Postfazione
di Mario Barenghi
La morte in banca è il primo libro di Pontiggia. Fu pubblicato nel 1959 nei Quaderni di una delle più importanti riviste letterarie del secondo Novecento, Il Verri di Luciano Anceschi. La prima stesura del romanzo breve, o meglio del racconto lungo che dà il titolo al volume, risale però al 1952-53, quando l’autore non aveva nemmeno vent’anni. Il tema – l’inserimento di un giovane nell’ambiente bancario – è autobiografico: Pontiggia ha infatti lavorato dal ’51 al ’61 al Credito Italiano, dove si era impiegato diciassettenne – come il suo protagonista – per far fronte alle necessità economiche. Nondimeno, all’autobiografismo dev’essere attribuita in questo caso un’importanza secondaria. Tutti gli scrittori, di necessità, si servono di materiali che desumono dalla propria esperienza vissuta: così come (fatte salve eccezioni ovvie, e destinate a confermare la norma) si esprimono nella lingua del posto dove è capitato loro di nascere. La fedeltà dei contenuti narrativi ai trascorsi personali di chi scrive non basta insomma a rendere autobiografico un racconto: occorre che essi vengano utilizzati in maniera tale da conservare un rapporto esplicativo (e non semplicemente genetico) con la vita. L’autobiografismo di un testo dipende dal suo orientamento, più che dagli argomenti che tratta, cioè dall’inclinazione dell’autore – dalla disponibilità, dall’esigenza, talvolta dalla coazione – a perseguire nel proprio rovello creativo, in maniera più o meno esclusiva e consapevole, una verità intima, segreta, annidata nel cuore della sua esperienza vitale, e accessibile (o concepibile) solo attraverso uno sforzo di elaborazione formale dei dati empirici. In questo senso Pontiggia non è, fatta salva la recente e per più riguardi eccezionale prova di Nati due volte, uno scrittore autobiografico: neanche quando, giovanissimo, eppure per certi versi sorprendentemente maturo, esordisce con un racconto ispirato alla condizione umana e lavorativa di cui aveva quotidiana esperienza.
Del resto, la figura dell’impiegato vanta una tradizione letteraria quanto mai insigne. Dal grande romanzo naturalista in poi (ma volendo si potrebbe risalire fino alla prima metà dell’Ottocento) l’impiegato rappresenta un’immagine di umanità mediocre e dimessa, ora ripiegata nella ricerca d’una malsicura, privatissima felicità, ora intenta a vagheggiare sogni tanto magnifici quanto irrealizzabili, e sempre votata a un grigio destino di precarietà e sottomissione, che la tenace aspirazione al decoro non fa che rendere vieppiù avvilente. Per la nostra cultura, in particolare, ha assunto valore antonomastico la figura di monsù Travet, protagonista di una commedia di Vittorio Bersezio fortunatissima tanto nella versione italiana quanto nell’originale piemontese (Le miserie d’monsù Travet, 1863). Se si escludono le remote origini della forma simbolica dell’impiegato (certe figurine di contorno, spesso assai ben riuscite, dei romanzi di Balzac e Dickens; certe memorabili invenzioni grottesche di Gogol’, come il protagonista del Cappotto), possiamo riconoscere, nella narrativa otto-novecentesca, due principali fasi di sviluppo del personaggio. In un primo momento la condizione di dipendenza appare, sostanzialmente, un dato di fatto, cioè la conseguenza di un assetto sociale e di un’organizzazione del lavoro che destinano la maggior parte degli individui all’obbediente esecuzione dei voleri altrui. Sebbene un rilievo non piccolo venga dato alle ripercussioni soggettive (le ambizioni frustrate, le speranze deluse, gli affetti e i valori mortificati o stravolti), l’accento cade sui caratteri oggettivi della realtà: la quale, prosaica, iniqua o inumana, rimane comunque al di sotto delle aspettative, fondate o infondate che siano. In una seconda fase (ma la successione, come vedremo, non va intesa in senso rigidamente cronologico) lo stato di subalternità viene, per dir così, introiettato, fino a divenire un tratto congenito. Non è più il ruolo sociale a imprimere sul personaggio il proprio marchio, fiaccandone gli slanci, soffocandone la natura, occultandone le virtù: ora l’elemento decisivo è dato da una menomazione emotiva o psicologica originaria, che si esterna, semplicemente, nella veste pubblica più acconcia. La condizione di impiegato, in altre parole, non costituisce la premessa degli eventi che colpiscono il personaggio, bensì l’espressione visibile di ciò che egli è nell’intimo. Un “vinto”, se si vuol riprendere la nota categoria verghiana; meglio, un arreso in partenza, un complice della propria vocazione alla sconfitta: ovvero, come ha scritto Giacomo Debenedetti, un “salariato della vita”. Avviene così una sorta di paradossale capovolgimento delle responsabilità. Quello che appariva un torto subìto si configura adesso come una colpa scontata: l’effetto di un’ingiustizia diventa il segno di un’espiazione.
Per chiarire la distinzione fra questi due momenti (che naturalmente rinvia alla controversa frontiera tra naturalismo, o realismo tardo-ottocentesco, e letteratura decadente) gioverà un rapido confronto fra due opere quasi coeve, eppure per molti riguardi diversissime. Mi riferisco al primo romanzo di Svevo, Una vita, e al Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi. L’ambiente è in entrambi i casi quello della piccola borghesia impiegatizia di recente inurbazione. Alfonso Nitti, che proviene da un paesino di campagna, lavora a Trieste alla banca Maller; Demetrio e Cesarino Pianelli hanno trovato impiego a Milano, rispettivamente all’ufficio del Bollo e alle Poste, dopo la rovina del padre fittavolo. In entrambi i casi l’impatto con il mondo cittadino si risolve in un insuccesso. Dopo il suicidio di Cesarino, Demetrio, cui tocca di por rimedio alle sventatezze del fratellastro, riesce a salvare l’onore della famiglia, ma finirà per perdere il posto: il romanzo termina con la sua partenza per una remota destinazione di provincia. Anche Alfonso si uccide: l’ultima pagina del libro (crudo pendant con la prima, un’affettuosa lettera del protagonista alla madre) è un’impersonale comunicazione della banca Maller a un notaio circa le disposizioni testamentarie del defunto.
Qui le analogie s’interrompono. Il fallito inserimento dell’eroe nella moderna società urbana assume nei due romanzi un significato pressoché opposto. Demetrio è un onest’uomo tribolato e vilipeso: il gesto che gli costa l’esilio (e in cui si rivela un impossibile, rassegnato amore per la bella cognata) va tutto a suo onore, e sancisce, di contro, la miseria morale che alligna nella metropoli. Ai disvalori imperanti egli ha opposto dapprima la sua generosa abnegazione, quindi un’indignata, sacrosanta collera. La persecuzione cui va incontro reca le stigmate del sacrificio, che ribalta, cristianamente, l’umiliazione mondana in esaltazione spirituale. Difficile quindi immaginare per il solitario e scontroso travet dell’ufficio del Bollo un riscatto più completo. La partenza finale, pur dolorosa, non sarà per nulla un equivalente della morte; al contrario: su di essa aleggia la nuova, luminosa coscienza che solo chi sia stato capace di amore puro e disinteressato ha vissuto davvero. La morte di Alfonso ha invece il carattere di un’estrema, irrimediabile dissipazione. Di lui, nulla resterà; non a caso in precedenza egli aveva ritenuto di recidere anche i residui legami con il paese d’origine, dopo esservisi trattenuto quanto bastava per compromettere la sua relazione triestina con Annetta. Il suo fallimento non deriva dall’incapacità o dal rifiuto di adattarsi a una realtà deludente, bensì dalla sua cronica indecisione se farlo o no, cioè dalla sproporzione fra desiderio e volontà, dall’inclinazione a ingigantire i dettagli perdendo di vista l’essenziale, dalla tendenza a coltivare fantasticherie, inventandosi alibi o corteggiando l’altrove: in una parola, dalla sua inettitudine a vivere. La condizione di impiegato simboleggia allora non solo uno stato di scialba e desolante mediocrità, ma anche un insuperabile impaccio esistenziale, in cui la velleità di rivalsa si mescola con un’oscura attrazione per la sconfitta.
Demetrio Pianelli esce nel 1890; Una vita nel ’92, appena due anni più tardi. Eppure fra i due romanzi sembra corra un abisso. Il primo è ancora un libro dell’Ottocento; il secondo appartiene già a pieno titolo all’arte novecentesca, intenta a scandagliare le nevrosi dell’uomo contemporaneo. Vero è che nel ’93 verrà pubblicato un libro di ambiente impiegatizio che per certi versi sarebbe potuto essere coevo di Monsù Travet, e che sarà destinato a riscuotere, non solo in Francia, un successo altrettanto strepitoso, ivi incluso il passaggio in proverbio del titolo (questa volta un nomignolo derivato dal cuscino delle seggiole degli uffici): Messieurs les ronds-de-cuir di Georges Courteline. Ma ovviamente la produzione letteraria non segue un unico tragitto, e del resto l’evoluzione storica è questione di prospettiva, oltre che di cronologia; né questa è la sede appropriata per una dettagliata ricostruzione della carriera del travet nell’immaginario narrativo del nostro secolo. Di tale carriera, tuttavia, che in Italia comprende, accanto ai romanzi di Svevo, opere di notevole interesse, come i Ricordi di un impiegato di Federigo Tozzi o le Risultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi di Piero Jahier (mentre un discorso almeno in parte diverso richiederebbero nel secondo dopoguerra sia la “letteratura industriale” di Volponi e Ottieri, sia La nuvola di smog di Calvino), di tale carriera, dicevo, converrà ricordare almeno il vertice. Nella Metamorfosi (Die Verwandlung, 1916), il più celebre racconto di Kafka, lo squallore di un’esistenza tarpata erompe nell’inopinata mutazione del protagonista in insetto. Gregor Samsa non sperimenta le iniquità di un sistema sociale, bensì esemplifica la compiuta interiorizzazione dell’essere subalterno: a rivelarsi nel suo singolare destino è l’abnormità mostruosa di una “normalità” degradata fino all’abiezione, e assimilata fino a diventare una seconda, più verace natura. Il dramma tende a restringersi in una dimensione privata, dove lo scontro latente con l’ordinamento della società si traduce nei sintomi di un conflitto (tanto più intenso, quanto meno esplicito) con la figura paterna. L’ambiente lavorativo viene respinto sullo sfondo: tutta la vicenda, nitida e inquietante come un incubo notturno, si svolge entro le quattro mura domestiche, dalla scoperta della “metamorfosi” fino alla morte di Gregor, destinata a sopraggiungere non appena i familiari riconosceranno di desiderarla. Una parabola asciutta e crudele, che nella sua enigmatica perspicuità inscena (sono ancora parole di Debenedetti) l’espiazione dell’oscuro torto di essere al mondo.
È a questo filone narrativo, senza dubbio fra i più prestigiosi della tradizione otto-novecentesca, che Pontiggia si ricollega. La sua scelta è duplice. Sul piano tematico riprende la figura topica del travet, naturalmente spogliata dalla bonaria impronta comico-patetica dell’originale, e riletta nella chiave analitica, psicologico-esistenziale, dell’“inetto” sveviano (ai romanzi di Svevo dedicherà poi un importante saggio, pubblicato dal Verri nell’ottobre 1960). Sul piano espressivo, egli si colloca a un livello di letterarietà forbita: non elitaria o schifiltosa, ma sicuramente colta, e destinata in prima istanza a un pubblico in grado di apprezzare non solo l’avvertita, consapevole rielaborazione di modelli prestigiosi, ma soprattutto una misura stilistica di riconosciuta autorevolezza. A questa predilezione, diciamolo subito, per una letteratura di tipo “istituzionale” (educata, meditata, fondata su un’attenta cernita dei riferimenti culturali e su un’estrema sorvegliatezza dei mezzi espressivi), Pontiggia si manterrà sostanzialmente fedele anche in seguito. Lo scarto più vistoso avverrà nella direzione della sperimentazione neoavanguardistica, con L’arte della fuga, del 1968; i libri successivi dal Giocatore invisibile (1978) al Raggio d’ombra (1983), dalla Grande sera (1989) a Vite di uomini non illustri (1993), saranno contrassegnati dal recupero di una narratività dapprima distesa e affabile, quindi sempre più rastremata e concisa, fino alla perfezione cameristica di Nati due volte (2000).
Ma procediamo con ordine. Il protagonista della Morte in banca è un giovane, poco più che adolescente, designato sempre e solo come Carabba. L’abolizione del nome di battesimo, oltre a conferire al cognome un insolito rilievo (e fors’anche a evocare, all’orecchio dei kafkiani più accaniti, il nome di un coleottero), ha il valore di una riserva preventiva, di una pregiudiziale presa di distanza. È questa la spia di una certa qual freddezza del narratore nei riguardi del personaggio, che rappresenta bensì il “fuoco” della narrazione – condotta dal suo esclusivo punto di vista – ma con il quale il lettore non è sollecitato a identificarsi. Peraltro, non sarebbe improprio ravvisare nel semianonimato dell’eroe anche una sorta di censura emotiva: ad onta della giovane età, Carabba appare infatti sorprendentemente immune da turbamenti sensuali o da slanci affettivi. Nessuna meraviglia invece, visti i presupposti, che le figure di contorno vengano chiamate con nomi comuni, spesso coincidenti con una carica: il capufficio, il funzionario, il Segretario, il Capo del Personale. Tale procedimento, volto a sottolineare ora la costrizione degli individui entro ruoli socialmente precostituiti, ora l’incapacità o il rifiuto di perseguire una propria verità esistenziale, avrà largo seguito nella narrativa di Pontiggia: per esempio il protagonista del Giocatore invisibile sarà semplicemente il Professore, mentre La grande sera racconterà l’inutile ricerca di un personaggio senza nome. Nella Morte in banca è poi lo stesso Carabba, nei suoi discorsi con la madre, a ridurre i colleghi d’ufficio a “tipi” (quello che si lamenta, quello che è malvisto, quello che lavora troppo), salvo rendersi conto che non corrispondono alla realtà.
La vicenda, povera di eventi esteriori, è tutta giocata sull’evoluzione degli stati d’animo del protagonista. Carabba, assunto in banca dopo aver precocemente conseguito la maturità classica, ha verso il suo nuovo stato un atteggiamento ambiguo. Da un lato, poiché si tratta di una vita assai lontana dalle sue aspirazioni, rifiuta di identificarsi con il ruolo di impiegato, tanto più che viene adibito a mansioni ripetitive e del tutto prive di interesse. Dall’altro, poiché anche i lavori più noiosi e meccanici richiedono un minimo di abilità, egli soffre le ansie e gli impacci del novellino. Facile a distrarsi, confusionario per natura e soprattutto conscio della propria goffaggine, finisce per sentirsi umiliato dall’altrui destrezza, non meno che dai propri errori. È naturale quindi che ogni piccolo progresso, a compenso dell’apprensione iniziale, sia accompagnato da un senso di sollievo. Dopo le prime settimane di apprendistato, quando le cose cominciano a migliorare, Carabba si sentirà addirittura euforico. Non che si sia rassegnato alla condizione di travet: al contrario. Fin dal principio aveva accarezzato l’idea di conciliare il lavoro d’ufficio con prospettive diverse, e in particolare con la prosecuzione degli studi; a un certo punto aveva anche preso l’abitudine (già dell’Alfonso Nitti di Una vita) di recarsi la sera in biblioteca, godendosi, dopo il frastuono della banca, l’ovattata quiete della sala di lettura. Ora, superata qualche esitazione, decide di iscriversi alla facoltà di lingue, che ai fini della carriera gli sembra più adatta di lettere. L’università sembra avverare la prospettiva di “doppia vita”, vagheggiata a compenso del grigiore dell’ufficio. Con molta fatica riesce a preparare un esame, d’una materia letteraria che al liceo gli era stata particolarmente congeniale; ma, alla prova dei fatti, non va oltre il minimo dei voti.
La delusione è cocente. Stordito ed esausto, Carabba vede adesso la propria situazione con occhio diverso. Egli non è, non potrà mai essere uno studente come gli altri: «lui lavorava in una banca e passava qui tutta la sua giornata. E questa esperienza contava, perché era lui a viverla, perché era la sua esperienza. Era inutile fingere di ignorarla, chiamarla pratica, transitoria» (p. 62). Altro che doppia vita. La sua vita è una: condizionata, segnata da un ruolo, da cui è velleità futile pretendere di estraniarsi. Con il crollo delle confuse aspirazioni del protagonista la vicenda volge alla conclusione; manca però ancora un ultimo, decisivo passo. Il fallimento al quale Carabba va incontro riguarda la prima (e unica) vita, non l’ipotetica seconda. La “morte in banca” non consiste semplicemente nella sottomissione a un ambiente sgradevole, a una disciplina di lavoro spersonalizzata – ciò a cui alludono i colleghi, esclamando «Che tomba, la banca!» (p. 16), ovvero ribattezzandola galera o Caienna (p. 28). La «morte» – in banca, come altrove – sta nell’adeguarsi così pienamente al meschino grigiore di una condizione, da farne il proprio unico, esclusivo orizzonte; e perdere così, insieme alla capacità di concepire prospettive diverse, la coscienza medesima del proprio stato.
Incontrava a volte l’amico bancario e, facendolo parlare, ritrovava in lui la propria crisi, le stesse speranze deluse. Eppure non poteva accettare le conclusioni dell’altro. Certo, questo era strano: si irritava ancora, ad ascoltarle. Non poteva accettare che proprio la crisi, che gli aveva aperto gli occhi, gli imponesse una nuova finzione, impedendogli di vedere oltre. Che il fallimento fosse mentale. Ne provò una stretta d’angoscia. Ecco, era quella la morte: la morte in banca. Che era poi una delle infinite morti nella vita (p. 65).
In altre parole, una volta appurato che l’esistente mortifica la personalità, trincerarsi in uno scetticismo radicale, in un cinismo di comodo, significa rinunciare definitivamente a ogni possibile verità individuale. Se dietro la maschera dell’impiegato non resta più nulla, sarà giocoforza, in una maniera o nell’altra, tornare a identificarsi con quella maschera. Così il cerchio minaccia di chiudersi. Man mano che il tempo passa, Carabba si riprende. Alla crisi trascorsa pensa sempre meno; come già gli era accaduto in passato, guardarsi dall’esterno gli dà solo fastidio. La sua situazione in ufficio è migliorata; le opinioni dei colleghi non lo turbano più di tanto; le ferie sono ormai prossime. Dunque, l’inserimento nella banca è riuscito, ma anziché dell’inizio di una vita, potrebbe trattarsi della sanzione di un decesso. Nel sospeso, ellittico finale una prospettiva di riscatto è affidata all’immagine della città illuminata, simile a una scacchiera, dove forse si presenteranno nuove partite. Tuttavia nei successivi libri di Pontiggia – in cui i “fratelli carnali” si conteranno numerosi, sia fra i protagonisti (il già citato Professore, il dottor Mariano del Raggio d’ombra, il clerc dell’Arte della fuga) sia fra i comprimari – prevarrà un’insinuante pulsione mortuaria, e la metafora degli scacchi gioverà a designare meno l’abilità del personaggio – del giocatore “visibile” – che la sudditanza verso un sistema di regole inesorabilmente predeterminato. Non a caso le varie vicende prenderanno invece le mosse dall’emergenza dell’energia vitale, in precedenza ignorata o repressa, nella forma stravolta di un evento anomalo, imprevisto, perturbante: la calunnia, il delitto, il tradimento, la sparizione. In questa luce, La morte in banca può apparire come una sorta di preludio, che, bruciando l’epoca giovanile della fiducia e delle attese, lascia il campo alla “senilità” di personaggi non solo più anziani all’anagrafe, ma assuefatti da tempo a pascersi di sterili scorze di vita, e incalliti nell’autoinganno: chi più consapevole, chi meno, ma tutti egualmente complici dell’esistente, e tutti egualmente infelici.
Nella categoria dei “salariati della vita”, Carabba si distingue per una mediocrità particolarmente desolante. A dispetto dei sogni di carriera, peraltro vaghissimi, egli sembra infatti incapace di porsi dei veri traguardi. Il suo fantasticare è misero: egli non mira a elaborare un originale sistema filosofico, come l’Alfonso di Una vita, né ricerca un compenso alle frustrazioni quotidiane inseguendo amori più o meno ideali; tutto quello che riesce a desiderare è andare all’università. Il che poi significa, in buona sostanza, regredire alla dimensione familiare e rassicurante della scuola: «A scuola si era sentito nel suo vero ambiente, nell’unico ambiente che faceva per lui» (p. 35). Nella sua immaturità scialba e rinunciataria, il semianonimo eroe della Morte in banca ricorda certi personaggi di Tozzi, dei quali tuttavia non condivide il torbido nucleo sentimentale, l’aggressività vulnerata disposta a ribaltarsi in sordo, impotente rancore. Il grigio di Carabba è cenere spenta, e già quasi fredda. Del resto, il suo mondo ha ormai perso ogni legame con realtà naturali feconde e mobili, come la campagna o il mare: lo scenario che indoviniamo sul fondale è fatto di asfalto, plastica, linoleum. E le figure umane che attorniano il protagonista sono, se possibile, ancor più esangui di lui.
Tutto ciò corrisponde, beninteso, a una precisa e consapevole strategia compositiva. Recuperando una serie di temi e caratteri di importanza cruciale nella letteratura contemporanea – la perdita delle illusioni giovanili, la scomparsa d’ogni immagine di autorità paterna, l’ingresso nell’età adulta come rinuncia all’autenticità personale, la sottomissione avvilita del travet – Pontiggia applica una serie di procedimenti selettivi e restrittivi, da cui gli apporti della tradizione escono scarnificati, ridotti all’osso. Il risultato è una narratività essenziale, rasciugata, quasi ossessivamente sobria, che sarà anche in seguito la cifra distintiva della sua opera. Un’opera che (fatte salve le differenze anche assai notevoli da libro a libro) appare nel complesso intesa a temperare novità e consuetudine, sperimentazione e leggibilità, con una consapevolezza autocritica quanto mai solerte, che ha persino qualcosa di manieristico; ma si tratta di un manierismo, per dir così, atticista, che punta alla stringatezza, alla concisione, a una linearità quasi geometrica di affabulazione e di eloquio. La mancanza di abbandono e di impeto creativo si risolve così in un’esemplare lezione di senso della misura: il che poi equivale a dire di buon gusto. In questo senso Pontiggia è forse il più “classico” fra gli scrittori italiani dei nostri anni.
La morte in banca, come si diceva, obbedisce a una norma generale di riduzione e di alleggerimento delle strutture narrative: l’autore procede “per forza di levare”, a ogni livello di organizzazione del testo. La vicenda è narrata in una sequenza di paragrafi brevi, ciascuno dedicato a un episodio, a una riflessione, a un incontro. La fitta scansione, associata alla semplicità della sintassi e alla frequenza degli a capo, crea una diffusa impressione di silenzio, che non riflette tanto una realtà fisica (in banca c’è anzi spesso un gran rumore), quanto l’interiore reticenza del protagonista. Carabba infatti è bensì ripiegato su se stesso, intento a salvaguardare la propria personale visione delle cose dalle opinioni altrui (nonché dall’evidenza della realtà), ma rilutta a scrutare con schiettezza il proprio animo. La sua introspezione è capziosa e intermittente, e la stessa “epifania” conclusiva, cioè la scoperta del proprio vero stato, ha il carattere di un’illuminazione esterna, che lo coglie alla sprovvista. Gli altri personaggi, come già si accennava, non hanno spessore. Il più importante è la madre, che riceve (e sollecita) confidenze di attendibilità dubbia, regolarmente alternate per tutta la prima parte del racconto alle scene d’ufficio. Fra le righe s’intuisce un rapporto di travagliata simbiosi, di reciproca frustrante dipendenza; ma le radici della labilità emotiva e caratteriale del protagonista rimangono occultate. All’introversione del protagonista corrisponde un’ambientazione quasi tutta di interni: la banca, con i suoi vari locali, più o meno angusti e tetri, la casa (tre stanze, all’ultimo piano di «un immenso, grigio alveare di periferia», p. 9), la biblioteca, un’aula scolastica, il tram. Gli esterni sono rari, e gravati dall’ipoteca di attigue chiusure: una sosta alla fermata dell’autobus, un tramonto contemplato dalla finestra dell’ufficio. Ne sortisce un senso di forte delimitazione spaziale, prodotto tanto da circostanze esteriori, quanto da inclinazioni soggettive; come dimostra il fatto che lo sguardo osa spingersi fino all’orizzonte solo quando è protetto da un vetro.
Un altro dato notevole è la mancanza di una figura antagonistica. Se si eccettua l’isolata scena che lo vede impacciato istruttore di un apprendista un po’ più sveglio di lui, Carabba non ha rivali (sì, se mai, compagni di prigionia). Benché le insinuazioni dei colleghi lo infastidiscano, verso gli altri egli non prova né ostilità, né vera invidia. Desidera un’esistenza diversa, ma non la vede incarnata in alcun modello, né riesce a figurarsela. Orfano di padre, è immune da rimproveri, rimpianti, sensi di colpa o di inadeguatezza. La realtà in cui si trova immerso appare uniformemente squallida; se le figure umane che la popolano possono essere considerate vittime, degli oppressori non c’è traccia alcuna. A soggiogare i travet, in banca o altrove, è un meccanismo assolutamente impersonale, che ha la fatalità ineluttabile degli eventi naturali: e che di conseguenza esalta la congenita meschinità del protagonista, accentuandone l’isolamento esistenziale.
Ma naturalmente è allo stile, più che ad ogni altro elemento del testo, che viene affidata la ricerca dell’essenzialità. La scrittura di Pontiggia appare già in questa prova d’esordio estremamente efficace: asciutta, nitida, lineare, a volte spigolosa, e sempre consona allo spirito – alla costellazione – del protagonista. All’ottica del quale il racconto si attiene rigorosamente, ma in maniera tale da cogliere, oltre la sua volontà (ancorché attraverso la sua percezione), l’affiorare della coscienza che si imporrà soltanto, e in via ambigua o provvisoria, verso la fine.
«In ogni caso» riprese Carabba, stringendosi nelle spalle «non è che io conti sulla banca, viva soltanto della banca.»
Cominciò allora a spiegargli della doppia vita, del tempo libero, dopo le sei, quando uno, se vuole, torna come prima eccetera eccetera.
Irritato dai sorrisi di lui, trovò che l’ambiente poteva anche riuscire divertente, con i suoi personaggi tipici e le immancabili scenette, sempre che uno non ne faccia il centro della propria esistenza.
Erano fermi nella piazza.
Il discorso si esaurì progressivamente.
Tacevano da poco, sbucò dalla nebbia un tram, che Carabba si affrettò a prendere.
L’amico lo salutò allegro (p. 43).
Così procede Pontiggia: per allusioni, sospensioni, condensazioni, silenzi, senza mai concedersi enfasi, se non (eventualmente) nell’uso della pausa, secondo il costume degli aforisti – e infatti i saggi e pensieri raccolti nel Giardino delle Esperidi (1984), nell’Isola volante (1996), in Prima persona (2002) inclineranno volentieri alla sinteticità lapidaria dell’aforisma. Ma l’aspetto più peculiare della Morte in banca, dal punto di vista espressivo, è senza dubbio il largo ricorso a locuzioni e termini tecnici, che trasmettono meglio di ogni avverbio o attributo il senso di una routine prosaica, priva d’interesse, tollerata a fatica, eppure capace di insinuare nell’animo dei personaggi, assieme al proprio linguaggio, una contagiosa sottomissione alle cose. Non a caso Carabba – che già abbiamo visto timbrare cambiali con il numeratore, battere importi e spuntare effetti al Portafoglio Incasso – viene sorpreso dall’inattesa coscienza di sé mentre lavora all’addizionatrice della Statistica. Anzi, mentre inganna la noia cercando di prevedere quante volte sarebbe apparso il numero 21. Un passatempo che, nella sua oppiacea meccanicità, contiene tutta la morale della storia: l’adattamento come sprofondamento nel torpore, come tensione e assuefazione a uno stato vegetativo. La morte, in banca.
Completano il libro sedici racconti, suddivisi in tre serie. La prima risale al ’59; la seconda venne aggiunta nell’edizione mondadoriana del ’79; la terza comprende cinque testi, raccolti ora per la prima volta in volume. Al di là dell’opportunità editoriale (peraltro ineccepibile) di tenere unite le narrazioni brevi, tale progressiva espansione del testo d’esordio ne conferma il carattere seminale e germinativo. Se non stupisce che nei racconti più antichi il tema della condizione impiegatizia torni a più riprese, quasi delineando possibili varianti o integrazioni della Morte in banca, è invece assai notevole che Pontiggia abbia sentito a distanza di oltre vent’anni il bisogno di rifarsi nuovamente a quell’esperienza giovanile con un racconto che non solo per rispetto della cronologia è posto a conclusione del volume. Nella Storia di un verbalista (1985) l’affrancamento dalla mortificante burocrazia bancaria finalmente si avvera: ma nella forma di una “doppia vita” che, anziché contestare, reduplica (e perciò irrobustisce), la generale sottomissione a un sistema di poteri occulti e soverchianti. L’impiegato Barbi, che s’inventa le informazioni riservate sui clienti e in segreto collabora con un’agenzia, non ha insomma nulla a che vedere con il ragioniere modello della Notte dei numeri di Calvino, al cui svarione contabile veniva attribuito il valore di un gesto di ribellione, di un simbolico sabotaggio; la segreta fronda del verbalista non è che una forma più elaborata e corriva di adattamento all’esistente.
Per il resto, ovunque circola in questi racconti la medesima atmosfera di inaridito straniamento: i personaggi non si riconoscono in ciò che fanno, stanchezza e conformismo imperano, i rapporti umani sono improntati a diffidenza, incomprensione, disamore. Solo nei testi più recenti, raccolti nella terza e quarta parte, emerge invece con chiarezza la vena umoristica, che è uno degli aspetti salienti del più maturo Pontiggia romanziere. Il pessimismo non si attenua; si fa anzi, se possibile, più sconsolato. Ad arricchire la rappresentazione, a conferirle mordente e varietà, interviene però una vivace ironia, spesso sinceramente divertita, ma non perciò meno acre. È in questa direzione, cioè nell’intreccio fra la tematica esistenziale originaria e la satira, che Pontiggia ha compiuto le sue prove più convincenti, trovando, nello stesso tempo, il suo timbro narrativo più originale. Penso per esempio al Raggio d’ombra, a certi capitoli della Grande sera, a tante delle Vite di uomini non illustri; e si veda anche, in questa stessa raccolta, l’annoiato Lettore di casa editrice che s’imbatte per sbaglio, senza riconoscerlo, nel dattiloscritto di Delitto e castigo. Ma forse la figura che meglio s’imprime nella memoria è quella del poeta del Gioco della verità, il quale, disilluso e decrepito, coglie un estremo segno di vita nell’immagine e nel nome dei gabbiani che volteggiano sopra le acque del porto. Il “marasma senile” di cui egli avverte l’insidia non è infine tanto nello sfaldamento della sua memoria – che sta lentamente perdendo, a una a una, il senso delle parole – quanto in un insulso uso sociale del linguaggio, che svuota di significato ogni contatto con il mondo circostante. I silenzi di Carabba si sublimano così nell’afasia del vecchio poeta, arreso all’impossibilità di comunicare con gli altri: ultimo paradigma di saggezza in un mondo che ha smarrito – e senza avvedersene, per gioco, come in una farsa tragica – ogni confine tra verità e menzogna.