la nonna sono stati qui a pranzo, e io sono in camera mia ad aspettare che arrivi Emma.
Vengono a trovarci più o meno una volta al mese, la nonna e il nonno. Sempre di domenica e sempre per pranzo. È così da cent’anni e lo sarà per altri cento ancora. O almeno finché uno dei due non se ne andrà, ma innegabilmente sembrano tutt’e due molto vispi. Vispi ma strani.
In realtà è solo il nonno a essere strano, ma in un certo senso contagia anche la nonna. Ce ne stiamo seduti in sette intorno al tavolo e buttiamo giù antipasto, piatto principale e dessert; è l’unica occasione in cui nella nostra famiglia compare l’antipasto, e normalmente non prendiamo nemmeno il dessert. Tutti devono rimanere a tavola fino alla fine e più o meno a metà del piatto principale ad Aron e August cominciano a prudere le chiappe. Si agitano come lombrichi sull’amo e giurano di essere sazi fino a scoppiare, ma non serve. Mamma dice che il pranzo non è ancora finito, e papà lancia loro un’occhiataccia. La nonna assume un’aria contrita, e il nonno guarda fuori della finestra. In genere si è sempre a corto di argomenti durante questi pranzi domenicali, il poco che c’è da dire di solito viene detto prima di mettersi a tavola, e poi perché raccontare un sacco di sciocchezze inutilmente?
Sono un po’ ingiusta verso la mamma, lo ammetto. Lei cerca di tenere viva la conversazione, chiede alla nonna come va la sua schiena e al nonno se il podere e il tosaerba stanno bene. E giusto oggi ha detto una cosa sulla quale mi sono interrogata. Tutte queste chiacchiere, ha detto. A che cosa servono se comunque non si arriva al nocciolo?
Il nocciolo? Non so a che cosa si riferisse. Probabilmente era un commento a qualcosa che qualcun altro aveva detto subito prima, ma che non riesco a ricordare. Del resto nessuno ci ha dato peso, all’inizio ho pensato di chiederle una spiegazione, ma poi ho capito che non voleva spiegare che cosa intendesse dire. Mi ha lanciato una di quelle rapide occhiate che significano grossomodo che noi due ci capiamo e che dovevo tacere. Nonostante tutto riusciamo ad avere quel genere di rapporto a volte, non molto spesso ma qualche volta sì, e quando serve lo si può riportare alla luce. Se dovessi scegliere uno della famiglia da salvare su quella famosa zattera, sceglierei senza dubbio la mamma.
E le sue parole sul nocciolo a cui non si arriva mai continuano a risuonarmi in testa. Sono decisa a venirne a capo prima o poi, in un’occasione migliore. Perché se lo metto insieme a quello che ha detto Emma riguardo a mio padre e ai miei fratelli, ecco che ne risulta… già, che cosa? Un’equazione di secondo grado, direbbe Igor Masslind. Un’equazione con due incognite.
In ogni caso credo che sia quello, che s’intende. Anche se la matematica non è mai stata il mio forte. E c’è da chiedersi perché mi venga in mente proprio quel pezzo di legno di Igor. Probabilmente sto diventando anch’io un po’ stramba.
Il successore di Kallmann si chiama Leon Berger. Sua moglie e sua figlia morirono in un naufragio al largo delle coste orientali dell’Africa circa otto mesi fa. Lui si è trasferito qui da Stoccolma per ricominciare in qualche modo la sua vita; ce ne ha parlato brevemente la prima volta che l’abbiamo incontrato. Mentre lo diceva faceva una strana impressione, ma a posteriori trovo che sia stato forte. Su certe cose bisogna essere aperti, ma per il momento abbiamo avuto soltanto tre lezioni di svedese, per cui non so di preciso che cosa penso di lui. Come al solito, ho bisogno di un po’ di tempo per giudicare le persone. A volte mi convinco che sia una caratteristica positiva, bisogna offrire alla gente una solida possibilità prima di giudicarla. O di esaltarla.
Berger naturalmente non è come Kallmann, ma nemmeno lo si può pretendere. Comunque non ci ha chiesto di scrivere una pagina per presentarci, come fa sempre ogni nuovo insegnante di ogni singola materia, una delle cose più noiose al mondo. Credo che lo facciano soltanto per saltare una lezione, non riceviamo mai un riscontro a quello che scriviamo, e quattro volte su cinque quel foglio non ci viene più restituito. Invece Berger ci ha chiesto di esprimere dei commenti – solo a voce, non per iscritto – su quanto dovremmo fare durante l’anno nella sua materia, a cui poi è seguita una discussione abbastanza sensata che è sfociata nella proposta di dedicarci alla lettura di testi. Principalmente, in ogni caso; testi famosi di scrittori famosi. Due settimane obbligatorie di grammatica a gennaio e una verifica obbligatoria nello stesso mese.
E poi scrivere, ovvio. Un bel componimento corposo per semestre, ecco, questo è tutto riguardo alla mia materia preferita. Cominceremo la prossima settimana con Omero, Iliade e Odissea; in effetti non vedo l’ora.
C’è un’ombra di dolore in Berger, è naturale; non so se sia una cosa perversa, ma mi piace. Se c’è una cosa che faccio fatica a sopportare, sono le persone sempre allegre e vivaci. Diventano particolarmente insopportabili se succede che stiano in cattedra.
Ma non significa che io sia una di quelle persone depresse vestite sempre di nero, questo ci tengo a sottolinearlo. Forse nel profondo ho anche un lato politico, in ogni caso detesto tutti i neonazisti, sono talmente idioti che per disegnare una croce uncinata devono seguire un corso. E odio Nuova Democrazia. Stupidi idioti egoisti, penso, e il peggio è che sospetto che mio padre abbia votato per loro, anche l’anno scorso, quando sono usciti dal parlamento facendo un gran chiasso. Non lo ammetterebbe mai neanche morto; se una persona soltanto dovesse morire in quel volo dalla cascata, senza dubbio sarebbe lui.
Adesso leggerò un paio di pagine dallo Straniero di Albert Camus mentre aspetto Emma. Devo riconoscere che non capisco proprio tutto, ma una cosa sì: che è un libro maledettamente bello.