Viaggio di ritorno

Il suo compito era questo: ottenere dalla vedova dello scrittore l’autorizzazione a pubblicare il diario dello scomparso. Si sussurrava che la riluttanza di lei fosse dovuta a ragioni private, perché forse il defunto aveva vissuto, dopo i sessantotto anni, una storia d’amore. Il diario alludeva, con la iniziale A, a una donna amata e si poteva ragionevolmente escludere che si trattasse della moglie. La scrittura, minuta e chiara, lasciava trasparire incontri al caffè, sorrisi, attese, immagini di una felicità tardiva e ansiosa. Un amico di famiglia, dopo averlo letto, aveva alzato gli occhi sulla vedova e annuito con un sospiro, non si capiva se di solidarietà con lei o con il defunto. Ne aveva poi accennato all’editore, socchiudendo gli occhi, con pause piene di tatto. E l’editore aveva pensato che inviarle in avanscoperta un redattore giovane e sconosciuto non pregiudicava ulteriori tentativi e forse poteva dare qualche frutto. Congedandolo gli aveva detto:

«Soprattutto lascia parlare lei. Chi ha vissuto con uno scrittore non immagini come ne abbia bisogno.»

Ripensava a queste parole mentre l’ascensore lo trasportava al sesto piano. Uscì su un pianerottolo ampio. Si toccò il nodo della cravatta e suonò alla porta di destra. Una donna minuta, scarna, aprì quasi subito. Mormorò:

«Lei è Carlini, vero?»

«Cardini, signora» rispose lui, inchinandosi leggermente.

«Oh, mi scusi!» esclamò la donna, scostandosi per farlo entrare. «Mi sbaglio sempre con i nomi.»

Lo precedette in uno studio in penombra, il pavimento ricoperto da tappeti e le pareti da librerie a vetri che salivano fino alla cornice del soffitto. Aprì le persiane scorrevoli della finestra e una striscia di luce, filtrando il pulviscolo, divise la stanza. Lei si sedette dietro una scrivania, e gli indicò una poltrona di cuoio nero.

«Come è giovane!» mormorò disorientata, mentre lo guardava sedersi. «Ma lei conosceva mio marito?»

«No, signora. Mi dispiace. Però conosco i suoi libri. Qualcuno, almeno.»

«Ah sì?» Continuava a osservarlo con una trepidazione delusa: «E quali?».

Lui allargò le braccia:

«L’ultimo, Destinazione ignota. Mi è piaciuto molto.»

«Già» annuì lei. Dopo una pausa aggiunse:

«Pensi che era convinto fosse un libro sbagliato. A cominciare dal titolo, lui voleva chiamarlo Viaggio di ritorno. Però l’editore gli scrisse che era un titolo malinconico. Lei che cosa ne pensa?»

Lui rifletté, poi abbassò la testa:

«Forse è meglio Viaggio di ritorno.»

«Anch’io lo preferisco, vede» assentì lei. «Però è difficile dimostrare agli editori che sbagliano, perché non c’è la controprova. E loro sono abituati a darsi ragione da soli. Ma anche per questo diario, non so se l’abbiano.»

Lui rialzò la testa.

«Non credo che volesse pubblicarlo» continuò lei. «Altrimenti non me lo avrebbe tenuto nascosto. L’altro che ha pubblicato lo lasciava sulla scrivania.»

«E lei lo leggeva?»

«Certo, a volte gli indicavo dove non mi pareva convincente, spesso lo correggeva.»

«Strano» disse lui perplesso. «Correggere un diario.»

«Perché?» lei guardava davanti a sé. «Per lui era normale. Diceva che la sincerità è come il salto in alto, è una vittoria su se stessi, sulla forza di gravità. Perciò si ha bisogno di energia, di immaginazione e mi chiedeva di aiutarlo.»

«E per questo ultimo?»

«No» rispose lei ritraendosi e appoggiando le mani sui braccioli. «Lo teneva sempre chiuso nel cassetto.»

Fece per aggiungere qualcosa, ma poi si trattenne e si limitò a dire:

«È così. Comunque abbiamo sempre cercato di parlare, non di tacere.»

Lui esitò, poi a voce più bassa le chiese:

«E invece in ultimo le sembrava un po’ diverso?»

«Sì» guardò verso la finestra.

«Nel diario allude a qualcosa di preciso?»

«No, non lo faceva quasi mai» rispose con una vaga insofferenza. «Diceva che la linea più breve per collegare due punti non è una retta, ma una curva. Si figuri se era diretto nello scrivere.»

Lui scosse la testa:

«Bisognerebbe leggerlo.»

Lei lo guardò con un interesse inquieto:

«Perché?»

«Perché un diario così va interpretato. E forse un estraneo si trova in una posizione più favorevole.»

Lei continuava a guardarlo, le mani allacciate.

«Ne sono convinto, signora.»

Aggiunse:

«Potrebbe essere una verifica dall’esterno.»

Lei esitava, ma a un tratto disse:

«Ora glielo mostro.»

Estrasse dal cassetto centrale della scrivania due quaderni neri, legati con un elastico. Disse:

«Legga il primo qua e là. E mi dica la sua impressione immediata, senza riflettere.»

Le pagine a quadretti erano gremite di una scrittura in inchiostro verde.

«Dimentichi il problema della pubblicazione, mi dica quello che pensa» insisteva lei.

Lui aveva già incominciato a leggere: “La vide in fondo a una scala, nel buio di un cinema, e poi che gli stringeva il braccio in via Meravigli, dimmelo, sorrideva, non ha importanza, perché fai sogni angosciosi, il balcone sul lago, amore, un posto così bello, non credo di sbagliarmi, capisci tante cose, a lungo senza parlare, il suo sorriso nel finestrino del treno”.

Lui fissava un’anfora ricamata sul tappeto, tra le sue scarpe.

«Mi sembrano immagini vaghe» disse. «Appunti.»

Lei lo osservava dietro la scrivania:

«Appunti?»

«Sì, signora.»

«Appunti di che genere?»

«Narrativi. Vede, ad esempio, quante volte ricorre un costrutto tipico, “lei che dice, io che rispondo”, come se immaginasse, scorciandole, certe scene. Non le pare?»

«Non lo so» esitava. «Legga ancora.»

“Essere se stesso, non un altro più giovane, mentire, dono celeste, quello che ho sempre temuto, quanto tempo davanti, la salita fino al paese, il bosco.”

Si fermò e la pagina divenne un reticolo di linee verdi.

«È molto bello» disse. «È un viaggio fantastico.»

«Guardi,» aggiunse «c’è un altro costrutto tipico dell’appunto narrativo, “ricordare, ricordare lei alla stazione, ricordare l’albergo sul lago”...»

Lei lo interruppe:

«Ma “ricordare” si riferisce di solito a una esperienza vissuta, per non dimenticarla.»

«Sì» ammise lui. «Questo è vero. Però, anche se è un’ipotesi possibile, non è la più probabile. Usa il modo imperativo troppe volte, come se volesse fissare le immagini prima che gli sfuggano. Suo marito aveva in mente un altro romanzo?»

«Sì» lei si rianimò. «Me ne parlava qualche volta. Una storia d’amore, un uomo anziano. Diceva che era apparentemente banale, e perciò interessante.»

«Banale?» le chiese.

«Sì, ma solo nel senso di comune, di frequente. Provi a guardare anche il secondo quaderno.»

“Il lago di Pusiano, la terrazza con il pergolato, arriva tutto tardi, mai avrebbe pensato, quale senso, lei che ripete, all’angolo di via Petrella, domani.”

Quando terminò di sfogliarlo rimase pensieroso.

Poi disse:

«Vede, non solo non è un diario nel senso comune del termine, ma probabilmente non è neanche un quaderno di appunti.»

«E che cos’è allora?»

Lui rifletteva:

«Non lo so bene» rispose. «Mi sembrano come scene già scorciate, fotogrammi, sequenze brevissime. Anche il taglio è curioso, è a metà strada tra il promemoria e l’invenzione.»

Lei lo ascoltava senza muoversi.

«Forse suo marito all’inizio pensava agli appunti per un romanzo, ma poi questi appunti si disponevano in un modo già definitivo.»

La guardò e aggiunse:

«Infatti la costruzione tiene, la lettura prende.»

«Sì» disse lei.

«E questo potrebbe spiegare perché non glielo lasciava leggere come il diario.»

«Perché?»

«Perché appunto non era un diario letterario. Era probabilmente una forma nuova, che andava scoprendo a mano a mano e che aspettava a mostrarle. Infatti io non lo pubblicherei come diario.»

Lei alzò il viso:

«E come?»

«Io lo pubblicherei come uno scritto autonomo, insieme ad altri inediti.»

Lei taceva. Le chiese:

«Non le pare, signora?»

«Già» mormorò. «Si può pensarci.»

Uscendo sulla strada, nel tramonto afoso, tra passanti e automobili, lungo le corsie del viale, si arrestò come smarrito sull’orlo del marciapiede, finché vide una tabaccheria sull’angolo. Entrò in un corridoio invaso da persone e facendosi largo in un frastuono di voci si diresse al telefono appeso al muro.

«È andata bene!» avvicinò la bocca al microfono. «Credo che ci darà la fotocopia.»

«Come hai fatto?» gli chiese l’editore.

«Le ho detto che non era un diario, ma una specie di viaggio fantastico.»

«E lo era?»

«No, mi sembrava una cosa vera.»

Guardò, vicino al suo, il viso rugoso di un uomo anziano, le braccia incrociate, che aspettava di telefonare.

«Come hai detto?»

«Era un amore vero.»

«Ah» disse l’altro.

Dopo una pausa aggiunse:

«Ho capito. Ci vediamo domani. Ciao. Sei stato bravo.»

«A domani» rispose.

Quando riappese il telefono, chiuse un attimo gli occhi, soddisfatto, scontento, turbato. Vedeva lei nelle varie immagini e poi lui.

«Ha finito?» gli chiese l’uomo alle sue spalle.

«Sì» rispose voltandosi. «Ho finito.»

1979