Sei

Quella parentesi scolastica non si chiuse senza conseguenze. Al lunedì Carabba, trovandosi a disagio per il lavoro e ripetendo per di più spiacevoli distrazioni, che gli attirarono anche i rimbrotti del caporeparto, decise che quella non era affatto la sua vita. E anzi, non capiva come avesse potuto, la settimana prima, pensare a una qualsiasi conciliazione. Forse perché gli mancavano le ultime esperienze.

Lui si era impiegato per necessità pratica.

Ma questo non significava niente.

Poteva avere benissimo un’altra vita, studiare nelle ore libere, leggere, scrivere. A scuola si era sentito nel suo vero ambiente, nell’unico ambiente che faceva per lui, il professore e gli amici lo trattavano come prima. E perché non doveva essere così? Perché aveva esitato, il sabato, a tornare a scuola?

“Idiota” pensò in fretta, per scongiurare il ricordo.

L’idea della doppia vita lo conquistò subito.

Al lunedì sera, benché intirizzito dal freddo, eccolo seduto a leggere, nella piccola sala della biblioteca comunale.

Prese in questo modo a evadere ogni sera, benché talvolta non ne avesse l’entusiasmo. Ma quando, il giorno dopo, in ufficio, lo assaliva il panico di non fare a tempo e intorno le macchine levavano un fragore continuo, si rifugiava disperatamente nel pensiero di quella quiete. Usciva infine, alle sei, svuotato di energia, ma ripetendo tra sé che doveva essere nelle identiche condizioni del mattino.

Una sera il capufficio, mancava mezz’ora alla chiusura, lo chiamò alla sua scrivania:

«È arrivata questa distinta di effetti, bisognerebbe controllarla subito, prima di domani mattina. Lei ha già acquistato pratica, vero? Stia attento soprattutto a lasciarli nel loro ordine» e senza aspettare risposta gli affidò una enorme pila di cambiali, legate con elastici. Carabba non seppe reagire, eppure erano troppe per lui!

Mentre si trascinava alla macchina, sollevò la sedia sopra la propria testa e la mandò a urtare nel filo elettrico che collegava due grandi lampade. Queste ondeggiarono paurosamente e nell’ufficio si alzarono urla. Il capo picchiò un pugno sulla scrivania.

Carabba, annaspando, riuscì finalmente a sedersi, ma nello slegare le cambiali, ancora emozionato, le lasciò dilagare sul tavolo. Era il disastro... Se la sua somma non coincideva con quella della distinta, non poteva più trovare la differenza spuntando effetto per effetto: l’ordine delle cambiali era sconvolto.

“Devo sommare esattamente, perfettamente” si sforzò di pensare con lucidità. “I totali corrisponderanno e non ci sarà da spuntare.”

Si scosse, schiacciò i primi numeri.

Procedeva cautamente, gettando una occhiata anche alla striscia di carta, che a poco a poco si allungava, invadeva il tavolo.

A metà striscia era già sudato.

Ecco finalmente le ultime cambiali, l’ultima; schiaccia, chiudendo gli occhi, il totale:

20.827.661

Svolge la distinta:

18.531.868

«Corrisponde?» gli gridò il capufficio.

E poi:

«Venga qui! Coraggio! Venga qui che spuntiamo.»

La sua scrivania era rischiarata da una luce rossa.

Carabba accostò una sedia e il capufficio sbirciò i due totali:

«È una differenza forte, meglio così, spuntando si troverà subito. Legga pure.»

Carabba inghiottì:

27.000

2.000

150.000

5.121

9.000

5.431

7.300

100.000

10.000

6.327

9.000

5.532

6.155

5.200

10.000

5.426

5.000

«Un momento! Dopo 10.000, che numero ha detto?»

Carabba ripeté:

«5.462.»

«Ma qui c’è 4.800. Mi dia la striscia.»

Carabba gliela consegnò affranto.

Il capo invece, dopo qualche attimo di perplessità, disse:

«Niente paura, erano due effetti fuori posto. Continui.»

22.000

51.212

5.000

7.845

5.000

17.330

6.050

«Alt! Alt! Che numeri ha detto? Ripeta gli ultimi, per favore.»

Era la volta decisiva.

Ogni ordine, scomparso. Nessun legame.

«Ma lei ha mischiato gli effetti?» gridò il capufficio.

Carabba mormorò:

«Sì, mi pare.»

«Ah perdio...! Non doveva farmela! Centinaia di effetti...» appoggiò la fronte al palmo della mano. «Non riesco a capire... Non doveva farmela...!» ripeteva.

«Vediamo...» sembrò rianimarsi. «Vediamo questo numero, uno solo, 15.000, dove è finito sulla sua striscia.»

Forse fu per la fretta, o l’emozione, ma il capufficio sotto gli occhi ansiosi di Carabba non riuscì a pescare sulla striscia nemmeno quel 15.000.

«Basta!» esclamò. «Basta! Farò io! Vada pure!»

Carabba, più che uscire, si precipitò fuori, disperato.

Il colmo fu che sua madre, saputo del capufficio, domandò:

«Chi? Quello buono?»

In realtà sua madre si atteneva scrupolosamente ai “tipi” che lui le aveva descritto: il capufficio era “quello buono” per distinguerlo dal vice capufficio, che gli aveva fatto un giorno una osservazione sgradevole.

E lei naturalmente non prevedeva cambiamenti, inoltre non ricordava i nomi; tutte le volte che suo figlio citava un collega, interloquiva chiedendo se era quel tipo... eccetera eccetera.

Spesso faceva confusione tra i vari “tipi” e Carabba si irritava doppiamente.

Perché adesso i colleghi lui li conosceva per nome ed entrato con loro in una certa confidenza si era accorto di avere spesso esagerato e in alcuni casi di avere sbagliato il giudizio.

Ma sua madre, ferma al “periodo dei tipi”, glielo ricordava di continuo.

La sua decisione successiva, di tacere in casa, ebbe però una breve durata.

Non poteva trattenersi dal parlare, dal raccontare le sue giornate in ufficio. E ogni giornata lo sorprendeva, lo stupiva.

Alcune cose l’avevano colpito fin dalla prima volta e ancora adesso non lo lasciavano indifferente: le volgarità, ad esempio, le continue battute oscene dei suoi colleghi erano le stesse che si dicevano a scuola; ma qui stavano diminuendo la sua fiducia in un vago ideale di ritegno, che gli era sembrato finora una conquista dell’età matura.

Le sere, in banca, erano tranquille.

Carabba riusciva a “chiudere” per le cinque e mezzo e gli ultimi momenti li passava di solito alla sua scrivania, con l’intento apparente di mettere ordine nelle proprie carte: glielo avevano consigliato i suoi colleghi (la seconda sera aveva domandato se doveva chiedere lavoro al capufficio).

La scrivania chiudeva il vano di una finestra.

Alle sue spalle impacchettavano le cambiali, i rumori si alzavano radi, tutto l’ufficio sembrava immerso in una atmosfera riposante.

Carabba distraeva la sua stanchezza guardando fuori dai vetri il panorama della città, al tramonto.

Il cielo diveniva terso e spazioso e la luce dell’orizzonte colorava le nuvole: le tinte splendevano accese, variavano smorzandosi lentamente, fino a restare fredde sopra il bruno dei tetti.

Ma questi incanti bastavano a ripagarlo, gli vivificavano le sensazioni della giornata.

Altre volte, con un colpetto sulla spalla:

«Signor Carabba, se ha terminato il suo lavoro, aiuti a imbucare gli effetti.»

Questa operazione aveva luogo davanti a un enorme casellario, con pochi impiegati che trafficavano senza nessun profitto: appena il capo lasciava il cerchio di luce della loro lampada, riprendevano la conversazione interrotta. Carabba ascoltava con curiosità, senza intervenire, perché gli spiaceva che accogliessero ogni sua frase come il simbolo di una età “felice” e “perduta”. Del resto lo preferiva, il distacco che scopriva tra la sua e la loro mentalità era accentuato dalle sue evasioni serali, così che quei conciliaboli sotto la lampada finivano per apparirgli in una luce grottesca.

“È incredibile” sorrideva tra sé. “Assurdo...”

Un suo collega, strabico, stava spiegando che uso avrebbe fatto di una ricchezza ipotetica (e naturalmente immensa); due cose: il denaro in banca per la rendita (risatine dell’uditorio) e un harem di donne di ogni razza, delle quali avrebbe cercato di “garantirsi” anche la gratitudine con doni e mance. Ma il suo ostentato cinismo sul sentimento nelle donne provocava lo sguardo ironico dell’unica collega presente.

Ogni tanto, per sapere il capoluogo di qualche “piazza” sconosciuta, si ricorreva alla esperienza del caporeparto: quello pronunciava subito il nome esatto, poi si sporgeva dalla scrivania, sorridendo evasivamente e assaporando l’effetto della sua prontezza.