Otto

L’ufficio nuovo era stranissimo.

Piccolo, privo di finestre, con le pareti foderate di cassetti di ferro.

Di ferro anche un ballatoio che girava all’interno e sul quale stavano appollaiati i verbalisti, a contatto con la vetrata grigia e sporca del soffitto.

L’aria era secca, si impregnava subito di fumo.

Non esisteva, durante il giorno, alcuna aerazione sensibile, data la scarsa efficienza dei ventilatori e delle bocchette. Soltanto di notte si lasciava entrare la nebbia da speciali aperture, a raffreddare i primi arrivati del mattino dopo.

Carabba fu orientato in queste constatazioni dai commenti negativi che sfuggivano al suo nuovo maestro.

Le presentazioni erano state semplici.

Il capufficio aveva i capelli bianchi, la mano destra coperta da un guanto nero e un’aria piuttosto stanca.

Gli disse qualche frase d’incoraggiamento, prima di affidarlo all’impiegato.

Tutto appariva più normale e più calmo che nel primo ufficio.

Non c’era l’assillo del tempo, il suo maestro almeno non sembrava preoccuparsene: procedeva ordinatamente e gli dettava appunti, ricorrendo qualche volta al dialetto, in una sua maniera pittoresca.

Carabba non afferrava molto né capiva il senso generale del lavoro: l’unico suo conforto erano le settimane a disposizione, parecchie, lo rassicurava il suo maestro.

Nel corso della mattina l’ufficio rimase ovattato in una atmosfera quieta.

Ci si alzava soltanto per estrarre le pratiche dai cassetti di ferro. Oppure per battere le somme a una piccola addizionatrice, una miniatura rispetto a quelle massicce e rumorose del Portafoglio.

Notò anche che lo guardavano, di tanto in tanto, dalle scrivanie laterali. Ma nessuno si avvicinò per fargli domande, tranne una impiegata che gli chiese se era nuovo della banca.

«È già stato al Portafoglio? Ma quanti anni ha?»

«Diciassette» rispose Carabba.

Sorrideva; ormai si era abituato, dopo un mese di banca, a considerare la propria età come qualcosa di inaudito.

Infatti lei ammutolì: «Diciassette anni?».

Si portò la mano alla bocca semiaperta:

«Diciassette anni!»

Subito la notizia si sparse e tornarono a guardarlo dalle scrivanie e anche sopra, dal ballatoio.

Sua madre dovette subire, al mezzogiorno, la descrizione dell’ufficio.

Discusse però una immagine di cui si era servito per renderglielo più evidente: l’aveva paragonato alla cabina di un transatlantico, ma lei rifiutava, ripetendo con fermezza che le cabine di un transatlantico sono dotate di oblò e non sono di ferro. L’ufficio semmai poteva ricordare la sala-macchine di un transatlantico.

Questo intoppo lo indusse a non farla entrare nei dettagli del nuovo lavoro. Si limitò a dirle che si trascrivevano gli importi delle cambiali e che si ricopiavano informazioni.

In realtà, il lavoro risultava abbastanza complesso, specie per lui che ignorava ancora che cosa fosse una cambiale e fino allora ne aveva preso in considerazione solo la piazza e l’importo.

Imparava gradualmente e certi particolari, prima trascurati, gli rivelavano d’improvviso la loro importanza e insieme l’inconsistenza e la contraddittorietà delle sue idee precedenti.

«Basta che tu non sbagli» lo rassicurava il suo maestro. «Con il tempo capirai.»

In effetti si poteva lavorare senza capire la teoria: o afferrandola, magari, tutta al contrario.

Il controllo del lavoro funzionava, invece, in modo elementare.

Ogni sera bisognava indicare, sul mastro della statistica, quante pratiche si erano compilate e il numero di cambiali relativo.

Naturalmente il capo consultava la statistica quasi ogni sera e ne traeva gli elementi di giudizio. Questo controllo creava negli impiegati continue complicazioni, che Carabba avvertiva, benché per il momento non lo coinvolgessero: improvvisi rialzi della media, originati dal rientro dalle ferie di un impiegato zelante o dalla estemporanea esaltazione di un oscuro. Oppure periodi di stasi, in cui la media oscillava su cifre basse e c’era come un tacito accordo di non modificarla. E le strategie e i trucchi, gli scatti tempestivi per impadronirsi delle pratiche migliori, riconoscibili nei pacchi appena arrivati.

Spesso queste schermaglie perdevano di vista il loro scopo (la semestrale nota informativa del capufficio) per ridursi a ripicchi e gesti di rivalità, a malignità e dispetti.

Infatti il capo non esercitava grandi pressioni.

Bisognava riconoscerlo. Era stanco, assente, alla ricerca scettica di una autorità che troppe volte doveva essersi trasformata in rinuncia. Soltanto ai nuovi, e Carabba ne fu subito informato, cercava nei primi tempi di inculcare un suo vecchio motto, “Velocità e precisione”.

A Carabba infatti si avvicinò due volte e ogni volta glielo ripeté.

La terza volta citò esclusivamente la velocità, però nell’andarsene aggiunse:

«Certo non bisogna dimenticare la precisione.»

Carabba, volendolo assecondare almeno in parte, fu costretto a scegliere la precisione; della velocità era prematuro parlare.

Decise di pulire la scrivania, di diventare ordinato e di perdere il vizio di distrarsi.

A scuola provava una certa compiacenza a passare per distratto.

Ma al Portafoglio, dove aveva commesso la leggerezza di parlare di sé, l’impiegata che lavorava con lui si era rifiutata, dopo appena due giorni, di collaborare, asserendo che gli errori di distrazione la mettevano in uno stato di tensione.

Carabba arrossiva ancora a pensarci.

“Basta” decise.

Ma tre giorni dopo non si trovavano alcune schede, che aveva avuto in consegna proprio lui.

Naturalmente lo interpellarono più volte:

«E nel suo cassetto? Controlli il suo cassetto, per favore.»

Carabba tutte le volte aveva aperto il cassetto, spostato le carte, frugato e negato con convinzione, allargando le braccia.

Visto che il maggiore indiziato non ne sapeva niente, gli impiegati cominciarono a perlustrare ogni scrivania, a muovere ogni tavolo, a interrogare i commessi, a sollevare le macchine da scrivere e infine a rovistare nei luoghi più improbabili e assurdi.

Anche il capo diede segni di impazienza e al caporeparto sfuggirono imprecazioni tali da indignare l’impiegata più anziana dell’ufficio.

In mezzo al subbuglio Carabba, memore delle passate esperienze, ebbe un gesto di panico.

Aprì il cassetto e vide, in una cartella trasparente, le schede.

Si iscrisse all’università di lingue.

Confermava così le sue dichiarazioni all’Ufficio del Personale e in questo senso era più tranquillo e non temeva complicazioni. Ma, a convincerlo, furono piuttosto i consigli insistenti dei suoi conoscenti.

Gli dicevano che i buoni risultati nelle materie letterarie, al liceo, non bastavano per decidere dell’università.

Bisognava tenere presenti altri fattori, la sua nuova vita di impiegato, i vantaggi della carriera, la possibilità di approfondire da solo la propria cultura.

Svanita così gradualmente, stranamente, l’idea della università di lettere, Carabba si orientò verso quella di lingue: abbinava, in fondo, gli studi letterari con l’utilità pratica.