Storia di un verbalista
Si chiamavano verbalisti e, nella banca dove lavoravo molti anni fa, occupavano tavolini isolati su un ballatoio di ferro che girava sopra le nostre teste, vicino al chiarore grigio di un immenso lucernario.
Non avevano orari. A volte li vedevamo salire lungo la scala a chiocciola alla fine del pomeriggio, quando noi ci apprestavamo ad uscire e fingevamo di mettere in ordine le nostre carte, per ingannare il tempo e il capufficio. Il nostro sogno, entrando la mattina, era che fosse già sera. Non ho conosciuto altri posti in cui si desiderasse più ardentemente di invecchiare.
I verbalisti, sfiorandoci mentre eravamo curvi sulle scrivanie, ci guardavano con malcelato disprezzo. Talora interrompevano il ticchettio delle loro macchine e si affacciavano, il mento appoggiato alle mani, alla ringhiera del ballatoio, per osservarci dall’alto. Orgogliosi dei loro orari liberi, non li facevano mai coincidere con i nostri, ma questo alla fine li costringeva a orari non meno fissi e uniformi.
Dovevano raccogliere informazioni sui clienti che chiedevano un fido. Niente suscita più diffidenza che una richiesta di fido. La banca ne vive, come un ospedale dei malati, ma tratta i clienti in modo non dissimile: quanto più hanno bisogno di assistenza, tanto meno gliene offre.
Le informazioni dei verbalisti erano piccoli viaggi dentro la moralità, l’attività e il patrimonio dei “nominativi in oggetto”. Ricorrevano anzitutto ai pareri, e anche alle indiscrezioni, di altri clienti: e questi, in cambio di una segretezza aleatoria, svelavano spesso l’esistenza di doppie famiglie, con doppi appartamenti e doppie vacanze, e una personalità ovviamente doppia. In tali casi la moralità diventava “dubbia”.
C’era una correlazione inquietante tra peccato ed economia e la banca appariva l’ultima custode di un mondo di valori: caso rarissimo e misterioso, in cui tutte quelle parole potevano esser prese in senso letterale e in senso figurato e conservare intatta la loro validità.
Altra fonte di dati erano le agenzie di informazioni, che si rivolgevano anche loro ai clienti delle banche e talora, ma clandestinamente, alle banche stesse. Non mancavano disguidi imbarazzanti, in cui i verbalisti venivano confidenzialmente interpellati sui nominativi per i quali si erano già rivolti ai loro interlocutori. Non so se rispondessero in questi casi; ma è probabile che lo facessero, sostituendo le parole proprie – come accade spesso – con l’eco delle parole altrui.
In assenza di dati le agenzie interpellavano il nominativo stesso: caso veramente disperato, visto che il diretto interessato viene sempre considerato l’ultimo da ascoltare. Con frasi dapprima circospette, poi sempre più esplicite e infine ricorrendo al metodo più occulto di esercitare la corruzione e cioè di dichiararla, lo si invitava a compilare da sé il bollettino di informazione. Debitamente sobrio quando forniva i dati anagrafici, il cliente acquistava un tono categorico quando affrontava il tema della affidabilità commerciale. Questa enfasi, che per un orecchio esercitato avrebbe significato la sicurezza dell’ingiusto, più che la insicurezza del giusto, suscitava invece una impressione positiva. E spesso si trattava di un nominativo effettivamente affidabile: a conferma che un orecchio esercitato può fortunatamente sbagliarsi.
Lavoravamo nello stesso ufficio, eppure le distanze tra i verbalisti e noi apparivano incolmabili. Una volta uno di loro, sporgendosi dalla balconata, mi disse:
«Voi siete di un altro girone.»
Ed era vero. Quel ballatoio, nel piccolo inferno della banca, divideva due mondi. Allora ridevo di tali delimitazioni dello spazio, della ferocia con cui ciascuno difendeva un territorio fantastico, contrassegnato da pietre di confine immaginarie: ma le pietre reali di confine non mi sono poi apparse molto diverse. E ho capito che si modifica la scala, ma non il rapporto tra gli uomini.
Ci accadeva di sentirci accomunati solo certe sere, quando facevamo lavoro straordinario. Allora si usava chiudere i bilanci “alla lira”; e se c’era qualche discrepanza si restava fino a individuarne la causa. La banca, per alimentare il miraggio della perfezione, almeno in ambito contabile, non badava a spese. Finché, come inevitabilmente avviene, cominciò a badarci. Scoprì, dopo calcoli pazienti, che il costo delle ore straordinarie era sproporzionato.
E poi trovò ciò che ogni approfondimento di indagine riserva quasi sempre: una cattiva sorpresa. Infatti ci si accordava tra di noi per fare un piccolo errore di calcolo, che si annotava su un biglietto come la chiave di una caccia al tesoro. E poi, per due ore precise, si fingeva di cacciare l’errore, sotto le pupille inquiete del capufficio, che vedeva salire i conti della sua gestione e spesso interveniva per aiutarci. Afferrava con un impeto tra generoso e patetico una striscia di numeri e gettava sulla bilancia il peso della sua carica. Doveva avere la sensazione, sulla quale del resto si fonda il principio dell’autorità, che il suo occhio fosse diverso da quello degli altri e il suo volere potesse imporsi su tutto. Noi ci guardavamo in silenzio. E solo allo scadere delle due ore scoprivamo l’errore.
Qualcuno, nella euforia fatale della menzogna riuscita, eccedeva in entusiasmo: come un mediocre attore che, cercando di identificarsi con il personaggio, sfortunatamente vi riesce e sopprime la distanza; e alla fine dimentica anche che c’è un pubblico, che non glielo perdona. In quel caso il pubblico era un ispettore, che si aggirava tra i tavoli pensieroso: non era verosimile tanta solidarietà nei confronti dell’Istituto, che ne impedì infatti ulteriori manifestazioni.
I verbalisti, quando ancora ci vedevano affaticati a tale lavoro, abbandonavano il proprio e scendevano in quel parterre di simulatori. Fingevano di aiutarci, in realtà volevano scambiare qualche parola, mentre leggevano ad alta voce numeri sbagliati. Questa finzione aggiunta alla finzione pareva divertirli, anche perché confermava ironicamente la loro superiorità.
Non sapevamo perché si chiamassero così. L’ignoranza nasceva dalle due ragioni che sono le più idonee a preservarla: non ce lo eravamo mai chiesto; e credevamo di saperlo già. Verbalista forse si associava all’idea di verba, di chiacchiere con clienti e informatori; oppure si collegava all’idea di verbale, di questionario. Ho chiesto al cassiere della banca dove ho un conto corrente se esistono ancora i verbalisti. Mi ha sorriso stupito. Ho cercato di spiegare chi erano e lui ha annuito perplesso:
«Forse lei sta parlando dei settoristi.»
Ho provato a chiederlo a un funzionario, che ha rialzato la testa:
«Verbalisti? Mai sentiti.»
Allora ho consultato un vocabolario comune e poi il Lessico Universale Italiano e la parola non c’è. Niente come la scomparsa di una parola evoca la scomparsa di un mondo. I verbalisti non ci sono più. Ho perfino dubitato che siano esistiti sotto questo nome. Eppure non posso sbagliarmi, proprio perché la parola si incarnava in uomini che conoscevo.
Il più anziano tra di loro si chiamava Barbi. Era un individuo piccolo e scarno, taciturno, di carnagione scura. Aveva capelli folti e bianchi e occhi mobilissimi, vagamente febbrili. Qualcuno sottovoce lo chiamava Africa, perché nel suo aspetto e nella sua andatura, nervosa e insieme come rallentata, evocava qualcosa di africano.
Si era impiegato in banca nel primo dopoguerra, grazie alla sua conoscenza delle lingue. Ma poi lo avevano assegnato al settore dei verbalisti, forse perché, amaro e sarcastico, si sarebbe difficilmente affiatato con i colleghi. Questi aspetti non erano probabilmente sfuggiti al Capo del Personale: un uomo corpulento, gigantesco, che seguiva da vicino i percorsi, non solo all’interno della banca, dei suoi impiegati. I suoi modi sbrigativi, spesso brutali, in contrasto con quelli melliflui del suo predecessore, l’avevano reso stranamente popolare. Ricordo il viso terreo di un collega al ritorno da un colloquio con lui, nel quale aveva chiesto un avanzamento e si era sentito rispondere, o meglio urlare in faccia:
«Se lo metta bene in testa! Lei non farà mai carriera in questa banca! Glielo garantisco io!»
E lui, dicendomelo, aveva aggiunto rassegnato, in un soffio:
«Ecco uno che parla chiaro.»
Con Barbi la scelta doveva essere stata semplice. Carriera era per lui, già anziano, una parola priva di interesse. Ci considerava poco più che servi. E quando il suo capo, uomo per altro paziente e remissivo, si era azzardato un giorno a rimproverargli una assenza, avevamo udito risposte brevi e sibilanti, colpi di sferza che avevano lasciato l’interlocutore senza fiato. Da allora nessuno aveva più osato contraddirlo.
Si intuiva, dietro le sue reazioni, una sorta di collera divina, che non cercava alcuna motivazione per giustificarsi e trovava nella propria esistenza la sua legittimità.
Io ero l’unico con il quale avesse un rapporto amichevole. Forse perché ero ancora un adolescente e lui prossimo alla pensione. Forse perché intuiva che entrambi eravamo in banca di passaggio. La banca era un soggiorno obbligato per un periodo circoscritto. Lo è del resto per tutti, anche per coloro che salgono i gradini della carriera come la scala di Giacobbe e credono di ascendere all’Empireo: solo che loro non se ne accorgono.
La sua amicizia si manifestava, come accade, in piccole attenzioni: mi consegnava i bollettini già battuti a macchina, per risparmiarmi la copiatura. Oppure inseriva lui le informazioni nelle pratiche che dovevo seguire io. Forse fu per questa solidarietà che una sera, vedendomi spargere i foglietti verdi dei protesti cambiari sulla scrivania, come se facessi un solitario con le carte, mi chiese a bassa voce:
«Che cosa stai facendo?»
«Non lo vedi?» risposi. «Sto dividendo i protesti per nominativi.»
«Aspetta» disse lui. «Conosco un metodo migliore.»
Scelse con calma, dopo avere riflettuto, alcuni foglietti, poi si sedette vicino alla scrivania. Indugiò come un giocatore di scacchi prima di una mossa. Infine radunò i foglietti in un mazzo, li stracciò in due pezzi e li lasciò cadere nel cestino.
«Ma sei pazzo?» mormorai. Mi era parso di assistere a un sacrilegio.
«Aspetta» disse lui.
Aveva allargato le braccia sulla scrivania e con una mossa a tenaglia sospinse tutti i foglietti vicino alla sua giacca. Io cercai di strapparglieli, ma il capufficio, in lontananza, aveva alzato il viso nella nostra direzione.
«Ci sta guardando?» chiese lui senza voltarsi, vedendomi improvvisamente bloccato.
«Sì.»
«Non muoverti» disse lui impassibile.
Finì di raccogliere i foglietti e li riordinò. Poi, mentre il capufficio abbassava la testa e io la tenevo alzata, stracciò anche quelli.
Io ero come soggiogato. Non so quale forza mi spinse a dargli gli ultimi.
«Molto bene» mi disse. «Vedo che impari.»
Li stracciò più lentamente, con una sorta di devozione, quasi assaporando il gesto.
«Tu sei pazzo» ripetei senza guardarlo.
«Vuoi bere qualcosa?» mi chiese lui. «Sopra ho un piccolo bar.»
Quando scese dal ballatoio con una bottiglietta di vodka, ricordo che non gli feci alcuna domanda. Fu lui a chiedermi pacato, la fronte corrugata, guardandosi intorno:
«A che punto è questo lavoro?»
«È finito.»
Lui ebbe un breve sorriso:
«Invece tutti gli altri lavorano ancora.»
«Sì, perché hanno responsabilità» risposi senza convinzione.
«Può darsi che abbiano responsabilità, ma non hanno immaginazione.»
Aspettavo che continuasse.
«Questa è solo carta, capisci? Che importanza credi abbia praticamente? Quasi niente.»
Io ebbi la presenza di rispondergli:
«È quel quasi che mi preoccupa.»
«No, lo puoi eliminare» disse lui. «Lo uso perché altrimenti non mi crederesti. Ma è come un bicchiere in una alluvione.»
Io mi ero voltato a guardarlo.
«Se in un fiume che straripa vuoti un bicchiere d’acqua, cambia qualcosa?»
«Quasi niente.»
«Ecco, anche questi foglietti si perdono nella corrente.»
Io rivedevo un documentario di anni prima, con un fiume che straripava in pianura e l’acqua fangosa che sommergeva i campi, scivolava sotto le lunette degli archi, irrompeva da argini franati, fluiva tra le case coloniche: ed ecco che, affacciato a una finestra, un uomo vuotava un bicchiere nella corrente.
Quel gesto, e la irrilevanza delle conseguenze, mi indussero a imitare il comportamento di Barbi. Lui mi seguiva dall’alto e quando si accorgeva delle mie manovre distruttive, mi incoraggiava.
«Non succede niente» ripeteva, omettendo il quasi, con la complicità che un maestro riserva a un discepolo maturo.
A volte lasciavo che i foglietti si accumulassero sulla mia scrivania, schiacciati da un fermaglio di acciaio. E quando vedevo l’occhio del capufficio che, le braccia dietro la schiena, li fissava con ostentazione, provavo un piacere sottile a prevedere lo sgombero: che avveniva di solito verso sera, in tempi sorprendentemente brevi, mentre Barbi dal suo ballatoio sembrava officiare il rito blasfemo.
A mano a mano che si avvicinava alla pensione, Barbi diventava sempre più insofferente verso quello che chiamava lavoro immaginario. Una sera mi indicò un collega che, in un angolo, collocava adagio, su pile regolari, i suoi foglietti.
«Lo vedi?» mi sussurrò. «Lui non sta lavorando. Sta espiando colpe che non ricorda.»
Io richiusi i cassetti della mia scrivania.
«Alla banca non interessa che accarezzi i foglietti» proseguì. «Sono riti che riguardano solo lui. Lo vedi come è sereno, come si sente a posto con la coscienza?»
«Ma c’è qualcosa che interessa alla banca?» gli chiesi.
«Quasi niente di quello che facciamo» abbassò la testa. «Sì, c’è una parte minima di lavoro utile, ma il resto è immaginario. È carta che potrebbe sparire, come noi.»
Io lo ascoltavo affascinato, anche se non riuscivo a credergli alla lettera. Erano piccoli passi verso la verità, non per una via diretta, ma per una figurata. Più tardi ho scoperto che non ne avrei mai conosciuta un’altra.
Un giorno mi fece salire sul ballatoio. Mi aprì alcuni cassetti di metallo, che contenevano pile di cartelle.
«Questo era il mio archivio» disse. «Ma ormai non mi serve.»
Si toccò con un dito la fronte, aggiungendo:
«È questo il mio archivio.»
«La memoria, vuoi dire.»
«No, la fantasia.»
Io lo osservavo incredulo:
«Vuoi dire che ti inventi tutto?»
«Ecco» sospirò. «Quasi tutto.»
Presi posto su una sedia.
«Vorresti che mi comportassi come quelli?» mi indicò gli impiegati sottostanti. «Io credo di avere capito qualcosa del lavoro e lo metto in pratica.»
«Ma allora non fai più le interviste ai clienti?»
«No» mi disse, sedendosi di fronte a me. «Faccio le interviste a me stesso.»
«E che risposte ti dai?»
«Dipende» sorrideva. «A volte sono minuzioso, a volte vago. Magari sullo stesso nominativo do informazioni contraddittorie, così non mi espongo.»
Sentivo che era il momento di fargli domande, perché in un’altra occasione non avrebbe risposto.
«E i nomi degli informatori come li trovi?»
«Sempre nello stesso archivio. Li invento.»
Dall’ufficio saliva un brusio di voci e di macchine.
«E nessuno si è mai accorto di niente?»
«Mai» negò con la testa. «Conosco il lavoro.»
«E perché lo fai?»
«Per non lavorare» rispose. «O meglio per fare un altro lavoro.»
«E qual è l’altro lavoro?»
Lui mi guardò con aria provocatoria, quasi volesse sfidarmi:
«Prova a indovinare» mi disse.
«Non ne ho la minima idea» risposi. «Sarà un lavoro diverso.»
«Ti sbagli» mi disse soddisfatto. «Una volta che sei pratico di un mestiere, perché abbandonarlo?»
«Qual è allora il tuo mestiere?» gli chiesi, con una curiosità che lasciò sorpreso anche me.
«Le informazioni» rispose. «È un campo in cui mi muovo come nessun altro.»
«E per chi lavori?»
«Per alcune agenzie.»
Non sapevo più quali domande fargli.
«Apri gli occhi finché sei in tempo» mi disse. «Io ci sono arrivato tardi.»
Barbi fu collocato in pensione l’anno dopo. I colleghi fecero per lui una piccola festa. Ci fu un brindisi sul ballatoio, poco prima dell’uscita. Gli chiedevano:
«E adesso che cosa farai?»
ma lui evitava ogni volta di rispondere. Solo alla fine, quando accettò di pronunciare qualche parola di commiato, disse:
«Io resto tra voi.»
1985